A Gloria del Gran Maestro dell’Universo e del Nostro Protettore San Teobaldo

Adolfo Omodeo

L'ETA'DEL RISORGIMENTO ITALIANO

Ristampa della IV Edizione - Napoli, Vivarium, MCMXCVI

- DAL 1820 AL 1830 -
3. LA RIVOLUZIONE PIEMONTESE

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Più ardita e più libera fu la formazione della rivoluzione piemontese dei federati. Oltre il lavoro oscuro e settario della carboneria, v'era nelle sfere più elevate un ardore palese, che, lasciando nell'ombra le rivendicazioni liberali, voleva la grandezza del regno con l'indipendenza d'Italia; sentendo l'onta della passata servitù alla Francia esacrava egualmente l'egemonia austriaca, e con la guerra voleva ringagliardire il risorto esercito sabaudo. La stessa monarchia non voleva spegnere tali sentimenti : anche a corte si parlava alto contro la politica austriaca. Sopra tutti smaniosa era una parte dei giovani ufficiali e della nobiltà. Un sentimento fermentato nei cuori negli anni del dominio napoleonico erompeva, perché non si vedeva interpretato dalla reazione. E si tendeva ad attribuire la reazione non direttamente al re, ma all'influenza austriaca. Per agire sulla politica dello stato, una parte dei nobili federati, grandi proprietari terrieri, avrebbe voluto la costituzione francese concessa da Luigi XVIII : la borghesia Carbonara reclutata fra i liberi professionisti delle città invece inclinava alle forme apertamente democratiche della costituzione spagnuola e alla riduzione della preponderanza dei nobili nelle cariche.
Di concreto ben poco però si seppe preparare. Il rispetto verso il bonario Vittorio Emanuele I paralizzò i federati. Sfuggì la possibilità d'una coordinazione del movimento con quello napoletano, e la rivoluzione scoppiò per maturazione spontanea. Il programma carbonaro prevalse su quello federato : la coesione di monarchia e costituzione non si trovò affatto preparata; non si trovò preparata la guerra che doveva coronare il moto : fra monarchia e costituzionali discordi, l'Austria potè incunearsi facilmente.
I federati credettero di aver fatto tutto lavorando il principe Carlo Alberto di Carignano. I rapporti fra il principe e i federati non sono molto chiari : le prove d'una vera e propria partecipazione sfuggirono anche ai nemici di Carlo Alberto, che dopo l'insuccesso della rivoluzione potevano avere interesse a documentarle. Certamente Carlo Alberto prestò orecchio ai disegni dei federati anche se non vi partecipò direttamente. D'onde un'ambiguità fatale sia al principe che ai costituzionali : ambiguità dovuta sopra tutto al carattere moralmente timido, perplesso, pigro di Carlo Alberto. I capi del movimento, il Santarosa, il Moffa di Lisio, l'Asinari di San Marzano figlio del ministro degli esteri, il Provana di Collegno credettero che l'aver prestato orecchio ai progetti costituzionali, fosse già, da parte del Carignano, un impegno. Carlo Alberto, che invece avrebbe preferito esser trascinato, non voleva venir meno al rispetto dovuto all'autorità regia, e credeva d'aver fatto sentire, più forse di quanto non l'avesse realmente fatto, queste limitazioni. Secondo ogni probabilità egli vagheggiò per un momento di porsi arbitro fra la monarchia e il moto liberale : ma gli mancarono le necessarie doti di vigore.
L'agitazione cominciò nel gennaio. La polizia ebbe un sussulto di rigore: l'i i gennaio 1821 arrestò alcuni studenti recatisi a teatro con berretti con fiocchi neri, e il giorno dopo represse sanguinosamente i tumulti scoppiati in conseguenza nell'università.
Il coro di proteste contro tale violenza fu vastissimo ; il Carignano mostrò palesemente le sue simpatie per gli studenti feriti. Federati e carbonari intensificarono la loro attività; la corrispondenza coi federati di Lombardia, capitanati dal Gonfalonieri, si fece più attiva. Ai primi di marzo i capi della congiura avvertirono il Carignano dell'imminente scoppio del movimento. Il principe promise di farsi mediatore fra re e costituzionali : il che fu interpretato come adesione. Poi si disdisse e raccomandò d'arrestare l'agitazione. Aveva avuto notizie certe dei deliberati di Lu-biana, che non lasciavano dubbi sull'intervento delle potenze. Il contrordine fu efficace a Torino. Non giunse a tempo ad Alessandria, dove l'8 marzo il colonnello Ansaldi levò sulla fortezza, baluardo contro l'Austria, insieme col tricolore carbonaro, il tricolore italiano. Il moto poi s'estese a Vercelli, raggiunse le porte di Torino.
Il re cercò d'indurre all'obbedienza gl'insorti, con la promessa del perdono. Non vi riuscì. Repugnava al suo animo la repressione violenta, d'altra parte proprio in quei giorni il suo ministro marchese di San Marzano gli aveva recato da Lubiana i deliberati delle potenze contrarie ad ogni innovazione liberale in Italia. Il 12 marzo la rivolta militare s'impossessò della cittadella di Torino e minacciò il bombardamento della città. Vittorio Emanuele I allora abdicò (13 marzo) e, poiché l'erede Carlo Felice si trovava a Mo-dena, il principe di Carignano fu nominato reggente.
La posizione del Carignano era difficilissima. Non a-vrebbe voluto prendere nessuna iniziativa a insaputa di Carlo Felice. Mia era evidente che, se Vittorio Emanuele I aveva abdicato, il principe doveva prendere le risoluzioni repugnanti al vecchio re. D'altra parte i federati premevano, e non a torto. Stava per sfuggire il momento propizio d'invadere la Lombardia quasi sguarnita per la marcia del Fri-mont nel Napoletano. Troppo tempo si era perduto a piegare la monarchia al movimento. I liberali lombardi, che per mezzo del conte Pecchio e di Gaetano Castillia erano in continue relazioni con i federati, correvano pericolo di trovarsi compromessi. Il congresso di Lubiana era ancora riunito e il Metternich disponeva dello strumento per agire, II Carignano dovette promulgare perciò la costituzione di Spagna, nominare una giunta con i poteri del futuro parlamento, concedere amnistia agl'insorti : i quali poi del provvedimento si risentirono, perché il movimento patriottico, per loro in tutto simile a quello che aveva trascinato la Prussia sui campi di Lipsia, non era un delitto, anche se per un momento si era usciti dagli stretti obblighi della disciplina. Da parte sua il Carignano si sentì profondamente amareggiato e avvilito della pressione subita, e allora sorse in lui il profondo rancore che per lunghi anni lo divise dai liberali e il proposito di cogliere ogni occasione per soffocare il movimento che lo aveva portato alla reggenza. Intanto intervenne Carlo Felice.
Costui da Modena intimò al Carignano, che, se ancora qualche goccia del sangue dei Savoia scorreva nelle sue vene, si recasse con le truppe ubbidienti a Novara e si ponesse agli ordini del conte de La Tour. Il La Tour andava raccogliendo colà le milizie fedeli, e si univa ai 15.000 austriaci comandati dal maresciallo Bubna che Carlo Felice aveva chiesto ed ottenuto senz'altro dal congresso di Lubiana. Il congresso di Lubiana aveva anzi deliberato che, se a riordinar l'Italia non fossero bastati gli austriaci, sarebbero intervenuti i 100.000 russi di rincalzo.
Il principe ubbidì. Mostrò ancora fino a tutto il 20 marzo di dirigere la rivoluzione. Siccome ai federati di A-lessandria pareva debole il governo di Torino, egli la mattina del 20 nominò il Santarosa ministro della guerra. Ma nella notte uscì da Torino con una parte delle truppe e si recò a Novara. Consegnò al La Tour le milizie fedeli, e scortato dagli austriaci si recò a Modena ove Carlo Felice rifiutò di riceverlo e gli comunicò l'ordine di recarsi a Firenze presso il granduca suo suocero.
A Torino il Santarosa cercò di salvare la rivoluzione esercitando una febbrile dittatura. Ma la massa rivoluzionaria, cresciuta nei momenti d'apparente successo, si scompaginò. La rivoluzione avrebbe, secondo i piani, dovuto svolgersi in guerra d'indipendenza. Ma il pronunciamento militare aveva disordinato l'esercito. Molti soldati, ritenendosi vincolati solo dal giuramento di fedeltà a Vittorio Emanuele I, disertavano; i riservisti non accorrevano sotto le bandiere; il corpo degli ufficiali era sempre legato ai Savoia. La fuga del Carignano completò lo sfacelo. Unico caposaldo della resistenza era Alessandria. Da lì poche migliaia d'insorti mossero contro Novara, ma furono rotti dalle forze superiori del La Tour e del Bubna (8 aprile).
Gli austriaci occuparono Alessandria, e il movimento costituzionale si dissipò. Il regno fu ridotto all'obbedienza. Per fortuna, Carlo Felice non mostrò desiderio di rientrar subito nel regno, e i suoi luogotenenti, il La Tour, il Thaon de Revel e il Geneys governatore di Genova procedettero in guisa da lasciar fuggire i capi dello sfortunato movimento, sì che, tranne tre casi, la reazione fu incruenta: e le condanne a morte pronunziate in contumacia fra cui quelle contro il Santarosa, il Collegno, il Lisio, il principe del Pozzo della Cisterna, il Perrone di San Martino, l'Avezza-na, non privarono l'Italia di vite preziose. Errato nei calcoli politici, angusto nella sfera d'azione, il movimento piemontese non mancava di magnanimità e di virilità di propositi. In molti di quegli uomini, sopra tutti nel Santarosa, si presentono il Mazzini e il Gioberti, e ferve un'ansia di patria italiana, che influì non poco a dare al moto un carattere irriflessivo sì, ma che d'altra parte è documento d'un bisogno vitale di nazionalità. L'Italia è calata dalla letteratura nell'azione.
Le conseguenze immediate furono però disastrose. Anche il Piemonte dovette subire per un anno l'occupazione austriaca: l'esercito fu scompaginato, il regime di polizia intensificato con molestia di tutti ; centinaia e centinaia di ufficiali e d'impiegati furono licenziati. Le miserie dell'esilio colpirono moltissimi altri.
Carlo Felice, uomo mediocrissimo, abbandonò completamente ogni idea di politica antiaustriaca. Il Carignano umiliato in tutti i modi dalla reazione, ferito dall'amara prova proprio nei sogni d'ambizione e di gloria nutriti in cuore, pieno di rancore contro i liberali che da parte loro lo coprivano di maledizioni come traditore della causa, chiese d'arruolarsi nell'esercito francese che s'apparecchiava ad abbattere la costituzione in Spagna. La consociazione fra la casa Savoia e il liberalismo, che pareva tanto ovvia verso il 1820, fu ritardata fi.no al 1848.


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