A Gloria del Gran Maestro dell’Universo e del Nostro Protettore San Teobaldo

 

La rivolta del Cilento nel 1828 sotto i Borbone

GLI EROI OSCURI
DEL RISORGIMENTO

di GIOVANNI PIZZORNO
dal sito webwww.cronologia.com/welcome.html

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Mi sono sempre chiesto i destini e i meriti di migliaia di sconosciuti padri della Patria, cioè la parte che nel Risorgimento hanno avuto i seguaci dei grandi capi e dei loro più noti luogotenenti per esempio, chi erano gli insorti piemontesi e napoletani del 1820-21, chi erano i 300 di Pisacane e i suoi sostenitori di Napoli e Ponza (come il mio bisnonno Piro, ufficiale sull’isola), i compagni di Agesilato Milano (del resto anch’egli scomparso dall’Enciclopedia Universale Garzanti del 1994), chi erano i Mille di Marsala oltre le poche decine di vice-Garibaldi noti?

L’Italia esiste non soltanto per i grandi intellettuali dei vari movimenti dal Settecento in poi, non soltanto per la quadruplice illustre (Cavour, Garibaldi, Mazzini e Vittorio Emanuele II), per i capi delle Cinque Giornate, per Ludovico Manin e per i triumviri della Repubblica Romana; ma per i 108 impiccati del 1799, per i carbonari ignoti, per centinaia di milanesi, bresciani e veneziani sconosciuti, per gli undici fucilati dai papalini a Perugia nel 1849, per il figlio tredicenne di Ciceruacchio fucilato dagli austriaci, per la famiglia del fornaio milanese bruciata viva dai croati, per Teresa Battistotti Sassi combattente nel marzo 1848 e per i trenta Romani di Trastevere, trucidati con la padrona di casa, incinta, nel 1867; e così via. 

Una delle tante possibili risposte me la dà un notevole libro di GIUSEPPE GALZERANO, giornalista pubblicista, su una rivolta del Cilento, ignota come i suoi protagonisti. Certo, è in atto da decenni, sotto influenze culturali le più varie, una dissacrazione del Risorgimento che è arrivata ai limiti della negazione, insieme ad uno strisciante revisionismo in favore dei Borboni.

Eppure, la famosa frase di Gladstone riferita ai borboni ("Governo negazione di Dio") non è né di un carbonaro né di un "piemontese"; né tali sono le storie di un Cuoco per il 1799, né le memorie di un Settembrini per i primi decenni dell’Ottocento; così come sono inconfutabili i tradimenti dei Borboni alle costituzioni giurate, le condanne ai ministri costituzionali, oltre che agli oppositori dichiarati e perfino ai loro familiari.

 Contro questo serpeggiante revisionismo, il libro di Galzerano porta la conoscenza di una rivolta conosciuta (forse) soltanto dagli studiosi locali, ma non citata neppure nella "Nota cronologica" (dal 1734 al 1861) posta da Giacomo De Antonellis alla fine del suo recente Il 1799 napoletano, e porta la conoscenza del destino d’alcune decine di rivoltosi, o supposti tali: alcuni forse banditi, bisogna ammetterlo, ma molti carbonari, molti favoreggiatori veri o presunti, alcuni preti e frati, e anche mogli e amanti dei rivoltosi. 
A quella rivolta Galzerano, studioso ed editore di Salerno, ha dedicato le "Memorie" di Antonio Galotti - "La rivolta del Cilento nel 1828", due libri in uno, come vedremo. Il fatto che la rivolta restasse pressoché sconosciuta al di fuori dei cultori di storia locale, nonostante l’incendio di Bosco (una Boves del Sud) e decine di condanne a morte e ai ferri, si può spiegare con diverse ragioni: - è stato un episodio periferico, avvenuto lontano da Napoli e dalla stessa Salerno; - Galotti è stato una strana figura di patriota e di avventuriero, condannato a morte quattro volte e sempre salvatosi. 

Lo stesso Galotti nelle "Memorie" non cita mai i "fuori-banditi", forse vergognandosene, benché con tre loro capi e con un subalterno fosse fuggito dal Cilento a Napoli, e dalla capitale a Livorno e in Corsica; - le "Memorie" di Galotti, pubblicate a Parigi nel 1831, non furono mai finora tradotte e stampate in Italia; e non sono citate neppure nella "Bibliografia del Risorgimento".

Finalmente le "Memorie", scritte probabilmente da Giovanni La Cecina e tradotte in francese nel 1831 da S. Vecchiarelli, dopo quasi 170 anni, tradotte in italiano da Giuseppe Ruocco, sono state stampate dall’editore Galzerano; già questo sarebbe stato un notevole titolo di merito. Ma il merito maggiore di Giuseppe Galzerano, studioso oltre che editore, è di avere anteposto alle "Memorie" un saggio corposo, documentatissimo, sulla rivolta e sulle vicende di Galotti e degli altri protagonisti. 
Scrive Galzerano: "Nel 1828 il Cilento si ribella alla dinastia borbonica e chiede la Costituzione. La rivolta fu domata con torrenti di sangue e nel terrore. Gli insorti furono catturati, subirono processi farsa, patirono anni e anni di galera ’ai ferri’, molti furono condannati a morte: le loro teste vennero esposte in gabbie di ferro, innalzate nelle piazze dei paesi e lungo le strade dove abitavano i familiari. Un paese, Bosco, che aveva accolto con ’allegrezza’ gli insorti, fu bruciato". Un decreto reale del 4 agosto 1828 soppresse il paese e ne vietò la riedificazione. Il paese fu fatto radere al suolo fino all’ultimo mattone, poi come a rendere immune il terreno da un maleficio, fu cosparso di sale, cancellato come comune. 
La tremenda repressione fu condotta dal marchese Francesco Saverio De Carretto, siciliano di origini liguri, carbonaro rinnegato. Alla repressione sfuggirono in un primo momento soltanto i tre fratelli Capozzoli, Domenico Antonio Caterina, il loro subalterno Pasquale Rossi, Francesco Giardella e Antonio Galotti.

Galotti era un pugliese di Ascoli Satriano; Galzerano non nasconde gli inizi turbolenti della sua vita, quando fu anche brigante: appartenente della Marina reale nel 1804, si diede al brigantaggio a Sala Consilina e ad Orsomanno; unitosi alla banda di Michelangelo Longo, a Massicelle uccise i figli di Filippo Serra e ne rapì le due figlie nubili, insieme alle figlie del cugino Domenico Serra, una delle quali, Saveria, divenne la sua prima moglie.
Col cognato Saverio Lipiani organizzò una fabbrica di monete false a Palermo. Scoperto e fuggitivo, in Calabria fu incaricato dai francesi di promuovere la diserzione dei Cacciatori del mare di Messina, dove fu arrestato e condannato a morte. Ma la moglie riuscì ad ottenere la sospensione della pena e poco dopo, Ferdinando I, appena salito al trono, lo graziò e lo fece liberare. I Galotti, tornati a Massicelle, non avevano un soldo; Antonio chiese aiuto al canonico Giovanni De Luca, e qui ci fu la svolta della sua vita: il canonico lo fece carbonaro e gli procurò un impiego a Valle. Divenuto "commissario carbonico", partecipò ai moti del 1820, e per ciò fu condannato a morte una seconda volta; né sappiamo come fu liberato.

Fu processato ancora nel 1823, per avere atteso lo sbarco di alcuni emigrati politici, ma fu assolto per insufficienza di prove. Rimasto vedovo, si risposò con Serafina Apicella e andò a vivere a Salerno; fra la città e i paesi vicini organizzò la nuova setta dei Filadelfi, il cui scopo era di ottenere per Napoli la Costituzione francese. L’insurrezione scoppiò tra il giugno e il luglio 1828, ma né le "Memorie" né i molti interrogatori della polizia e dei giudici chiariscono quale ne fu l’inizio e perché fallì. Dai rapporti, sembra che i rivoltosi fossero 500 a Roccagloriosa e 200 a Montano Antilia, molto meno dei duemila dei quali parla Galotti. Certamente, come in altre rivolte nel Regno di Napoli, e particolarmente nella mancata insurrezione napoletana che doveva scoppiare contemporaneamente all’arrivo di Pisacane nel 1857, anche quella del Cilento fallì perché non ne erano chiari gli obiettivi militari, era male organizzata e numerosi fra quelli che dovevano esserne i capi se la squagliarono al momento dell’azione. Inoltre, mancò un comando unico, per le gelosie e le ripicche fra il canonico De Luca, De Dominicis e Gammarano.
Galotti stesso, definito dal prete carbonaro Michele De Roberti "chiaccherone che parlava a vanvera, senza riflettere", ebbe una responsabilità gravissima: il 7 maggio, a Nocera, svelò i piani dell’insurrezione a uno sconosciuto, Carlo Iovane, scambiato per un filadelfo. Invece Iovane si precipitò alla polizia, e cominciarono i primi arresti. Ma giustamente Galzerano annota che, anche nel caso del Cilento, la rivolta fallì soprattutto perché fu un movimento di "galantuomini", cioè di borghesi e possidenti, che non accettavano nei filadelfi i plebei nullatenenti, i quali, disinformati su tutto e nemici dei loro sfruttatori proprietari, rimasero ovviamente assenti. 

Sfuggito alla cattura nel marzo 1828, con i fratelli Capozzoli, Caterina Rossi e Giardella, Galotti vagò nei boschi e poi, per mare, fuggì a Livorno e in Corsica. Qui Giardella sparì, i Capozzoli furono indotti a tornare nel Napoletano, Rossi e Galotti furono estradati e tutti condannati a morte. Le proteste del governo francese a favore di Galotti, gli interventi del vecchio eroe della guerra americana Lafayette, e una campagna di stampa dei liberali provocarono la sospensione della pena a Galotti e la relegazione in un’isola; e poi, dopo la rivoluzione del luglio 1830, il nuovo governo di Luigi Filippo ottenne la commutazione della sua pena nell’esilio, così che Galotti tornò in Corsica e poi andò a vivere a Parigi e a Tours. 

Tornò in Italia per combattere nella Repubblica Romana, finita la quale, in contumacia, fu condannato a morte per la quarta volta. Sugli ultimi anni della sua vita in Francia e sulla sua morte, non si sa nulla. Ma sulle rocambolesche vicende di Galotti rimando alle sue "Memorie" e al saggio di Galzerano. Qui mi preme di più ricordare le vittime dell’illusione costituzionalista-carbonara della repressione borbonica dall’estate 1828 al 1829. Eccone un elenco, forse non completo.

Condanne a morte:
Giovanni De Luca canonico, capo della setta filadelfi del Cilento;
Carlo da Celle frate cappuccino, nipote del canonico, carbonaro: tradì lo zio e gli altri filadelfi, ma non fu risparmiato;
Teodosio De Dominicis, capo della setta dei Pellegrini Bianchi; nella sentenza gli si rimprovera anche che "Ebbe un abboccamento con uno straniero, finora ignoto": questi era il viaggiatore inglese Craufurd Tait Ramage che, in un libro pubblicato quarant’anni dopo, parla con benevolenza di lui, incontrato per caso, e afferma di non essersi occupato di questioni politiche italiane;
Emilio De Mattia, filadelfo, aveva portato cibi ai Capozzoli, i fratelli Domenico, Patrizio e Donato Capozzoli, definiti negli interrogatori talvolta "fuorbanditi", talaltra "proprietari"; indotti dal falso liberale napoletano Angelo Morelli a tornare dalla Corsica nel Regno;
Pasquale Rossi, "campagnuolo", loro servo estradato col Galotti dalla Corsica;
Giuseppe Vito Tambasco, amico di Galotti;
Angelo Lerro, esattore dell’imposta fondiaria;
Domenico Antonio De Luca bottegaio a Napoli, fornitore del canonico suo omonimo, affiliato ai filadelfi.
C’è da aggiungere che Alessandro Riccio, medico, fuggito nei boschi dopo la rivolta e ferito a una mano nello scontro con i gendarmi fu ucciso con la scure da due scalpellini, che intascarono la taglia di 400 ducati.

Condanne "ai ferri":
Antonio Galotti: appena estradato dalla Corsica, è imprigionato a Napoli nelle "fosse del coccodrillo" già prigione di Tommaso Campanella, della moglie e dei figli di Masaniello; questi, secondo la leggenda, sarebbero stati divorati da un coccodrillo. Condannato a morte, dopo l’energico intervento del re di Francia ebbe otto anni di relegazione da scontare a Ponza; poi gli toccò l’esilio;
Antonio Trucillo, scrivano ventenne, 19 anni di ferri;
Antonio Bianco, architetto ed ex colonnello, ergastolo;
Diego De Mattia, fratello del condannato a morte Emilio, pena di morte commutata nell’ergastolo;
Michelangelo Mainenti, proprietario, 28 anni di ferri;
Giuseppe Ferrara, liberale, condanna a morte commutata nell’ergastolo; graziato nel 1830, partecipò ai moti del 1848 e fu nuovamente condannato;
Saverio Malfitani, tenente, 24 anni di ferri;
Gregorio Costa, maestro di matematica, trent’anni di ferri;
Pietro Bianchi, 10 anni; 
Biagio Saturno, servo accusato di omicidio, condanna a morte commutata a 19 anni di ferri; 
Domenico Antonio Caterina, tornato dalla Corsica con i Capozzoli, relegato a Ponza; suo fratello Giuseppe Caterina, condanna a morte commutata nell’ergastolo;
Vincenzo Riola, avvocato, lettore di giornali toscani, propalatore di notizie false, "uomo immorale ed irreligioso, e che convive in concubinato", 25 anni;
Nicola Gammarano, condanna a morte commutata nell’ergastolo e graziato nel 1841;
Giuseppe Gammarano, sacerdote, 25 anni;
Giuseppe Alario, sacerdote, 19 anni.

Non mancano le donne: Nicolina Tambasco, sorella del condannato a morte Giuseppe Vito e moglie di Pietro Bianchi condannato a 10 anni: furono inflitti anche a lei 10 anni perché supposta amante di Galotti e per aver provveduto, con la madre e le sorelle, a preparare un "sontuoso pranzo" e a cucire le bandiere; 
la madre, Rosina Bentivenga, condannata a sei anni. E infine, Serafina Apicella, rea di essere moglie di Galotti; torturata subito dopo l’arresto, fu condannata a 25 anni. Nel 1835, liberata per l’intercessione di Maria Amalia, regina di Francia, raggiunse il marito a Tours dove Giovanni La Cecilia vide i segni delle torture, in particolare le cicatrici della pelle sulle braccia.

Ringrazio per l’articolo FRANCO GIANOLA, direttore di STORIA IN NETWORK

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