A Gloria del Gran Maestro dell’Universo e del Nostro Protettore San Teobaldo

LA RIVOLUZIONE

di Carlo Pisacane

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CAPITOLO PRIMO

I. Ragionamento sul progresso. - II. Riscontro con la storia. - III. Tendenza della società moderna. - IV. Religione.

I. La parola progresso suona nella bocca degli uomini d'ogni condizione, d'ogni partito, ma è da pochissimi, anzi quasi da nessuno compresa. I sorprendenti trovati della scienza che, applicati all'industria, al commercio, al vivere in generale, trasformano in mille guise i prodotti, sono fatti innegabili: noi vediamo, ove erano gruppi di capanne, sorgere superbe città; campi aspri e selvaggi squarciati dall'aratro, e resi fecondi; selve, monti, mari, superati; rozzi velli trasformati in finissime stoffe; le intemperie vinte con l'arte; le tenebre cacciate da fulgidissima luce; il navigar contro i venti; il percorrere con portentosa celerità sterminate distanze; finanche il fulmine reso rapido messaggiero dell'uomo; l'immensità dei cieli, le viscere della terra esplorate; gli astri, gli animali, i vegetabili, i minerali, tutti studiati, classificati, misurati... Se questo è il progresso, niuno può negarlo o non comprenderlo.
Ma cotesto accrescimento continuo del prodotto e dell'umano sapere, spande egualmente la prosperità su tutti? Suscita nell'uomo il sentimento del proprio diritto, della dignità? Garantisce la libertà, garentisce il popolo dall'usurpazione di pochi, rende forse impossibile, sotto ogni forma, la schiavitú, ed assicura l'indipendenza dell'uomo dall'uomo, o almeno ne libra su giusta lance le correlazioni? Ognuno che vuol manifestare francamente la propria opinione, ognuno che studia la storia, che osserva il presente, risponderà: no, l'apogeo della civiltà romana, il secolo d'Augusto fu il perigeo della libertà; i rozzi italiani dell'XI secolo erano liberi, e vilissimi piaggiatori quelli del civilissimo secolo di Lorenzo De' Medici; i Francesi dello splendido secolo di Luigi XIV non furono che spregevoli cortigiani. Ove riscontrasi, adunque, il continuato miglioramento dell'umane condizioni?
Quale sarebbe il tipo ideale d'una società perfetta? Quella in cui ognuno fosse nel pieno godimento de' proprî diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità, o d'umiliarsi innanzi al suo simile o di sopraffarlo: quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l'eguaglianza; quella in cui in ogni uomo il sentimento fosse d'accordo con la ragione, e che niuno fosse mai costretto di operare contro i dettati di questa, o soffocare gli impulsi di quello. In tal caso l'uomo manifesterebbe la vita in tutta la sua pienezza, e però potrebbe dirsi perfetto. Ma chi trovasi piú lontano da questo ideale, il mercante e il dottrinario moderno, o il cittadino romano, il greco, e lo stesso italiano del XI secolo? La risposta non è dubbia, e facendo paragone del presente col passato, saremmo indotti a credere che i miracoli del vantato progresso nascondano il continuo peggioramento del genere umano.
Libera la mente da idee preconcette o da sistemi, faremo ricerca di questa legge del progresso e del modo come essa opera.
Tutti i filosofi del mondo, da Platone ad Hegel, si accordano nel riconoscere l'esistenza di una legge che chiamano idea, sostanza, logica ecc., che regoli le condizioni e le relazioni degli uomini. Stabilito un tal principio, svolgono i loro ragionamenti, ma le conseguenze non sono d'accordo come il principio d'onde prendono le mosse, imperò quel primo concetto, tutto astratto, è creato dal pensiero indipendentemente da' fatti: ma una tale astrazione non dura che un istante, la realtà riprende il suo imperio, e la ragione non può che serpeggiare attraverso i fatti, e quindi le conclusioni a cui ognuno di essi giunge, si adattano alle condizioni di quei popoli fra i quali vissero. Platone ed Aristotile sacrificano l'uomo alla grandezza dello Stato, perché tali erano le greche costituzioni. Locke riconosce la sovranità della nazione sul monarca, perché scriveva all'epoca de' rivolgimenti dell'Inghilterra, e per esso la nazione è quale era l'inglese, col parlamento, coi grandi, coi pubblici funzionarî. I filosofi francesi, per contro, che scrivevano sotto l'impulso del bisogno di abbattere ogni privilegio, riconoscono il diritto, la sovranità del popolo nel puro senso democratico. Kant, comecché razionalista, ma era un Inglese [sic] che scriveva nel '97; quindi afferma che il popolo francese non aveva il diritto di giudicare e condannare il suo re. Dopo la rivoluzione del '93 le condizioni del popolo son cangiate, e con esse cangiano le idee surte dai nuovi mali: è la miseria crescente che chiama a sé l'animo dei pensatori, quindi essi non sacrificano piú l'individuo allo Stato, ma al diritto d'ognuno vogliono che s'adatti la costituzione di questo, e mirano all'umana prosperità, di quindi l'idea del convitto umano, del socialismo, travisato nell'applicazione alla ricerca dei godimenti materiali.
Nella guisa stessa, per la stessa ragione, nel XVI secolo la vita politica essendo muta in Italia, la filosofia è costretta a rimanersi nell'astrazione, e si manifesta nel razionalismo di Bruno, che Vico e Campanella avvicinano alla realtà, perché cominciasi a sentire il bisogno d'un'esistenza politica, e quando questo bisogno manifestasi nell'azione, la realtà è raggiunta da Mario Pagano, svolta da Filangieri, da Romagnosi, in tutti i rami della vita d'un popolo. Oggi finalmente nella dotta e pacifica Germania, in cui l'azione ha pochissimo imperio sul pensiero, rivive con forme anche piú astratte il razionalismo di Bruno; e mentre cercasi finanche negare la realtà, procedesi cosí servilmente sotto l'imperio di essa, che deducesi dai ragionamenti come il costituzionalismo sia l'ideale dello Stato perfetto. Dunque, dal principio del mondo, il pensiero umano non ha potuto mai procedere nelle sue ricerche indipendente dalla realtà, a pena discende all'applicazione delle idee, esse si adattano ai fatti, e non mai i fatti procedono da esse. Ciò basta per dimostrare ad evidenza, quanto sia assurdo il concetto che le rivoluzioni, i mutamenti negli ordini sociali si facciano prima nel pensiero e poi nella realtà; essi sono conseguenza delle condizioni e relazioni degli uomini; e cominciano a manifestarsi con l'idea quando già sono latenti nella società; dalla manifestazione procedesi all'attuazione, e spesso questa avviene senza di quella; nella guisa stessa che nell'uomo si manifesta un bisogno, poi un'idea, poi l'azione, e spesso l'azione segue immediatamente il bisogno senza manifestarsi o maturarsi nel pensiero. Quindi la filosofia è quella che esanima, compara, ragiona sulle condizioni, sui rapporti sociali, onde discernere ciò che si nasconde sotto l'apparente calma, trae in luce, presenta in concetti chiari e distinti quello che vagamente, ed universalmente è sentito. La società ammira le astrazioni del pensiero, come i giuochi dei saltatori di corda, ma non apprende nulla da quelle che possa migliorare le sue condizioni; come niuno impara meglio a camminare osservando le sorprendenti prove d'equilibrio di questi, le une e gli altri non sono che passatempi. La filosofia veramente razionale, ovvero la scienza che merita il nome di filosofia, è quella cominciata in Italia con Bernardino Telesio, e seguita da tutti i sommi Italiani sino al Romagnosi, che gli diede il piú vasto sviluppo; secondo i dettati di questa scienza noi seguiremo le nostre ricerche.
Io mi scorgo parte dell'universo, penso, ma penso ciò che è, il reale; non si produce nella mia immaginazione nulla che non esista, o che non risulti da ciò che esiste. Ho un'idea chiara e distinta, senza conoscerne l'essenza, della materia, del moto, delle sue proprietà; lo spirito è una negazione, ciò che non è materia, un'incomprensibilità; una cosa che non potendo essere avvertita dai sensi, non può essere neppure immaginata: spirito è una parola che non ha significato.
Nel mondo osservo un incessante avvicendarsi di produzione e distruzione, due cose opposte; ma se meglio rifletto, ogni contraddizione sparisce, produzione e distruzione non sono che l'effetto di una medesima causa, la causa, la legge della vita; produzione come distruzione vuol dire moto, ovvero vita.
L'uomo lo scorgo eziandio sotto mille aspetti contraddittorî; eroe e codardo, benefattore e crudele, avaro e generoso... ma ogni contraddizione sparisce quando riconosco queste diverse azioni effetto di una sola e medesima causa, di una sola e medesima legge, la ricerca dell'utile che, secondo l'indole degl'individui ed i rapporti che costituiscono la società in cui vive, cangia i modi ed il nome; chi lo cerca nella gloria, chi nell'ignominia; alcuni nel sacrifizio, altri nei beni materiali... È questo un fatto che niuno piú revoca in forse; esso è riconosciuto da tutta la scuola del sensismo francese ed inglese; da' nostri grandi Italiani, Pagano, Filangieri, Beccaria, Romagnosi, e sottinteso da Vico, da Campanella, da Telesio; da tutti gli economisti moderni, da tutti i socialisti; dai razionalisti della Germania: Di buon grado, dice Schiller, io presto aiuto agli amici. Ma, ahi lasso!, lo fo per inclinazione; onde spesso mi contrista il pensiero di non esser virtuoso. Fichte dice: ama te stesso sopra ogni cosa, ed il tuo prossimo per amor di te stesso. Negano questa verità i poveri devoti di un Dio personale; e gli ecclettici, ovvero quelli che cercano conciliare i principî della scienza e lo stato presente della società, e cosí si fanno gli apologisti del sacrificio quelli che ne rifuggono con orrore!! A Giordano Bruno sarebbe stato piú doloroso rinnegare la sua dottrina che sentirsi ardere le carni; si gettò nel rogo per fuggire il dolore di rinunziare alle proprie idee. I due ultimi versi del suo sonetto il dicono chiaramente...

Fendi secur le nubi e muor contento,
Se il ciel sí illustre morte ti destina!

Chi ha creato il mondo? Nol so. Di tutte le ipotesi la piú assurda è quella di supporre l'esistenza d'un Dio, e l'uomo creato a sua immagine; ovvero non essendoci dato immaginare questo Dio l'uomo l'ha creato ad immagine propria, e ne ha fatto il creatore del mondo, e cosí una particella diventata creatrice del tutto.
Ma quale utile può ottenersi dalla ricerca del creatore del mondo? Nessuno. Il mondo esiste e ciò è un fatto; in esso dapertutto io trovo moto, dapertutto la medesima causa della vita che appare in mille guise: è latente nei minerali, vegeta nelle piante, guizza nei pesci, rugge nel leone, ragiona nell'uomo; la diversità de' modi co' quali manifesta la sua potenza, dipende dalla piú o meno perfezione del corpo da essa animato. Corpo ed anima sono entrambi immortali, non havvi nell'universo mondo un granello di sabbia che si distrugga: il corpo ridotto polvere rientra in seno alla gran madre; l'anima o il fluido animatore sorte dalla sua prigione che davagli forma, abbandona il corpo che si distrugge e piú non si presta al moto, e confondesi con la gran massa di esso che vaga negli spazî; la morte non è che la distruzione delle forme d'un'individualità. Da questo moto incessante risultano i rapporti dell'uomo col mondo esteriore, degli uomini tra loro, la società, e però non fa d'uopo ricercare la causa del moto, perché a nulla gioverebbe tale ricerca, ma la legge del moto. Tutti i filosofi del mondo convengono nell'immutabilità di questa legge, quelli soli che riconoscono l'esistenza di un Dio la negano.
Il concetto d'un Dio onnipotente è figlio dello scetticismo in cui cadde il mondo romano nella sua decadenza. La virtú, il giusto, il diritto sono incompatibili con l'esistenza di questo Dio che può tutto cangiare secondo il suo capriccio, che piegasi alle discordi preghiere dei mortali; nulla vi resta d'immutabile, tutto cangia secondo la sua volontà. L'unità dell'universo sparisce, non è una sola la causa del moto, e quindi una sola la legge di esso, ma tante cause diverse per quanti sono gli enti; l'anima dell'uomo è diversa da quella del bruto, questa da quella del vegetabile, anzi ogni uomo ha un'anima diversa. Ammessa tale ipotesi, la virtú non ha significato, la ricerca di una legge unica del moto è impossibile, impossibile il progresso; per un solo atto della volontà di questo Dio noi potremmo indietreggiare di secoli. L'unica regola, l'unica legge è la rivelazione che ci vien fatta da alcuni uomini in nome di questo Dio, questi uomini sono gli arbitri dell'umanità. La storia non ha piú nesso, ma sono tanti fatti, manifestazione della libera, e però mutabile volontà di questo Dio. Ma quest'ipotesi scoraggiante e incomprensibile, questo Dio assurdo, imagine della dissoluzione sociale, sparisce, appena dalla corruzione comincia a manifestarsi novella vita.
Stabilito che una sola debba essere l'ignota causa del moto, ci faremo a rintracciarne la legge; non già astraendo il nostro pensiero, e ricavando le conseguenze secondo i dettati della dialettica, ma seguendo da vicino i fatti, studiandoli accuratamente, e conoscere cosí la legge con cui essi gli uni dagli altri procedono; non già cercando quale dovrebbe essere questa legge, ma quale è; non l'ideale, ma il reale. Nell'universo scorgiamo armonia ed unità, tutto è regolato, il moto degli astri, il succedersi delle stagioni, il prodursi delle piante, tutto è l'effetto di una medesima forza attiva, la quale sospinge gli uomini al moto, e crea le loro diverse condizioni e relazioni, le diverse costituzioni della società; e però essendo la storia un effetto di questa forza, essa deve procedere secondo una regola, secondo una legge immutabile e necessaria.
La noia che esagera il fastidio del presente, la speranza che abbellisce oltre misura l'avvenire, ed in altri termini la necessità di soddisfare ai proprî bisogni, sospingono l'uomo al moto; dolore e piacere suoi angeli tutelari lo costringono a fermare la sua attenzione sugli oggetti circostanti. Ed in tal guisa da ogni sensazione, da ogni esperienza vien creata un'idea; se nulla v'è nell'esperienza, nulla v'è nella mente, ovvero come dissero i peripatetici, nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu.
Le continuate sensazioni dirozzano le fibre, che per soverchia rigidezza, come quelle del selvaggio, mancano d'irritabilità, e danno tuono a quelle de' fanciulli per flaccidezza tarde. Appena la fibra acquista un certo grado d'irritabilità, l'uomo immagina, né ha piú bisogno della presenza dell'oggetto per descriverlo e vederlo in sua mente. Segue in ultimo la ragione, facoltà di discernere, la quale classifica, compara, cerca la correlazione delle acquistate idee, e rischiara il tomulto degl'istinti. Quindi tre età nell'uomo: de' sensi, dell'immaginazione, della ragione; nella prima le fibre son molli, nella seconda cominciano a tendersi; nella terza hanno il giusto grado d'irritabilità; con la vecchiezza diventano flaccide, l'uomo peggiora, e diventa di nuovo fanciullo.
Le facoltà dell'uomo sono inferiori ai bisogni, di quinci la perpetua operosità della vita. Ad ogni sensazione, ad ogni idea l'uomo subisce una modificazione, e con questa sorge un nuovo bisogno, e cosí la vita è un avvicendarsi continuo di bisogni, di idee, di nuovi bisogni...
L'uomo, se non è costretto da forze esteriori ad operare diversamente, segue per sua natura questa serie di movimenti, e trasforma tutti gli oggetti circostanti. L'indefinita modificabilità del mondo esteriore, che reagendo sull'uomo lo modifica indefinitamente, costituisce un'indefinita modificabilità di rapporti fra uomo ed uomo, fra esso e gli oggetti che lo circondano. Questi rapporti, ovvero l'azione degli uomini gli uni verso gli altri, e sul mondo esteriore, costituiscono le umane società, che per tal ragione sono indefinitamente modificabili. Dunque il continuo mutarsi di questi rapporti, ovvero delle costituzioni sociali è una legge assolutamente necessaria, legge che risulta dalla natura umana, quindi fa d'uopo o migliorare o peggiorare continuamente, o pure oscillare fra certi limiti.
Inoltre, le fibre vengono modificate secondo il numero delle sensazioni, queste crescono a misura della trasformazione degli oggetti esterni, dunque, in una società in cui la natura è selvaggia, e non ancora ha subito gli effetti dell'umana operosità, le sensazioni debbono essere pochissime, le fibre degli uomini rozze. A misura che le sensazioni crescono, per la trasformazione che il mondo esterno subisce per mano dell'uomo, le fibre gradatamente si dirozzano; quindi le tre età che si riscontrano nell'uomo, esistono egualmente nelle società: de' sensi, il puro stato selvaggio; dell'immaginazione, l'epoca delle favole e degli eroi; della ragione, l'epoca delle forti passioni, delle grandi virtú, perché la fibra ha raggiunto tutto quel grado d'irritabilità di cui è capace. Dunque per la natura umana, il moto, il cangiamento delle condizioni e relazioni degli uomini è immancabile; e per la stessa natura nelle società debbono, sempre migliorando, succedersi tre età diverse, dunque progresso. Ma le modificazioni ed i rapporti, effetti dell'umana operosità, essendo indefiniti, indefinite sono eziandio il numero delle sensazioni che ne risultano; e siccome le soverchie e continue sensazioni logorano ed ammolliscono le fibre, e gli uomini s'avviliscono, ne risulta che le società debbono eziandio soggiacere allo stato di vecchiezza, e morire di sfacelo: il progresso indefinito è impossibile.
Ora ci faremo a particolareggiare le nostre ricerche. Generalmente, ogni modificazione che l'uomo opera sugli oggetti circostanti è un prodotto, le modificazioni sono indefinite: dunque, i prodotti debbono indefinitamente crescere.
Discorremmo nel primo Saggio come si formarono le prime famiglie, e quindi i vichi, i paghi, le città, quindi l'uomo tende all'associazione, o perché il debole donasi al forte per esser protetto; o perché questi lo fa suo schiavo; o perché varî deboli si collegano contro il forte, insomma questa tendenza continua risulta dall'istinto della propria conservazione, dalla ricerca della prosperità, dalla brama della vendetta, non già dall'amore reciproco degli uomini. Come gli uomini, le famiglie, i vichi, i paghi per vantaggiare se stessi si uniscono e formano le città, del pari vediamo le varie città formare le nazioni, e queste sotto l'imperio dei stessi moventi formare gl'imperi, quindi possiamo inferire che l'umanità ha una tendenza verso l'unità mondiale.
Né questa è la sola ragione, ma havvene un'altra non meno importante. La Natura, quasi per confermare questa legge, ad ogni regione ha dato prodotti diversi, mentre il desiderio ed il bisogno di giovarsene è lo stesso in tutti gli uomini della terra, i quali ricorrono alla forza, alla frode, al commercio, per fornirsi di ciò che difettano. Quindi è indubitato che un giorno, se il globo non sarà un solo ed unico Stato, certamente la prosperità, la civiltà sarà uniformemente sparsa sulla sua superficie. E come ne' vichi, ne' paghi, nelle città, nelle nazioni, dai varî costumi e gerghi nacque una pubblica opinione ed una lingua comune, nella guisa stessa, un giorno vi sarà un'opinione ed una lingua mondiale.
Proseguiamo lo studio della natura umana. L'istinto avverte l'esistenza de' fatti senza svolgerne le conseguenze; la ragione le svolge, le studia, e le compara. Gli impulsi che riceviamo dall'istinto sono l'effetto dell'immediato piacere che può procurarci un'azione, ma se a questa prima sensazione piacevole ne succedono, come conseguenza, altre dolorosissime, noi nol sappiamo, solamente la ragione può avvertircene, la quale opera quando una sensazione dolorosa fissa su di un oggetto la nostra attenzione. Dunque l'uomo deve necessariamente errare; la sua ragione non evita l'errore, ma lo corregge quando i tristi effetti delle sue conseguenze lo costringono a ragionare. L'errore non è conforme alle leggi di Natura, altrimenti non sarebbe errore; i suoi tristi effetti sono la voce di queste leggi che ci richiamò sotto il loro assoluto imperio; dunque l'istinto ci allontana dalle leggi di Natura, la ragione ci rimena verso di esse. Il fine a cui tendono le leggi di Natura è il bene, è l'azione che risulta dall'ultime conseguenze de' loro effetti; l'istinto, invece, non mira che al bene immediato, la ragione c'insegna di sacrificare questo all'avvenire. L'istinto restringe il nostro sguardo in angusta valle, mentre per discernere le leggi di Natura è d'uopo ascendere una sublime vetta, ed in un fissar d'occhio tutto antivedere nell'avvenire. Fra i suggerimenti dell'istinto e le leggi di Natura, havvi il medesimo rapporto che passa fra una lettera dell'alfabeto e la scienza. Dopo l'esposto, la legge del moto, della vita, è evidente: il moto è una serie non interrotta di azioni, queste sono effetti erronei dell'istinto, che piú tardi la ragione corregge, quello deviando, questa avvicinandosi alle leggi di Natura; inoltre le condizioni e le relazioni degli uomini, la costituzione sociale insomma, è l'effetto dell'azione degli uomini, gli uni verso gli altri; dunque le costituzioni delle società sono effetto dell'errore dell'istinto, che la ragione corregge avvicinandole sempre alle leggi magistrali della Natura. Svolgeremo piú diffusamente cotesta idea.
Seguendo l'istinto, l'uomo che trovasi sotto una sensazione dolorosa, cerca tutto ciò che allevia il dolore, che distrugge la causa del male, né riflette se il rimedio dall'istinto suggerito, svolgendo in seguito le sue occulte proprietà, possa cagionare un male maggiore del presente; ricalcitra con esso, e ciò basta. Con questa legge, che risulta dall'indole sua, l'uomo costituisce la società e muta la costituzione di essa.
Intanto ad ogni nuova costituzione accettata dagl'istintivi desiderî del popolo, esiste sempre un utile immediato, causa di coteste aspirazioni, e quindi nei primi istanti, rinfrancata da un tale utile, la società prospera. L'ulcera che dovrà roderla è nascosta, è a pena un germe, i mali non sono sensibili. In tale stato la ragione, non ancora costretta dal dolore a studiare i mali, segue ciecamente l'istinto, ed essendo costretta a serpeggiare nei suoi angusti giri, e comparando e studiando i rapporti delle cose, in quelle condizioni che l'errore dominante la sociale costituzione le ha stabilite, risultanto i pregiudizî e le opinioni che un giorno dovranno tiranneggiare questa società, e pur nondimeno in quest'epoca, la ragione, siccome segue l'istinto, è d'accordo col sentimento, gli uomini sentono e ragionano, non già giustamente, ma liberamente, la società è giovane, i costumi son puri: il diritto, il giusto, le azioni virtuose son quelle conforme al patto sociale.
Ma le serie de' rapporti sociali che si svolgono partendo da una base erronea diventano sempre piú contrarî alle leggi di Natura, quindi cominciano a manifestarsi gl'inconvenienti, poi i mali, i quali rapidamente crescono ed ingigantiscono; ecco il periodo delle rivoluzioni, o delle dissoluzioni delle società.
In tal periodo il dolore obbliga la ragione a fare studio su i mali che tormentano il pubblico, ed è condotta a delle conseguenze opposte ai pregiudizî ed alle opinioni dominanti, contraddittorie con le opere, coi costumi, quindi una lotta de' motivi esterni con l'interno convincimento. La virtú, essendo la vittoria di questo su di quelli, ovvero quel sentimento superiore alla stessa fama che appellasi coscienza, per cui disse il Campanella Onor non ha chi d'altri il va cercando, non è piú quella che opera secondo il patto, ma in contraddizione col patto. Il diritto, il giusto, non piú quello riconosciuto dal patto, ma quello che risulta dai nuovi rapporti delle cose scoverti dalla ragione. Se il patto, per cagione dei dolori che tormentano le moltitudini, non è riformato o cangiato, la società è condannata a perire. Allora scorgesi la virtú difettiva, quindi i motivi esterni prevalendo, la ragione è costretta a tacere. Ognuno, impotente a combattere i proprî mali, s'isola, non è piú commosso dai mali altrui, e la ragione stessa impone per propria conservazione silenzio al sentimento, l'uomo è depravato, è perfido ed infelice.
In questi diversi stati e condizioni la società per mezzo dei scrittori manifesta le sue idee. Nell'epoca di prosperità l'erudizione ordinariamente sovrabbonda, gli scrittori sono puri, le loro opere, le loro dottrine sono d'accordo col patto sociale.
Cominciano i mali, i tormenti, e questo sentimento doloroso manifestasi con rimpiangere il passato, con maledire i depravati costumi. La Divina Commedia fu il canto solenne con cui l'Italia manifestò i proprî dolori, e rimpianse l'antica purezza de' costumi.
I mali crescono, la depravazione generale produce la sfiducia, lo scetticismo; allora vediamo sorgere sovente gli apologisti del sentimento, i nemici del calcolo e della ragione, scrittori generosi, ma non profondi, i quali credono cagione dell'isolamento, dell'egoismo, non già i mali da cui l'uomo è tormentato, ma la facoltà che li fa discernere; eglino vorrebbero porvi rimedio suscitando in altri quei generosi sentimenti dai quali si sentono animati. Melchiorre Delfico, Giacomo Leopardi sono di un tal genere, la loro voce è lamento, protesta della società contro i mali che tutti sentono.
Contemporanei di questi scrittori, si mostrano i riformatori, nunzî di speranza e di vita, uomini di squisita fibra, che sottopongono a severo esame i mali che opprimono la società, mostrano a nudo le sue piaghe, ne ricercano la cagione, propongono i rimedî, e compongono la filosofia dell'epoca. Se i dolori non sono abbastanza sentiti, o l'indole nazionale è tarda ed incapace di forti passioni, costoro rimangono nell'astratto, e se discendono ad applicare le loro dottrine, si allontanano ben poco dallo stato esistente, adattano ad esso i loro ragionamenti. Se i mali son gravi, le passioni violente, il ragionamento dei riformatori distrugge quanto esiste; i scrittori alemanni ed i francesi del presente secolo hanno questi due distinti caratteri. I riformatori debbono vincere l'aspra lotta del proprio convincimento, contro tutti i motivi esterni, i pregiudizî, la pubblica opinione, spesso la persecuzione, l'esilio, il carnefice, il rogo. Sono gli eroi dell'epoca.
D'altra parte, in molti, l'utile privato trovasi strettamente legato alle leggi, alle opinioni, ai pregiudizî combattuti, e questi se ne fanno i difensori; ecco i conservatori, gli apologisti del presente, in cui essi trovano il bene, o almeno il germe d'ogni futuro bene. In questi cotali, scrittori depravati, i motivi esterni hanno sempre il trionfo sull'interno convincimento, la virtú è difettiva; son turba vile e spregevole in perpetuo, se lo sprezzo potesse aspirare ad immortalità. L'opportunità è la legge suprema, il principio che li regola. Lodatori infaticabili formano il corteggio della tirannide, finché questa, divenuta forte da non aver piú bisogno delle loro lodi, impone silenzio all'importuno garrito.
La lotta fra i riformatori ed i conservatori rischiara le tenebre, perfeziona le dottrine di quelli che, originate da' mali della società, acquistano maggior lume secondo che maggiori sono gli ostacoli che trovano al loro sviluppo; per tal ragione, i conservatori, parte cancrenosa della società, loro malgrado contribuiscono al perfezionamento delle nuove idee. Cosí il pensiero nasce dai fatti, fra il volgo, da' dolori; procede a traverso di essi, ma segue poi fuor del volgo i suoi voli, le sue astrazioni, mentre questo, senza ragionare, senza mai addottrinarsi, dai soli fatti vien balzato da un'idea in un'altra.
Intanto, le moltitudini, sotto la pressura de' crescenti mali, cominciano a manifestare un'irrequietezza, un odio al presente, un desiderio di migliorare, vago, confuso, non espresso in verun concetto. Ma questo desiderio, questo concetto non tarda a formolarsi nella mente di pochi in un'idea che diventa legame di sette, scopo di congiure, fede di martiri, e cosí essa manifestasi in una serie di fatti, di sensazioni, che la rendono comune, spontanea, concreta, immediata, sentimento insomma; allora la rivoluzione delle idee è compita, quel concetto di pochi getta un seme nell'universale coscienza, che frutterà, fecondato dai fatti. Questa idea popolare legasi con le astrazioni dei filosofi, ma essa è quel primo suggerimento dell'istinto, movente, e punto di partenza dei ragionamenti di quelli, e però nasconde nuovi errori, nuovi mali, dai pensatori manifestati, comparati, contrappesati, ma sempre inutilmente pel volgo, che non cercherà il rimedio di mali non ancora esperimentati; e come quelli procedono seguendo i voli del loro pensiero sino alle ultime conseguenze; le moltitudini, lentamente, operano, ed attraverso fatti, delusioni, errori, procedono verso la meta da quelli rapidamente raggiunta.
Sbattuto dalla tempesta sento il bisogno di un ricovero. Penso di piantare degli alberi, e già li veggo nella mia immaginazione in grandi rami diffusi. Li esamino minutamente, e mi convinco che non sarò da essi abbastanza garentito, anzi mi attirerò i fulmini addosso. Come fare adunque? Quando saranno grandi, penserò meco stesso, li abbatterò; dei loro fusti costrurrò un ricovero piú utile degli alberi. Esamino questo nuovo trovato del pensiero, e, non scorgendolo abbastanza perfetto, procedo, perfeziono il ricovero, e giungo, sempre migliorando, ad un edifizio, e conchiudo che l'edilizio è il solo utile rimedio contro la bufera. Ma, a quanti travagli, a quante fatiche, a quante delusioni non dovrò sottostare se voglio trarre in atto il mio pensiero, e piantare gli alberi, attendere che crescano, abbatterli ed adattarli all'ideato edificio? I riformatori son quelli che ragionando stabiliscono la necessità dell'edifizio; il popolo comincia per attuare il pensiero con piantare l'albero, e non l'abbatte, se prima non ha esperimentato che esso non è sicuro, all'ombra delle sue foglie, come aveva sperato; e cosí procede, perfezionando il proprio ricovero, sempre dopo aver esperimentati que' mali che la ragione avea già preveduti.
Nel pensiero di Campanella, di Pagano, di Filangieri, di Romagnosi, noi scorgiamo, o espressa, o sottintesa, o come conseguenza di que' principî, la rivoluzione sociale, quindi il pensiero italiano raggiunse ben presto le sue ultime conseguenze. Ma come procede il popolo verso questa meta? Ora, oppresso da esorbitanti gravezze, sollevasi nella gigantesca Napoli, terribile come la Natura in corruccio, e condotto da un pescatore sbaratta il mal governo che l'opprime; ora si raccoglie in Lucca intorno ad un nero e stracciato vessillo, e minaccia i ricchi; ora assale al segnale di Balilla, e caccia lo straniero dalle mura di Genova; ora favorisce il Francese per odio contro il Tedesco; poi favorisce questo per odio contro di quello; finalmente, dopo tanti esperimenti e tante delusioni, comincia a riconoscere la necessità di conquistarsi una patria, e l'idea d'indipendenza italiana la personifica in un papa, poi in un re, ed ora attende i nuovi fatti che verranno a trarlo dall'incertezza in cui gli ultimi disastri l'hanno gettato. In tal guisa, a traverso d'esperimenti, raggiungerà la meta e, distruggendo l'edificio incantato dei pregiudizî e delle opinioni, adatterà la sua costituzione alle leggi magistrali della Natura che già da lungo tempo servon di norma ai nostri pensatori. Quindi è assurdo che il progresso dell'idea faccia progredire i fatti, è assurdo pretendere di giudicare dall'idee espresse dai scrittori il progresso di cui un popolo in una rivoluzione è capace; per giudicare bisogna studiare la sua storia, e dallo studio delle peripezie a cui è soggiaciuto, potrà conoscersi ciò che esiste nella coscienza nazionale, ovvero quell'universal sentimento che si manifesta nel moto, lo regge, ne prescrive i limiti: se un tal sentimento non sarà un'idea chiara e distinta, ma prenderà norma dai mali esistenti che a pena cercherà di lenire senza distruggerli, il moto sarà sviato, represso, infruttuoso, non sarà che una nuova esperienza, che un ammaestramento universale, che allargherà, per l'avvenire, i limiti di quel concetto esperimentato troppo angusto. In tal guisa si succedono le rivoluzioni, errori fatali dell'istinto nazionale, che la ragione corregge ed indirizza verso le leggi di Natura.
Fin qui potrebbe conchiudersi che il progresso è continuato, che le Nazioni percorrendo una sanguinosa via procedono sempre innanzi, ma bisogna considerare altri elementi, altre cagioni che operano sull'indole umana e sulla coscienza dei popoli.
Se l'eccesso delle sensazioni, se le troppe delusioni logorano le fibre e gettano la sfiducia nell'animo; se le soverchie ricchezze di alcuni, e la miseria spaventevole dei molti, troncano ogni nerbo alle moltitudini, e succede una solitudine di pensieri e d'interessi che distrugge affatto la coscienza nazionale: allora le rivoluzioni sono impossibili. Allora manca quel sentimento universale d'onde i pensatori traggono le prime idee; mancano ai popoli le speranze; ai cospiratori i concetti; mancano le passioni che sospingono quelli a scrivere, questi ad agitarsi ed operare. Cessa il moto, e con esso la vita, il difetto di ardenti passioni non è che preludio di morte. Una Nazione giunta in tale stato è condannata a perire per vecchiezza, essa sarà preda dei piú forti vicini.
Dal nostro ragionamento possiamo conchiudere che ogni Nazione tende con le sue rivoluzioni verso le leggi di Natura, ma nel suo aspro cammino può incontrare ostacoli tali che ne logorano le forze e la distruggono. Quindi il corso e ricorso delle Nazioni non è legge fatale ed inevitabile, ma nemmeno contraria all'indole dell'uomo e delle società. Né perché per lo passato ebbe luogo, dovrà necessariamente ripetersi al presente, può non avvenire, o almeno seguire un'orbita piú eccentrica di quelle già percorse. Intanto le ricchezze sociali, dimostrammo che sono in continuo aumento; le scienze che scrutano i secreti della Natura e si giovano delle sue forze, volgendole all'accrescimento dell'industria, in continuo progresso; ed i popoli del mondo tendono sempre verso l'unità; quindi le diverse Nazioni corrono tutte verso questa meta comune, uniforme prosperità mondiale, ma nel loro cammino ognuna sottogiace alle proprie peripezie, alcune migliorano nelle loro istituzioni, altre decadono, certe si dissolvono, altre ingrandiscono; sono come tante navi che navigano verso il medesimo porto, ma non vi giungono senza che ognuna non corresse fortuna a sua volta.


II. Fin qui non abbiamo fatto altro che seguire la dialettica e rimanere nell'astrazione, ora l'accurato esame de' fatti, ovvero della storia d'Italia che nel primo saggio abbiamo adombrata, servirà di riscontro al nostro ragionamento.
Distrutto l'impero etrusco dal diluvio d'Ogige e dalla crisi di fuoco di cui parlammo, fra i monti dell'Italia e della Grecia, per quell'incontestabile legge di Natura per cui l'uomo tende all'associazione come il grave al suo centro, cominciarono a raccogliersi in varî gruppi i dispersi selvaggi. Le leggi da cui vennero retti questi primi gruppi, il dispotismo di uno su molti, ci dimostra chiaramente il primo suggerimento dell'istinto. I deboli, onde esser garentiti dalla prepotenza de' forti, cercarono la protezione di altro forte al quale si diedero volontariamente schiavi. Forse fuvvi chi suggerí la lega di tutti i deboli contro i pochi forti, forse fuvvi chi fece riflettere che si sfuggiva un male e se ne creavano degli altri con la volontaria schiavitú. Ma queste ragioni, queste dottrine dell'epoca, questi voli del pensiero, riuscivano infruttuosi; l'istinto diceva ad ognuno: donati ad un forte e questi ti proteggerà, e cosí ognuno, a schivare la probabilità d'un servaggio, rendevasi volontariamente servo.
Cosí si formarono i vichi e i paghi: i deboli si sentivano lieti del ritrovato di aver chiesto la protezione del forte, contenti lavoravano, ed il forte, loro protettore, godeva del frutto dei loro lavori; la ragione era d'accordo col sentimento, queste prime società prosperarono.
La guerra fra i vichi e paghi fece che varî di questi borghi collegandosi formarono la città. I varî capi, re scettrati e sommi sacerdoti [e il séguito] dei loro dipendenti, si raccolsero in congresso nella città onde accordarsi riguardo il modo come condurre la guerra, solo pubblico interesse allora esistente.
Intanto dal contatto dei vichi e paghi risultò un culto comune, una pubblica opinione, ed un paragone fra il modo di esercitate l'imperio de' diversi capi; quindi ne' piú oppressi surse desiderio di migliorare; ecco i primi sintomi di una rivoluzione. Certamente soffrí pene acerbissime quel primo schiavo che si lagnò della propria condizione facendone paragone coi piú fortunati. Questi fu un riformatore, un virtuoso, le sue ragioni furono soffocate con la violenza, e la virtú ignota a quella società si mostrò per la prima volta. Virtuosi furono quei primi plebei che, sfidando il corruccio dei loro padroni, proposero sottoporre alla concione dei forti le private contese; virtuoso fu quel primo nobile che l'approvò, facendo prevalere il suo convincimento, motivo interno, alla seduzione, ai vantaggi che traeva dal domestico imperio, motivo esterno. Fu questa una prima rivoluzione, un progresso, divennero piú equi i rapporti fra i padroni ed i clienti, ma crebbe oltre ogni misura la potestà della concione, sovrano e giudice nel tempo stesso. Il suggerimento dell'istinto, di surrogare all'arbitrio de' varî capi il volere del congresso che essi medesimi componevano, si avvicinò assai piú alle leggi di Natura che la volontaria schiavitú, ma diede corso a nuova tirannide.
Al crescere delle città, le popolazioni e le ricchezze, al moltiplicarsi dei rapporti fra gli individui, la potestà dell'oligarchia dei forti cresceva, pesava sempre piú sulla plebe, le cui fibre, d'altra parte, venivano dirozzate dal crescente numero delle sensazioni. Cominciarono a sentirsi i dolori, che trassero a sé l'animo dei piú astuti, e la ragione dichiarò ben presto un'ingiustizia che i soli nobili fussero sovrani. Ecco la lotta della ragione coi pregiudizî e le opinioni di quelle società. Da questa lotta cominciò a sorgere naturalmente l'idea della colleganza della plebe contro i nobili, idea dalla quale l'istinto aveva deviato, prima col volontario servaggio, poi col concedere ogni potestà alla concione de' forti, ed a cui la ragione rimenava la società. Questa prima colleganza ha in sé tutto l'avvenire della democrazia, e comincia la lotta del popolo contro le caste ed i privilegî, ed entra nella sfera delle rivoluzioni dei popoli civili.
Quale sarebbe stato il suggerimento della ragione, per risolvere questa prima contesa fra nobili e plebei? Manomettere i nobili, e farsi la plebe arbitra della cosa pubblica. Ma, conseguita la vittoria, come reggersi da sé? faceva d'uopo rifletterci, pensarci, ed il volgo non riflette né pensa. L'istinto suggerí di non distruggere i nobili, ma limitare la loro potestà, sottoporla a delle regole, e queste regole furono le consuetudini, rudimenti dei codici di tutti i popoli; prima vittoria della plebe sui nobili; prima idea del giusto e dell'ingiusto. Dunque sulle consuetudini primitive si basarono i codici, e queste consuetudini erano risultate dal volontario servaggio, dagli erronei suggerimenti dell'istinto, quindi il lungo lavoro, le tante esperienze ancora in corso, onde giungere da principî cosí ingiusti al semplicissimo codice della Natura, l'uguaglianza.
Nuovi danni, e coi danni i dolori, sospinsero la plebe a nuova conquista. Si moltiplicarono i rapporti, le faccende, gli utili; la macchina sociale si complicò, la difficoltà di reggerla crebbe. Alle qualità naturali dell'uomo, forza ed astuzia in guerra, s'intese bisogno d'una qualità nuova, saggezza in pace; se questa qualità era difettiva nei nobili, la società non tardava a sentirne i dolori; ed ecco che il sostituire ad essi altri governanti piú degni, idea un tempo suggerita dalla ragione, ora per lo svolgersi dei fatti era suggerimento dell'istinto, effetto dei mali da cui la società era gravata, dei dolori, dai quali veniva stimolata. Quindi la storia dei tanti tomulti, dei martirî, delle rivoluzioni con cui la plebe cercava conquistarsi il diritto di conferire ai suoi eletti i maestrati della repubblica. Dunque: volontario servaggio, quindi il volere della concione de' forti sostituito all'arbitrio de' singoli capi; quindi la potestà di questa concione sottoposta alle consuetudini, ad una regola; finalmente gli eletti, o i migliori, sostituiti ai nobili; ecco il progresso delle interne istituzioni seguito dai varî popoli italiani, progresso che lo troviamo conforme a quelle leggi di Natura, di cui abbiamo nel precedente paragrafo ragionato. Ora abbandoneremo per poco un tale argomento, ci faremo a ragionare sulle scambievoli relazioni che si stabilirono, durante questo tempo, fra i varî popoli d'Italia e l'effetto che esse produssero sulle interne condizioni di ciascuno di essi.
Quando i selvaggi cominciarono a raccogliersi in vichi e paghi, si trovarono in contatto in Italia coi civilissimi Etruschi superstiti del distrutto impero; quindi il desiderio, in quelli, di procacciarsi le ricchezze che questi possedevano; l'avidità dell'indole umana faceva tendere quei nascenti popoli a raggiungere la prosperità dei loro vicini. Di quinci le guerre continue, le scorrerie che quei semiselvaggi fecero contro i civili Etruschi, dai quali furono sempre respinti; inoltre le comunicazioni dirotte fra' monti, epperò sommamente disagevoli, fecero sí che lo scambio dei prodotti, dell'idee, dei trovati dell'industria, fu lentissimo fra gli Etruschi ed i popoli montani, e quindi lentissimo fra questi lo svolgersi della loro prosperità.
Non cosí sulle coste: ivi il mare li abilitò a facilmente comunicare coi civili orientali, lo scambio divenne facilissimo, ed arti ed industria rapidamente fiorirono, le ricchezze crebbero in immenso, ed ove erano agresti tribú si videro sorgere le magno-greche repubbliche.
Ma, come testè dicemmo, il codice di questi popoli, comeché civilissimi, era basato sulle consuetudini delle primitive società, in cui una parte erano servi destinati al lavoro, un'altra padroni i quali lautamente vivevano delle fatiche di quelli; inoltre l'indispensabile gerarchia militare, in cui i privilegî di ogni grado venivano stabiliti dai medesimi capi, introdusse l'ineguale riparto del bottino; quindi tali consuetudini, quantunque la condizione dei servi migliorasse, fu la base, furono i principî su cui venne stabilita la legge di proprietà; e quindi il diritto, non già quello giustissimo di usare ed abusare del frutto del proprio lavoro, ma l'altro, sommamente ingiusto, che alcuni potessero possedere piú del bisognevole, mentre altri mancassero del necessario. Un tal diritto, fondato su di un principio affatto oligarchico, venne scosso, temperato ad ogni rivolgimento a cui quelle società sottostiedero, ma, rimasto fermo nella sostanza, conservò la sua tendenza all'oligarchia, e le immense ricchezze ammassate da quei popoli civilissimi furono proprietà di pochi, e piú non si videro che opulenti e mendichi; mentre fra gli abitanti dei monti, l'industria in difetto avendo impedito lo sterminato crescere delle ricchezze, serbossi una quasi uguaglianza.
Esaminiamo queste due società: i Magno-Greci e gli Etruschi, dalla soverchia opulenza di pochi e dalla miseria di molti depravati, imperò i sensi di quei popoli erano dall'abuso o dall'inerzia attutiti; e le fibre per soprabbondanti sensazioni rese flaccide, e se tese, per debolezza soverchiamente irritabili; e quindi gli umori, dall'incostante tensione, o troppo impetuosamente sospinti, o troppo languidamente premuti, di quinci i loro vizî corrispondenti a questo stato dei loro sensi: sempre balenanti ed incapaci di durevoli proponimenti; gli affetti o troppo concitati ed al minimo ostacolo repressi, o soverchiamente rimessi: la costanza, la calma impossibili; spesso li vediamo arroganti col nemico lontano, e se vicino codardi; i Tarantini derisero i legati romani, all'avvicinarsi poi dell'esercito, tremarono e si diedero a Pirro. Inoltre la miseria degli uni e l'opulenza degli altri faceva abilità a questi di comprare il voto di quelli, ed ai ricchi non già ai migliori, veniva conferita la suprema podestà e le cariche della repubblica, epperò piú innanzi ancora crescettero i mali. L'oligarchia dei ricchi immersi nella mollezza cercarono sempre di divezzare il popolo dalle armi, e per loro difesa assoldavano Campani, Bruzî, Galli, ivi accorsi per amor di guadagno, terrore di quell'imbelle plebe, ed eziandio de' tiranni che li pagavano.
Se poi ci trasportiamo fra le robuste popolazioni che abitavano i monti. non troveremo né soverchia opulenza che attutisce i sensi, né miseria che logora le fibre, le quali dotate di giusta irritabilità, premono e sospingono a regolare e costante corso gli umori: di quinci fermezza ne' propositi, calma nel deliberare, costanza nelle opere; non insultavano, ma combattevano il nemico; il valore in onore, e piú del valore la saggezza e la disciplina dei guerrieri; eravi lusso, ma ne' militari ornamenti. Inoltre l'agricoltura essendo la gradita occupazione di quei guerrieri, e le terre quasi ugualmente divise, l'utile privato trovavasi d'accordo con l'utile pubblico; i voti non venduti, e la suprema potestà, le cariche tutte della repubblica venivano conferite ai migliori. Ecco dunque, nell'epoca medesima, nella stessa Italia, due società, l'una, pel rapido svolgersi della civiltà e l'accrescersi delle ricchezze, corrotta e decadente; l'altra, ove erasi conservata una giusta uguaglianza, giovane e fiorente.
Proseguiamo le nostre considerazioni: in una società depravata i scrittori non possono essere che dotti e correttori di costumi, tali furono i Pitagorici, i quali non furono, come alcuni opinano, riformatori, ma propugnatori delle antiche virtú; erano gli apologisti del governo dei migliori, che aveva già esistito, che esisteva presso i popoli montani, e che fra i Magno-Greci era degenerato, perché non contrappesate le fortune nel governo de' piú ricchi. "Il migliore de' governi, - diceva Clinia, - non deve essere affidato ad un solo, perché un solo ha delle debolezze; non a tutti, perché fra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perché pochi sempre sono gli ottimi". "Se una città libera, - diceva Aristotile, - non avesse che un solo uomo virtuoso, chi potrebbe negare che in tale città la dominazione d'un solo sarebbe necessaria?" E Clinia, Archita, Platone, facendosi, come è naturale all'uomo, centro di ogni cosa, credettero scoverte del loro ingegno quelle massime, quei principî che in quella società decadente erano un pallido riflesso, un debole eco di antichi costumi; e dando il nome di virtú, non già all'azione che oppone nuovi principî a vecchi pregiudizî, ma ai principî stessi, si credettero i soli virtuosi, né dubitarono per fare il bene, come essi dicevano, spacciarsi quali inspirati da Dio; e cosí l'amor proprio trovò in essi ragioni come accordare impostura e virtú. Quindi diventarono setta, società secreta; ma le loro dottrine non erano conformi alle istituzioni sociali, né cercavano riformar queste, ma rendere gli uomini con le istituzioni stesse migliori, opera vana e stolta; epperò li vediamo ora onorati e vezzeggiati, ora aspreggiati dai governi, ed in ultimo distrutti da Dionisio, quando da Sicilia passò a devastare la Magna-Grecia. Intanto, quei principî, quelle massime dei Pitagorici erano praticate dai popoli montani. Fra i Sanniti, forte federazione di tre milioni d'uomini raccolti intorno ad eccelsi monti, fra i Lucani, fra i Sabini... sembrava strano ed inutile ragionare lungamente per dimostrare la giustizia di quelle massime: fra essi tali idee erano sentimento, e simiglianti costumi erano quelli dei nascenti Romani.
Dunque i fatti sono in perfetto accordo col nostro ragionamento; le istituzioni di ciascun popolo progrediscono esattamente secondo quelle leggi fatali che sono effetto dell'indole umana: e se nelle società havvi sovrabbondanza di sensazioni, peggiorano e decadono. Nei primi secoli di Roma, si riscontrano in Italia tre diverse gradazioni, tre diverse età della vita dei popoli: al settentrione i Galli, sono in uno stato di completa barbarie, i piú forti fra di loro son duci in guerra ed arbitri degli altrui destini in pace; fra gli Appennini, giovani e fiorenti società, governate dagli eletti del popolo; sulle coste, popoli peggiorati e decadenti. I primi, secondo queste leggi, avrebbero dovuto raggiungere lo stato dei secondi; questi o passare ad una ignota ma migliore condizione o decadere; gli ultimi erano condannati a perire. E cosí avvenne, i loro destini si compirono, e si compirono nel tempo medesimo che, per le stesse leggi regolatrici dell'universo, cotesti popoli soggiacevano a nuove trasformazioni.
Da isolati selvaggi per propria conservazione e per avidità etano giunti a costituirsi in forti federazioni ed opulente repubbliche; la civiltà, la prosperità, non era in Italia ugualmente sparsa, ne difettavano i Galli, ne sovrabbondavano i Magno-Greci. Guerrieri i Galli e gli abitanti dei monti, e le comunicazioni difficili, quindi impossibile che avessero atteso dal lavoro pacifico e lento del commercio quest'opera unificatrice. L'autonomia di quei Stati troppo recisamente costituita per sacrificarla all'unità, e sorgente di odî vicendevoli; niun nemico comune ed universalmente temuto che l'avesse indotti per propria conservazione a confederarsi, quindi essi erano dal fato condannati a sottostare ad una forza prepotente che ne avesse formata una sola Nazione. Intanto, ad ognuna di quelle Nazioni sarebbe stato difficile compiere tale impresa, e perché avevano incontro avversarî di pari forza, e perché eravi in Italia stabilito un diritto pubblico che garentiva la loro indipendenza. I Romani, in forza di questo diritto pubblico, perché nascenti, ne vennero esclusi e sprezzati; essi per propria conservazione dovettero vincer tutti; prima dovettero esser guerrieri per procacciarsi il bisognevole, poi lo furono per difendersi da tante aggressioni, finché vinti i piú forti avversarî, i Sanniti, divennero quella forza prepotente che unificò l'Italia.
Unificata l'Italia, essa trovossi in quello stato fiorente, in quella purezza di costumi in cui erano i Romani, i Sanniti, i Sabini e... che formavano la parte preponderante; il patriziato romano, i migliori d'Italia fu la sovrana concione che governò tutta la penisola. In tal guisa, Galli, Sanniti, Magno-Greci corsero verso la stessa meta che raggiunsero: ma, nel compiersi cotesta legge, le istituzioni, i costumi delle società fiorenti prevalsero, i Galli ancora barberi furono inciviliti per forza; i Magno-Greci e gli Etruschi perirono per vecchiezza nella lotta. Roma fu il centro ove concorsero le varie istituzioni e i costumi di tanti popoli italiani, Roma fu il centro d'onde queste istituzioni si sparsero ugualmente su tutta l'Italia.
Gl'Italiani, retti dal saggio e guerriero patriziato romano, si trovarono in contatto della vecchia civiltà d'Oriente e della barbarie d'Occidente, conquistarono gli uni e gli altri e sparsero la civiltà de' primi egualmente sul loro vasto impero. Ma le tante ricchezze acquistate colla guerra cominciarono a far sorgere l'opulenza e la miseria; il governo passò nelle mani dei piú ricchi; gli ordini sociali avevano compito il loro corso, i mali crescevano, quindi o dovevano con una rivoluzione rigenerarsi o peggiorare e dissolversi come era avvenuto ai Magno-Greci.
Le fibre non erano inflaccidite, le passioni ancora esistevano, quella società presentò sintomi di rigenerazione, i Gracchi, i Saturnini, i Drusi furono i riformatori dell'epoca, essi miravano a limitare i diritti di proprietà: ma i loro ragionamenti, i loro sforzi non furono compresi dal popolo italiano, questo seguiva i suggerimenti del proprio istinto e credeva cagione dei mali il potere usurpato dai Romani, tutti vollero esser Romani, lo furono. Ma i mali in luogo di diminuire crebbero, le loro forze, le loro fibre si logorarono nella lotta e quella società, con rapido corso, incominciò a decadere. Noi vediamo la stessa cagione, opulenza e miseria, produrre i medesimi effetti, i medesimi vizî, dai versi di Lucano espressi con impareggiabile maestà ed evidenza.

In poter vasto il campicel si estese
Ed estraneo arator fe' lunghi i solchi
Dove brevi li fea l'irto Camillo,
E affondavan le marre i Curi antichi.
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Alla ragione
Fu misura la forza, e parto iniquo
Della forza, le leggi, i plebisciti:
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Allor fur compri i fasci, e mercatante
De' suoi favori il popolo divenne
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Allor l'usura, lupa che fa d'oro
Ricolta ad ogni luna; allor la fede
Violata, e la guerra utile ai nudi.

Tutti i maestrati della repubblica si ridussero nelle mani dei pochi ricchi, e con essi il governo, il tesoro, la guerra. le provincie e i trofei, le glorie: le guerriere prede, fra capitani si dividevano, erano i soldati plebe misera e vendereccia, e se le possessioni de' padri o figli di qualche soldato confinavano con qualche potente, ne rimanevano spogliati. Cosí spalancossi fra i patrizî e la plebe, quelli diventati opulenta oligarchia, questa moltitudine di codardi e mendichi, la stessa voragine da cui furono inghiottiti i Magno-Greci; e ben presto in Roma, come era avvenuto fra quelli antichi popoli, l'oligarchia de' ricchi fu a sua volta oppressa dal militare dispotismo.
La storia d'Italia diventa ora la cronaca sanguinosa de' suoi tiranni, e Roma nella decadenza non cessò di essere grande: gli eroici e puri costumi che Tito Livio pennelleggia, e la corruzione ed i misfatti scolpiti da Tacito rappresentano degnamente il sorgere ed il tramonto di un gran popolo. Lo stato di Sibari, di Cuma, di Cotrone, di Siracusa... è riprodotto su vastissime dimensioni. Sino a Nerone la cronaca è italiana, poi perde questo carattere di nazionalità, diventa universale. Alle frontiere si creano gl'imperatori che si disputano il trono, il Senato, estraneo alle lotte, applaudisce al vincitore. Questo impero cadente e ricco, trovasi a contatto di Goti, Longobardi, Franchi, barberi affatto. Essi agognano d'impossessarsi di tante ricchezze, ma dubitano pel terrore che loro inspira il nome romano. Intanto, per effetto della corruzione, le feraci terre si spopolano e si cangiano in deserti, gli uomini, avviliti dalla miseria ed oppressi dalla tirannide, cercano rifugio fra le caverne e le selve. I superstiti a questo cataclismo politico non differiscono gran fatto dai superstiti alle grandi crisi della Natura, essi fuggono spaventati la violenza dei potenti, come questi lo scroscio della folgore ed il muggito della tempesta. Finalmente, i barberi scacciano la paura, e si rimescolano con le reliquie dell'Impero; i destini si compiono, i Romani periscono per vecchiezza, e la civiltà che arrestavasi al Reno ed al Danubio spandesi sino all'Oder.
Siamo ora alla barbarie ricorsa, che vedremo progredire sotto l'impero di quelle medesime leggi di cui discorremmo. All'imbelle patriziato romano si surrogò la robusta e guerriera aristocrazia de' barberi, quest'aristocrazia componeva la concione sovrana da cui veniva eletto il re loro duce in guerra. I patrizî romani con l'usura e la frode vicendevolmente si distruggevano; i nobili barberi, lo facevano con la forza, ed i piccioli proprietarî erano da questi baroni talmente oppressi che rinunziando ad un'effimera libertà si dichiaravano volontariamente vassalli del potente vicino onde esserne protetti, nella guisa stessa che nella primitiva barbarie quelli che manco potevano si donavano schiavi ai piú forti. La società nuova che erasi sostituita all'antica, con nomi e costumi diversi conservò la medesima tendenza ad un'oligarchia di proprietarî che andavasi sempre restringendo ed allargava quella fatale voragine che separavala dalla plebe. Intanto, in questa barbarie ricorsa era rimasto superstite il Comune romano; esso fu punto di rannodamento alla maggior parte degli oppressi; questi Comuni sottostiedero all'assoluto imperio dei baroni, ma essi furono tanti centri di vita: il misero popolo dopo sei secoli cominciò a sentire i proprî mali, venne scosso dalla lotta impegnata fra l'aristocrazia e teocrazia, la rivoluzione cominciò. E questa rivoluzione, che logorò le forze de' Romani e fece inabissare tutto l'Impero in quella voragine spalancata fra ricchi e poveri, trionfò durante la barbarie ricorsa, imperocché le sue mire furono piú recise; allora gl'Italiani volevano conservare l'Impero, chiedevano solo di esser Romani, vano rimedio ai loro mali; ora che in diritto ed in fatto altro non esisteva che l'arbitrio dei baroni, il suggerimento dell'istinto fu di distrugger questi, non eravi nulla da conservare; i ricchi baroni vennero assaliti, le loro terre conquise, diroccate le loro castella, ed essi furono costretti a chiedere rifugio ai trionfanti Comuni: l'Italia risorgeva.
I Comuni italiani, per loro interne istituzioni, sono al medesimo punto in cui erano giunti i Sanniti, i Magno-Greci, e quindi l'intera Italia sotto i Romani, il governo de' migliori, gli eletti del popolo. Quelli pel crescere delle ricchezze peggiorarono e perirono, questi corsero con piú rapidità le vicende medesime. Nelle antiche città italiane formate dalla riunione di rozzi selvaggi, ed in cui l'agricoltura era in onore, i migliori erano considerati i piú laboriosi, i meno ignoranti; per contro nelle città italiane surte dalla barbarie ricorsa, dal lezzo della romana depravazione, co' sforzi dell'industria e del commercio, i simulatori ed i scaltri erano quelli nelle cui mani veniva affidata la suprema potestà; nelle primitive popolazioni, agricole tutte, l'utile privato accordavasi con l'utile pubblico, in queste in cui tutto era industria e commercio quello era in opposizione con questo, e vinto il nemico che li aveva costretti ad unirsi e concorrere al medesimo scopo, l'amor di patria cessò di fatto, e fuvvi solitudine di pensieri e d'interessi. Le ricchezze degli antichi popoli italiani, che abitavano i monti, non poterono crescere che lentamente e per mezzo delle conquiste; i Comuni risorti invece, non avendo rivali nel resto d'Europa, allora barbera, le ricchezze, come presso i Magno-Greci, crebbero rapidamente; al XIII secolo le grandi fortune erano ammassate, la plebe compra, le città si dividono in opulenti e mendichi; al XV secolo è riprodotto il medesimo fatto osservato presso i Magno-Greci ed i Romani, alla cima della società un'opulenta e però molle e codarda oligarchia che sempre restringevasi, alla base plebe vilissima; dall'oligarchia si viene al dispotismo militare dei tirannelli, i sintomi delle rivoluzioni si manifestano, i tomulti si succedono, ma tutti mancano di un concetto dirigente. In quelle società parteggiate dall'oro, l'istinto altro non suggeriva che surrogare una tirannide ad un'altra, le forze si logorarono, e la voragine spalancata fra ricchi e poveri inghiottí libertà indipendenza arti industria commercio, tutto insomma.
Mentre l'Italia, per le mal distribuite ricchezze, perdeva ogni nerbo ed imputridiva nei vizî, la sua opulenza, la sua civiltà, soverchiamente superiore a quella delle Nazioni che l'accerchiavano, dando effetto a quella fatale legge per cui la prosperità tende continuamente a spandersi su tutti i popoli, produsse l'irruzione in Italia di quelle Nazioni. L'Italia de' Romani era stata mirata dai barberi come lo schiavo il padrone; ora i semi-barbari d'oltremonti la guatatono come il discepolo il maestro, come il mendico guarda l'opulento; la preda era facile e ricca, all'ammirazione prevalse il desiderio di rapina, i nostri tardi discepoli gettandosi sul nostro corpo infralito da vecchiezza lo sbranarono. L'Italia venne disseccata dalla vitalità che assorbivano i conquistatori, noi ricevemmo da essi una dose di barberismo, vanità ed ozio. In tale epoca la degradazione compresse in noi ogni elatere dell'animo, lo splendido medioevo moriva, e per indolenza si amò da noi la stessa tirannide, si abborrí la libertà per amor dell'inerzia: ubbedienza a chi comanda, disse con gran verità il Sismondi, fu la formola che raccolse in sé ogni precetto politico, fondata sull'avversione della lotta e nel costante desiderio del riposo.
Dall'Italia gittiamo un rapido sguardo al resto d'Europa che sorge anch'essa dalla barbarie ricorsa. Dapertutto vediamo la concione dei baroni sovrana, il popolo servo, il re magistrato. Il risorgimento dei Comuni riformò in Italia questa società, ma presso gli oltremontani l'elemento barbero prevaleva al romano, le città mancavano di quella vita che si svolse in Italia, e tale rivoluzione avrebbe dovuto compiersi su vastissimi imperi, e però le cose procedettero diversamente. Nelle città, il re eletto dai forti, poco differisce da essi, né può per l'immediato contatto esercitare un grande ascendente e quando il popolo sente il bisogno di distruggere l'oligarchia, la prima idea pratica che gli suggerisce l'istinto è quella di surrogare ad essi gli eletti del popolo, quindi la democrazia trionfa; per contro in un vasto impero in cui il re, solo in una capitale, si estolle agli occhi del volgo al disopra dei feudatarî, i popoli per francarsi dalla prepotenza di questi divennero collegati del re, e poi si trasformarono da vassalli in sudditi della corona, e la regia potestà trionfò, e con essa venne stabilito il diritto divino; e questo diritto prova che l'opinione universale, che la rivoluzione tendeva, come era naturale, al governo de' migliori, imperò i re per non concedere al popolo quel diritto di elezione che avevano i baroni, si fecero dichiarare i migliori da Dio, onde cosí la loro potestà piú non dipendesse dalla volontà dei governati.
Possiamo finalmente conchiudere che quelle leggi fatali che reggono i destini delle Nazioni, si verificano ne' fatti con l'esattezza medesima che risultano dalla logica, e l'esperienza e la ragione si trovano in perfetto accordo. Ragionando della natura umana e del suo modo di agire sul mondo esteriore, dimostrammo, nel paragrafo precedente, come essa con un'incessante trasformazione accresce sempre le ricchezze sociali; le quali poi per leggi della stessa Natura, tendono a spandersi egualmente su tutto il globo, e mentre la prima di queste leggi è per se medesima evidente, l'altra la troviamo esattamente confermata dalla storia. La civiltà tende all'equilibrio fra due nazioni vicine, come il fluido elettrico fra due nubi; quella degli Etruschi e Magno-Greci era molto superiore a quella dei popoli montani d'Italia, quindi noi vediamo quelli conquistati da questi, e l'opulenza e l'industria spandersi egualmente su tutta la penisola; nella guisa stessa le conquiste de' Romani in Oriente stabilirono l'equilibrio fra le due civiltà, l'una scarsa, l'altra sovrabbondante; ed i Romani conquistando i barberi d'occidente, la sparsero uniformemente sul vasto impero da essi fondato; finalmente l'irruzione dei barberi del settentrione fu conseguenza di questa mancanza d'equilibrio tra la civiltà corruttrice de' Romani ed i selvaggi costumi dei loro vicini, e con questa irruzione i limiti dell'Europa civile non furono il Reno ed il Danubio, ma l'Oder, d'onde poi col mezzo stesso delle guerre e del commercio penetrò in Russia; e mentre con moto incessante tali destini si compivano in un periodo di forse quaranta secoli vedemmo in Italia tre società progredire e poi, pei loro vizî, dissolversi i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani. Dunque il progresso continuo è un sogno, i fatti sono troppo eloquenti per se medesimi, né possono distruggersi da studiati sofismi.
Nell'Europa moderna la costituzione politica dei varî Stati, ha raggiunto quel punto medesimo in cui si trovavano que' popoli decaduti, il governo de' migliori; cotesto principio, sotto diverse forme e con diversi nomi, regge tutte le Nazioni: i principî, o lo son dichiarati da Dio, o eletti, e tali li dichiara il popolo.
Questo limite fatale, nessun popolo, antico come moderno, è stato capace di oltrepassarlo, quantunque moltissimi tentativi si fussero fatti per conseguire un tale scopo e migliorare istituzioni donde nascevano grandissimi mali. Le eloquenti orazioni de' romani tribuni contro il potere dei consoli, i tanti rivolgimenti delle repubbliche italiane del medioevo, e particolarmente di quella di Firenze, i tanti ritrovati dei moderni ad altro non mirano che a garentirsi contro quella potestà dal popolo stesso conceduta; ma è forza confessare che lo scopo non si è raggiunto. Appena affidasi il maestrato supremo ad un uomo o a varî uomini, le forze di tutta la nazione si volgono a profitto di questi pochi e de' loro seguaci, e la schiavitú delle moltitudini, in varie gradazioni, è permanente.
È questo forse il limite fatale dalla Natura stabilito? Declinano i moderni come i Magno-Greci, i Romani, i Comuni italiani? Abbiamo dimostrato che la possibilità di andare oltre è attributo della natura umana: come essa ha successivamente corretto le diverse costituzioni ed è giunta allo stato presente, non havvi nessuna ragione per credere che sotto il pungente stimolo del dolore non possa stabilire ordinamenti migliori. Ma se è possibile migliorare, è possibile eziandio che i moderni si dissolvano, come gli antichi, prima di raggiungere il loro scopo. Ci faremo a svolgere tale argomento interrogando le tendenze della moderna società, ma prima di tutto fa d'uopo porre in vista, e richiamare l'attenzione del lettore su di una grande verità, che risulta da quanto testè abbiam detto.
Quale fu la cagione per cui, presso i Magno-Greci, all'antica purezza di costumi successero i vizî che li corruppero? Quale fu la cagione per cui tutte le cariche della repubblica, un tempo concesse dal popolo ai piú degni, caddero nelle mani di pochi ricchi, i quali ad altro non pensarono che ad avvilire e tiranneggiare il popolo, e godersi la potestà usurpata e le esorbitanti ricchezze? Quale fu la cagione per cui presso i Romani avvenne precisamente lo stesso? E quale fu la cagione che rinnovò il fatto medesimo nei Comuni italiani? La cagione fu sempre la medesima: la cattiva distribuzione delle immense ricchezze che divisero la Nazione in opulenti e mendichi, di quinci tutti i mali accennati, e quella voragine spalancata in cui questi Imperi sprofondarono. Quale fu la cagione per cui presso i Magno-Greci, i Romani, i Comuni, le ricchezze nell'accrescersi si sono sempre piú ammassate fra un ristretto numero di cittadini, e la miseria della plebe è cresciuta in ragion diretta dell'aumento del prodotto sociale? La cagione è evidente, il diritto di proprietà, il diritto che dà facoltà a pochi di arricchirsi a discapito di molti; un tale diritto è l'asse intorno a cui queste Nazioni, queste società hanno compito il loro ciclo. Sofisti!... apologisti della proprietà, osereste negare quaranta secoli d'istoria? Sareste voi capaci di dimostrare che non fu la miseria della plebe e l'opulenza di pochi la sorgente di tutti i vizî che le distrussero; che la tendenza del prodotto sociale di accumolarsi in poche mani, e quindi cagionare la miseria delle moltitudini, non sia una conseguenza inevitabile del diritto di proprietà?


III. Le rapide e numerose comunicazioni, che si aprono ogni giorno e traversano in ogni senso l'Europa, hanno fatto abilità ai prodotti dell'industria di spandersi, quasi uniformemente dapertutto; hanno reso le idee, le scoverte di comune ragione; hanno talmente intrecciato gl'interessi de' varî popoli, che la guerra fra due Stati europei vien considerata dalla numerosa turba di commercianti ed industri quasi come guerra civile.
Intanto, le due diverse civiltà di Asia e d'Europa debbono in un avvenire non lontano compenetrarsi, unificarsi, questa è una legge che abbiamo dimostrato inevitabile e l'abbiamo vista confermata dalla storia. Ma come avverrà questo fatto? sarà l'Europa che si rovescerà sull'Asia o questa su quella? né l'uno né l'altro: l'Europa non abbandona, né le converrebbe farlo, il suo commercio e la sua industria per correre alla conquista dell'Asia, ne' questa ha tali moventi che la facciano sortire dalla sua indolenza per rovesciarsi sull'Europa; e se il facesse, il periglio comune unificherebbe i dotti e numerosi eserciti europei, al cui urto gli Asiatici verrebbero dispersi.
Se rivolgiamo lo sguardo all'America, la vediamo messa fra i due continenti, fra le due civiltà, e parrebbe predestinata a dar compimento a questa legge fatale, nella guisa stessa che l'Italia il fece fra l'Oriente e l'occidente. Ma gli Americani son dediti al commercio, all'industria, e non già alla guerra, i loro prodotti trovano sempre mercati abbastanza vasti, e l'estensione e feracità del suolo di cui dispone, fan sí che essa non ha bisogno di cercare ventura per accrescere la sua prosperità.
La Russia, per la sua apparenza guerriera e per le velleità dei suoi autocrati, c'indurrebbe a credere che un giorno fosse destinata a compiere con la spada i decreti del fato; ma non vi è popolo meno del russo adattato alla guerra, esso non è abbastanza civile per sentire i stimoli della gloria militare; né tanto barbaro d'abbandonare le proprie contrade e correre alla conquista di nuove regioni; la volontà dell'autocrate basterà per esaltarlo in difesa del proprio paese, ma non già per trasformare in conquistatori un popolo di servi. La Russia contribuisce a compiere queste leggi fatali non già con la guerra, ma col lento lavoro del commercio. La civiltà europea già accavalca gli Ural e penetra in Asia.
Finalmente, se ci faremo a considerare attentamente le condizioni dell'Inghilterra, ben lungi dal vedere in essa la Roma o la Cartagine moderna, noi crediamo che essa rappresenti ciò che era Venezia nel medioevo. L'Inghilterra vive d'industria, i suoi prodotti sono immensi, e sempre crescenti, quindi essa ha bisogno di mercati vastissimi, essa deve, se le circostanze lo richiedano, aprire col cannone lo sbocco ai suoi prodotti, quindi a noi pare che l'Inghilterra sia destinata a capitanare l'esercito di trafficanti che unificherà la civiltà europea e l'asiatica, se impreveduti avvenimenti non cangiano la condizione dei popoli.
Dunque, esclameranno i parteggianti del continuo progresso, noi avanziamo verso l'unità mondiale, che verrà quasi pacificamente attuata; noi ci avviciniamo ad un libero e facile commercio fra tutti i popoli della terra: i varî prodotti di tante nazioni, la loro industria, le attitudini speciali di ciascun popolo, di ciascun individuo, saranno volti a benefizio di tutta l'umanità, questo è quello che desideriamo. Ma se la storia e la logica ci conducono a queste incoraggianti conclusioni, cerchiamo le sorti piú vicine a cui accenna la vita politica ed economica dei popoli moderni.
Sino allo scorcio del XV secolo l'Italia fu l'astro intorno a cui tutti i popoli europei hanno compito il loro giro, il centro verso di cui tutti hanno gravitato. La sua luce offuscata, questa signora delle genti spenta, questo centro venuto meno, l'Europa abbandonata a se stessa, per quasi tre secoli ha seguito un corso incerto e balenante; la Francia, finalmente, si è surrogata all'Italia per regolare il corso dei destini europei, ma il suo ascendente non è evidente, incontrastabile come fu quello dell'Italia, spesso è contrappesato, quasi sempre resta in ombra, e si discerne a pena, qualche volta sparisce affatto. Nondimeno in Francia possiamo fare studio sulle tendenze delle moderne Nazioni.
Sappiamo dalla storia, come in essa i Comuni non poterono mai completamente francarsi, la regia potestà distrusse e si surrogò al feudalismo. Ma il popolo non essendo libero come in Italia, l'industria ed il commercio lentamente progredirono; il protezionismo, conseguenza della monarchia, tutto interdisse. Finalmente sotto Sully ed Enrico IV fiorí l'agricoltura, sotto Colbert e Luigi XIV l'industria, a cui Turgot con l'abolizione delle corvate e de' mestieri diede grandissimo impulso. Oggi i Francesi, e quasi tutti gli oltremontani, han raggiunto quel grado di prosperità a cui erano giunti gli Italiani allo scorcio del XIV secolo, e se presso gl'Italiani, in quell'epoca, ogni cosa accennava decadenza, quali sono le tendenze de' moderni? "Come!...- esclama Mercier de la Rivière, - ed è un parteggiano del despotismo, l'agiatezza è sconosciuta a color che la producono? Ah!!... diffidate di questo contrasto". Ma spingiamoci innanzi alla ricerca dell'ignoto avvenire.
È innegabile che la presente società può considerarsi divisa in due classi: da una parte capitalisti e proprietarî, dall'altra operai e fittaiuoli. Queste due classi sono in una evidente e continua opposizione, quella prospera al deperire di questa. "Invano, - dice Filangieri, - i moralisti han cercato di stabilire un trattato di pace fra queste due condizioni: quelli cercheranno sempre di comprar l'opera di questi al minor prezzo possibile; e questi cercheranno sempre di vendergliela al maggior prezzo che possono. In questo negoziato quale delle due parti soccumberà? Questo è evidente: la piú numerosa". Questo vero non può negarsi che per ignoranza o per difetto di buona fede: il capitalista mira sempre ad accrescere il prodotto netto, quindi al ribasso della mercede, alla ruina dell'operaio, il proprietario a trarre quanto piú sia possibile dal fittaiuolo onde alimentare i suoi ozî, poco curandosi de' bisogni di quello.
La proprietà fondiaria venne già scrollata dalle riforme del XVIII secolo, che scemarono di molto il suo ascendente sui destini della società, oggi è il capitale l'arbitro dell'umanità, per esso corrono prosperi i tempi. L'umano ingegno datosi all'industria, non tardarono ad inventarsi macchine, strumenti, trovati che ne facilitano il progresso. Ma in questo progresso la vittima è stata l'operaio; le macchine e la divisione del lavoro hanno accresciuto il prodotto netto, e nel tempo medesimo ribassato grandemente il salario; e quelle e questa riducendo l'opera dell'uomo ad un atto puramente materiale e costante, non è rimasta al misero operaio nessuna attitudine di cui possa avvalersi. Un tal fatto gli economisti nol negano, ma come rimediarci?, eglino dicono. Sostituiremo i viaggi sul dorso d'uomini alle strade ferrate, la vanga all'aratro, il copista alla stampa? Non si arriva, soggiungono, senza perdite sulla breccia? Né possiamo tener conto di coloro che il carro del progresso schiaccia nel suo cammino. E l'economista, atteggiandosi qual benefattore dell'umanità, con una gravità sotto cui nasconde la sua ipocrisia, vi dice: noi miriamo al bene pubblico non già al privato. Meno quest'ultimo asserto, le loro risposte sono giuste, sarebbe stoltezza pretendere di arrestare i voli dell'umano ingegno, a noi basta registrare un vero, un fatto, un risultato ch'eglino medesimi non possono negare ed è che: la miseria dell'operaio cresce al crescere della ricchezza sociale, del prodotto netto dell'industria.
Inoltre, maggiore è il capitale, ed in parità di lavoro, maggiore è il prodotto, questo è un assioma in economia; però un vistoso capitale producendo sempre piú a buon mercato che un picciolo capitale, ne risulta che questi dovrà indubitamente soccumbere nella concorrenza; d'onde risulta un altro fatto, che gli economisti non possono disconoscere, ma non vogliono confessare, cioè: nella continua lotta che si fanno i varî prodotti, e i varî capitali, la ricchezza sociale si accresce, ed il numero di coloro che la posseggono diminuisce. L'Inghilterra produce per quanto basta a duecentocinquanta milioni d'uomini, ma solamente nove milioni sono i possessori di queste immense ricchezze. Perché avviene ciò? per legge di Natura: ricerca continua di prosperità; bisogni crescenti al crescer de' prodotti, facoltà inferiori ai bisogni, ecco l'umana natura, d'onde l'operosità, il progresso dell'industria indefinito, la felicità asintoto degli umani sforzi impossibile; ed in questo continuo ed istintivo moto l'uomo cercando di volgere in suo profitto quanto capita sotto i suoi sensi, in una società in cui i guadagni privati non sono cospiranti, non procedono per linee parallele, ma contrarî ed in concorrenza, e cercando vicendevolmente distruggersi, bisogna inevitabilmente, fatalmente tendere ad un'oligarchia di ricchi e raggiungerla.
Dunque i principî su cui sono stabilite le leggi economiche, le leggi immutabili di Natura, i fatti infine, ci dimostrano ad evidenza che le moderne società si avvicinano rapidamente a quelle condizioni medesime a cui giunsero i Magno-Greci, i Romani, i Comuni, cioè esse tendono a ridursi in un'opulentissima oligarchia, ed una moltitudine di mendichi.
Fin qui per ciascuna Nazione in particolare. Ora ci faremo ad esaminare i destini dell'intera Europa. La giustizia, l'utile del libero cambio, astrattamente, è incontrastabile; esso è una conseguenza delle leggi naturali da cui vien regolato il mondo. Ma queste leggi naturali vengono esse osservate nel resto degli ordini sociali, nella distribuzione delle ricchezze? È questo il punto della quistione, dagli economisti studiosamente evitato. La varietà de' prodotti delle diverse regioni, la diversità delle attitudini di ciascuna Nazione e di ciascun uomo, sono fatti da' quali risulta l'utile, la necessità del libero cambio. Che ogni popolo fruisca de' prodotti degli altri popoli e faccia loro fruire dei suoi; che ognuno possa giovarsi delle diverse attitudini di tutti, e tutti di quella di ognuno, è il problema umanitario, il problema che il libero commercio, e la faciltà e rapidità delle comunicazioni risolvono. Il libero cambio produrrà l'altro grandissimo vantaggio che una Nazione, destinata dalla Natura ad essere agricola, non abbandonerà certamente l'agricoltura per l'industria, e viceversa, ed ogni popolo troverà il suo vantaggio rimanendo in quelle condizioni che Natura gli ha fatto. Ma per ottenere cotesti risultamenti richiederebbesi che i prodotti sociali, le ricchezze insomma, scorressero e si diffondessero egualmente in tutte le classi della società, e non già, come avviene, che si andassero restringendo in pochissime mani; questo fatto, che abbiamo dimostrato, fa crollare l'edifizio incantato de' liberi cambisti: è questo lo scoglio ch'eglino vorrebbero nascondere, curandosi poco, ottenuto l'intento, che la società vi rompesse.
Discendiamo ai fatti: un paese abbonda di cereali, ed ivi la plebe vive a buon mercato. Si pone in atto il libero cambio, ed immediatamente gl'incettatoti faranno acquisto di tutto il grano e l'invieranno in quei mercati ove maggiore è il prezzo. Quale sarà la conseguenza? Il caro del pane. Ma, vi rispondono i liberi cambisti, se il prezzo del pane sarà maggiore, vi sarà in compenso una grandissima diminuzione nel prezzo de' panni, delle stoffe, de' tappeti; ed inoltre non contate l'oro che entra nella scarsella degli incettatori? Tutto questo è veto, ma il popolo minuto, misero come è, non ha bisogno per covrirsi de' panni forastieri, né gode della diminuzione di prezzo di questi generi; l'oro che entra nella scarsella degl'incettatori non arreca nessun vantaggio alle moltitudini, ma è volto ad affamarle l'anno seguente. Né qui finiscono i mali. La proprietà fondiaria è un monopolio permanente, ed in una Nazione, destinata dalla Natura ad essere esclusivamente agricola, non tutti possono dedicarsi all'agricoltura, i posti sono occupati, quindi per necessità alcuni capitali e moltissime persone si dedicano all'industria, che per l'indole nazionale, per le condizioni del paese mai potrà ingrandirsi e perfezionarsi in modo tale da sostenere la concorrenza di quelle fabbriche immense, di que' prodotti de' popoli esclusivamente industri, e però il libero commercio le distrugge immediatamente e priva di lavoro quelli operai che già ha tormentati col caro del pane. I capitali poi sortono immediatamente dallo Stato e passano allo straniero. Senza poter rispondere alle prime obbiezioni, i liberi cambisti credono di rispondere vittoriosamente a quest'ultima, e dicono: Allorché il denaro passerà da A in B è segno che A ne abbonda, appena ne mancherà, il danaro vi tornerà, per la ragione medesima che da A è passato in B. Sí, vi tornerà, risponde Proudhon, ma vi ritornerà nelle mani dei capitalisti stranieri, i quali acquisteranno terre, stabiliranno fabbriche, ed A diverrà una nazione che vive dei salarî che percepisce dai stranieri. L'ascendente dell'Inghilterra in Portogallo è dovuta al libero commercio; il vasto impero delle Indie, per questa ragione è divenuto proprietà di pochi mercanti. In una parola, se le condizioni e le relazioni sociali non mutano, il libero commercio facilita la concorrenza, e questa il monopolio di sua natura oligarchico; quindi facilita la tendenza delle ricchezze sociali a ridursi in poche mani, ed il crescere incessante del numero dei mendichi e delle loro miserie.
Coteste verità, che studiosamente si disconoscono, fanno esclamare a Proudhon: "Il libero commercio, ovvero il libero monopolio è la Santa Alleanza de' grandi feudatarî del capitale e dell'industria; è la mostruosa potenza che deve compiere su ciascun punto del globo l'opera cominciata dalla divisione del lavoro, dalle macchine, dalla concorrenza, dal monopolio, dalla polizia: schiacciare le industrie minori e sottomettere definitivamente il proletariato. È la centralizzazione su tutta la faccia della terra, è il reggimento della spoliazione e della miseria, è la proprietà in tutta la sua forza e gloria. È per conseguire l'adempimento di questo sistema, che tanti milioni di lavoratori sono affamati, tante innocenti creature gettate dalla mammella nel niente, tante fanciulle e donne prostituite, tante riputazioni macchiate. E sapessero almeno gli economisti un'uscita da questo laberinto, una fine di queste torture. Ma no, sempre, mai, come l'orologio dei dannati è il ritornello dell'apocalisse economica. Oh, se i dannati potessero ardere l'inferno!!..."
Né qui si arrestano i mali, né qui cessa il potere che hanno le leggi economiche sui destini sociali, esse informano, danno norma, indirizzano verso la stessa meta a cui esse tendono, qualunque politica istituzione, eziandio quelle che sembrano volte a migliorare le condizioni delle moltitudini.
Il governo vive delle gravezze pagate da' cittadini, e queste, meno pochissime su taluni oggetti di lusso, tutte gravitano sui poverelli, sul minuto popolo, che pagane la piú gran parte, che piú delle altre classi sociali ne risente il peso; mentre i ricchi, e coloro che assorbono i maggiori stipendî, sono in proporzione i meno gravati. Questi governi dovrebbero almeno proteggere i miseri. Mai no: è il ricco che ne ottiene protezione, è il povero che popola le prigioni, che vive sotto la sferza e la prepotenza de' birri.
Nel governo assoluto il povero può alcune volte ottenere da un monarca un provvedimento arbitrario ma repressivo contro il ricco; nel governo rappresentativo, coverto con la maschera della legalità, ciò è impossibile: elettori quelli che posseggono, eleggibili quelli che posseggono, i nullatenenti son fuori la legge, sono in una condizione peggiore de' schiavi; il governo è nelle mani de' capitalisti o de' proprietarî, l'industria progredisce, la miseria cresce, e la società corre verso l'oligarchia dell'oro.
Passiamo al suffragio universale, amara derisione del popolo minuto. L'operaio, il contadino, che non votano pel capitalista, pel proprietario, vengono da questi minacciati della fame. I capitalisti fanno monopolio del voto come d'una derrata; il povero nel governo rappresentativo è abbandonato affatto in balia del ricco, i suoi mali giungono al colmo. Il capitale dispoticamente governa, di quinci la codarda politica, co' deboli superbi e co' forti umili; la noncuranza per l'avvenire, guadagni pronti e grossi è la massima de' presenti uomini di Stato; nelle loro mani il telegrafo elettrico ed il vapore, grandi trovati dell'umano ingegno, son volti a perpetuare l'usurpazione e la miseria. Il Sismondi scriveva alla Giovane Italia: "Affiderete voi la causa del proletariato agli uomini che ne dividono le privazioni? essi non hanno forza; l'affiderete quindi a' ricchi? essi saranno i primi a tradire il povero". Ecco il problema fatale che tutte reassume le future sorti dell'umanità. Né questo è tutto: le ricchezze de' pochi e la crescente miseria delle moltitudini producono l'ignoranza e fanno abilità agli usurpatori di salariare parte del popolo per opprimere i rimanenti. Quindi le numerose soldatesche ed il militare dispotismo. La quistione politica è nulla in faccia all'importanza della quistione economica. Finché vi sono uomini che per miseria si vendono, il governo sarà in balia di coloro che piú posseggono, la libertà è un vano nome. Invenzioni, scoverte, ordini nuovi, liberi reggimenti, altro non fanno che sospingere la società in quell'abisso verso cui le leggi economiche inesorabilmente la traggono. In quali Stati è maggiore la miseria e piú sensibile l'oligarchia dei ricchi? In quelli ove le moderne libertà e l'industria maggiormente fioriscono, piú che altrove in Inghilterra, poi nel Belgio, poi in Francia... Gli Europei, dalla burrasca economica che li travaglia, sono cacciati a torme verso il nuovo mondo; e dall'Inghilterra emigrano il maggior numero, perché, secondo i moderni, la piú civile. Son fatti questi e non congetture che vengono in appoggio alla ragione, quindi il vantato progresso altro non è che decadenza. Ma ove giungeremo? sarà un giorno l'affamata umanità governata da una gretta oligarchia di banchieri? È questa la domanda a cui risponderemo col ragionamento che segue.
Svolgiamo la storia, essa ci indicherà quali furono le sorti di que' popoli le cui ricchezze s'accumularono nelle mani di pochi patrizî. I Magno-Greci son lontani da noi, e comeché la loro storia ci venga tramandata attraverso la nebbia de' secoli, pure vedemmo che appena pochi divennero i possessori delle ricchezze sociali cominciò, in quelle repubbliche, il parteggiarsi del popolo, i tumulti, d'onde risultò il militare dispotismo, quindi gli Aristodemi, gli Anassili, i Dionisî, i Faleridi... Presso i Romani gli avvenimenti si disegnano con recisi contorni: appena la società vien divisa in pochi ricchi e numerosa ed ignorante plebe, cominciano, dai mali di questa suscitati, i tomulti: Tiberio e Gaio Gracco, Saturnino Apulieno, Livio Druso, lo stesso Catilina, sono generosi che tentano francare il popolo da schiavitú, alleviare le sue miserie; la guerra sociale, la servile, la spartacida, la mariana, la sertoriana, la catilinaria, furono i conati di un popolo infelice contro l'usurpazione de' ricchi; ma la cagione de' mali non cadeva sotto i sensi, non poteva perciò suggerirsi dall'istinto il rimedio, quindi il concetto che avesse unificata e diretta l'universal volontà mancò; il popolo fu sempre vinto, ma non perciò gli opulenti patrizî gioirono delle loro usurpazioni; ad essi successe il dispotismo militare... quindi Mario, Silla, Cesare, poi l'impero, i pretoriani, che spogliarono ed oppressero ricchi e poveri. E gli stessi avvenimenti li vediamo esattamente riprodotti nelle repubbliche del medioevo: l'oligarchia de' ricchi cade sotto il dispotismo dei venturieri. E presso i moderni quali sono i fatti che osserviamo? chiunque senza spirito di parte si farà ad esaminarli potrà riconoscere che essi sono del medesimo carattere di quelli avvenuti presso i Magno-Greci, i Romani, il medioevo: i tumulti, le congiure, le guerre civili si succedono, il dispotismo militare, fra noi, a cagione degli eserciti permanenti, piú pronto, già s'estolle su tutti gli ordini, viola giuramenti, calpesta leggi, vuota borse... Banchieri! monopolisti! cercate gioire del presente, giacché l'avvenire non vi appartiene; il popolo non può ottenere il trionfo che sbarbicando ed abbattendo tutto l'edifizio sociale, ed in tal caso voi perirete sotto le ruine; se poi il popolo è vinto, il dispotismo militare v'aspetta, la vostra morte sarà piú lenta, vedrete poco a poco vuotare le vostre borse, e morrete consunti: altra alternativa non v'è, questo decreto del fato è incancellabile.
Ecco, o dottrinarî!, il progresso sognato dalla vostra beata schiera. È maravigliosa l'astrazione in cui questi cotali, lontani dalla miseria e dall'opulenza vivono; eglino credono in buona fede che dalle loro elucubrazioni fiorirà la libertà. Una catastrofe politica li sorprende, un soldato prescrive i limiti alle loro dissertazioni, come un pedagogo limita, minacciandoli colla sferza, le ricreazioni de' fanciulli; essi senza perder coraggio velano le loro idee, le lasciano indovinare, e procedono, sognando di far guerra al dispotismo. L'idea, il concetto dominano, è vero, il destino de' popoli: ma esse son conseguenza de' fatti, e non si traducono in fatti che dalle rivoluzioni compite per forza d'armi; ed il popolo non trascorre mai alla violenza perché animato da un concetto, ma perché stimolato da' dolori. Cosa sono le idee senza le rivoluzioni, senza la guerra che le faccia trionfare? un nulla, sono le varie forme che i vapori prendono nell'aria e che uno zeffiro disperde.
Ma non bisogna arrestarsi alla superficie della società, su cui purtroppo chiaramente è scolpito un tale destino, fa d'uopo esplorare il fondo per pronunciare la sentenza.
Discorremmo come i pregiudizî e le opinioni, in origine cari, manifestando col tempo i loro attributi, cagionano, perché non concordi con le leggi di Natura, mali gravissimi, ed il rispetto, anzi il culto che il popolo aveva per essi cangiasi in disprezzo e derisione. Coloro che primi scrollano questi pregiudizî sono i riformatori, affrontano questi l'ira sociale, sovente l'esecrazione di quelle moltitudini che eglino vogliono difendere, e tanti dolori immediati tanti motivi esterni vengono in essi contrappesati dal convincimento di essere i propugnatori del vero.
Incontro a questi, dicemmo eziandio, sorgono gli apologisti del presente, dediti sempre a sacrificare ogni loro convincimento ai vantaggi che gli vengono offerti dal mondo esteriore; sono questi i propugnatori degl'interessi che prevalgono e, difensori delle classi che predominano, nascondono sempre il male sotto le apparenze del bene, sono gli ottimisti. Queste due schiere nemiche possono dirsi i genî del bene e del male dell'umanità; quelli rappresentano il moto, la vita; questi l'immobilità, la morte; sono due pleiadi che precedono sempre le grandi crisi sociali; una tramonta a misura che l'altra sorge sull'orizzonte. Queste due schiere nemiche vengono, fra i moderni, chiaramente rappresentate dai socialisti e dagli economisti, e noi ci faremo ad esporre per sommi capi la lotta che tuttora fra loro si combatte.
Tutti i riformatori, osservando la cattiva e l'ingiusta distribuzione delle ricchezze in una società che pretende di esser libera, cercano un mezzo acciocché essa venga egualmente ripartita. Le idee di Campanella nella Città del sole, di Cabet nell'Icaria, le teorie di Owen, di Louis Blanc, tutte si propongono lo scopo di creare una forza estrinseca, artificiale, la quale presieda alla divisione delle ricchezze. Carlo Fourier, superiore a tutti, rinviene questa forza nella natura stessa dell'uomo: sciogliete il freno alle passioni, concedete ad esse piena libertà: e l'equilibrio, egli dice, si stabilirà da sé. Nondimeno nell'applicazione di questo trovato egli prescrive alcune regole; grande nel rinvenire questa forza di cui si va in cerca, erra nel modo come adoperarla.
Gli economisti hanno francamente appiccata la battaglia ed abilmente ferito nel debole della corazza. I vostri sistemi, dicono essi, non sono che il ristabilimento del dispotismo con tanta pena abbattuto. Incontro ad essi, il passato protezionismo può dirsi libertà: voi prescrivete il vestito, il cibo, la dimora, alcuni tra voi finanche l'ora del coito. La società sotto un tal reggimento perirebbe di languore, l'uomo non lavora che per sé; se distruggete la personalità distruggete il prodotto. Pretendete forse con le vostre utopie cangiare le immutabili leggi di Natura? Libertà a tutti e per tutti è la formola degli economisti, e quindi, osservate superficialmente le cose, eglino, in questa lotta, sembrano i propugnatori della libertà e del progresso. La libertà ridona la dignità all'operaio, vi dicono essi, noi non possiamo né vogliamo lasciar da parte la sua volontà, altrimenti sarebbe ridurlo alla condizione del bruto che opera sotto l'incubo della sferza. Continuano, né tralasciano di servirsi giustamente ed abilmente del sarcasmo: I vostri sistemi, dicono ai riformatori, sono cosí complicati che solo il vostro grande ingegno che li ha concepiti può averne un'idea chiara e distinta; e però per attuarli fa d'uopo che la società abbandoni nelle vostre mani tutte le ricchezze, tutti i suoi diritti, che vi conceda illimitatissima potestà, acciocché voi possiate rigenerare l'umanità. Le vostre filantropiche pretese, è forza confessarlo, non sono picciole.
Fin qui la vittoria degli economisti è completa. Ma quando si trasporta la quistione sul suo vero terreno, cambiano le veci; quando i riformatori a lor volta gli dicono: Voi parlate di libertà e dignità dell'operaio? Quale libertà voi gli concedere se non quella sola di morir di fame? Quale sferza è piú umiliante e piú potente della fame, solo ed unico legame che aggioga il proletario al carro sociale? Quando i riformatori numerano e mostrano la profondità delle piaghe sociali e, la statistica alla mano, terribile scienza, contano in Parigi trecentosessantamila persone immerse nella miseria; ed in tutta la Francia sette milioni e mezzo d'uomini che vivono con soli cinque soldi al giorno; e nel Belgio un milione e mezzo che vivono di pubblica beneficenza; quando spalancano innanzi ad essi quei tetri volumi delle ricerche fatte in Londra, delle condizioni dei poveri; quindi scorgesi che quasi tutti i malfattori son miseri ed ignoranti; quando si osserva, finanche un morbo distruttore rispettare il ricco ed unirsi con gli altri innumerevoli mali sotto il nero e stracciato vessillo della miseria; quando infine, in forza delle stesse leggi economiche, gli dimostrano ad evidenza che questi mali debbono immancabilmente crescere con spaventevole celerità, allora gli economisti rimangono atterriti. I loro sofismi sono impotenti, il sarcasmo cangiasi in ira e prorompono alle onte, li chiamano anarchisti, parteggiatori; ma i fatti, sanguinosi e minaccianti, non cessano di protestare.
Fra gli economisti, il solo onesto, Malthus, coraggiosamente si è svincolato dalle fatali strette. Non sono le leggi economiche, egli dice, non è l'ingiusta distribuzione delle ricchezze, non le condizioni ed i rapporti sociali, la cagione di questi mali, ma essi risultano da due leggi immutabili di Natura, che regolano la propagazione della specie e l'accrescimento del prodotto, e fanno sí che l'una procede in una progressione geometrica, mentre quello cresce in una progressione aritmetica, e quindi conchiude: "Un uomo che nasce in un mondo di già occupato, se la sua famiglia non ha come nutrirlo, e la società non ha bisogno del suo lavoro, quest'uomo, dico, non ha il minimo diritto a reclamare una porzione qualunque di nutrimento, egli è realmente soverchio sulla terra. Al grande convito della Natura non v'è posto per lui, la natura gli comanda d'andarsene, né tarderà a porre essa medesima quest'ordine in esecuzione".
Non è necessario dimostrare, per ribattere l'argomento di Malthus, che in Natura non esiste cotesta legge fatale e terribile, ma basterà rispondere che se essa esistesse, non dovrebbe avere effetto, se non quando ognuno non occupasse nel convito della vita che un posto solo; ma se quella ingiusta distribuzione di ricchezze di cui si ragiona fa sí che un solo occupa molti posti, che nove milioni, per esempio, come avviene in Inghilterra, divorano la mensa che Natura ha imbandito per duecentocinquanta milioni, allora chi potrà impedire ai tanti esclusi di avvalersi di quella superiorità di forze dalla Natura stessa concessegli e, calpestando quei pochi, farsi da loro medesimi giustizia?
Giunta la quistione a tal punto, entra in lizza Proudhon, la chiave della volta, secondo Garnier, dell'edifizio sociale è polverizzata: la proprietà è un furto, è la netta, evidente, incontrastabile conseguenza a cui perviene con la sua inesorabile logica. Gli economisti hanno consumate inutilmente tutte le loro forze per difendersi, ma l'impresa era troppo ardua, massime per la proprietà fondiaria. Sarebbe soverchio venir ripetendo in queste pagine gli argomenti di Proudhon, il certo è che: un uomo ozioso, semplice consumatore, inutile alla società, che impone patti a suo capriccio a coloro a' quali la società deve tutto, è l'immediata, la legittima conseguenza del diritto di proprietà. L'ultimo fra i volgari, se i pregiudizî non l'accecano, se la sua ragione può per un solo istante francarsi dall'imperio de' fatti, è nel caso di comprendere questa verità. Come mai può dirsi giusta una legge dalla quale risulta il diritto di non far nulla e scialacquare il frutto degli altrui sudori?
Gli economisti hanno alzata l'ultima barricata dietro di cui si credevano invulnerabili: la terra, soggiunge Bastiat, non ha valore, (quasi che la mancanza di valore in un oggetto da tutti desiderato potesse adonestarne l'usurpazione), la proprietà, egli dice, è un lavoro accumulato. Ma ad onta di questa ardita asserzione sono stati disfatti, ed hanno visto distrutte eziandio le ragioni con cui difendevano il capitale: l'uomo creato con facoltà inferiori ai suoi bisogni non può bastare a se medesimo, e solo associandosi coi suoi simili sorte dallo stato selvaggio; isolato è inferiore a quasi tutti gli animali, associato diventa sovrano. Solo non può neppure procacciarsi il necessario; in società, ottiene subito dal lavoro collettivo un prodotto sovrabbondante, quindi comincia il risparmio, il capitale; e siccome il lavoro, come afferma lo stesso Pellegrino Rossi, non essendo trasmissibile, non è neppure usufruttabile, ne risulta che il risparmio, ovvero il capitale, conseguenza di un lavoro collettivo, non può essere che una proprietà collettiva. Il capitalista che paga otto di salario ad ogni operaio che produce dieci, non solo ruba due ad ognuno di essi, ma ruba eziandio la loro potenza collettiva, quella potenza per cui l'azione simultanea di cento persone è superiore all'azione successiva di tutti gli uomini della terra; potenza per cui accrescesi oltre misura il prodotto; potenza generatrice del capitale. Per qual ragione adunque, gli operai, padroni legittimi del prodotto del loro lavoro, padroni legittimi del capitale che la loro potenza collettiva ha accumolato, sottostanno alle esorbitanti e tiranniche esigenze d'un capitalista? La fame ve li costringe; se nella presente società cessasse la miseria, capitalisti e proprietarî piú non troverebbero né operai, né fittaiuoli che volessero lavorare per loro conto, cesserebbe ogni produzione; la miseria gli fa abilità ad usufruttare gli altrui lavori, la miseria è il punto d'appoggio su cui librasi, è la base su cui poggia, chiave della volta che sostiene l'edifizio sociale, è il solo movente che produce quella vantata armonia sociale, per cui pochi si giovano del frutto dei lavori di molti.
Gli economisti, vedendosi debellati, hanno eseguita un'abile evoluzione, sono ritornati sull'antico terreno, hanno trascinato nuovamente i loro avversarî ad esaminare i sistemi che pretendono surrogare alle condizioni e relazioni presenti; han detto a loro: "voi non fate che distruggere, edificate, ed esperimentiamo se i vostri concetti sono attuabili". I riformatori in quest'ultima contesa mancarono di carattere, si mostrarono deboli: eglino, credendo sincere le proposte de' loro avversarî, si fecero a chiedere ai proprietarî i mezzi come esperimentare una società senza proprietà, la facoltà d'abolirla, ammirabile innocenza!!... eglino avrebbero voluto riedificare senza distruggere, vestire il povero senza spogliare il ricco, vana speranza! Lo stesso Proudhon pretende riformare la società con alcune istituzioni che tutti potrebbero accettare. I loro avversarî gli risposero con un sorriso di scherno, ed ascosero il loro veleno per servirsene a miglior tempo. Noi troncheremo il nodo della quistione, non essendovi alcuna necessità di scioglierlo.
Riscontrasi forse registrato ne' fasti dell'umanità che le rivoluzioni si compiono con una discussione o con un'esperienza? che gl'interessi opposti, da cui viene l'urto, si salvano entrambi? D'onde, se non dal torrente degli affetti che sgorgano dalle rivoluzioni e travolgono nel loro rapido corso ogni ostacolo, sorte inaspettato il nuovo ordine sociale? A noi basta d'aver provato, né ciò possono negarlo gli economisti, che i mali, le cagioni di pungenti dolori, esistono non solo, ma crescono continuamente, e questo fatto, scritto a caratteri indelebili negli eterni volumi del destino, racchiude in sé la rivoluzione, come i corpi il calorico. "Quando il popolo non avrà piú nulla da mangiare, mangerà il ricco". In questi termini, con queste parole, Rousseau ha preveduto e definito la rivoluzione, e cosí avverrà. Inoltre le nazionalità compresse, le ingorde tirannidi, l'agitarsi delle sette, sono altre cagioni, effetti e causa della rivoluzione, le quali ne avvicinano il momento, e vestono delle loro apparenze alcuni rivolgimenti, il cui movente principale, la miseria, il bisogno di migliorare, rimane nascosto.
Dunque, risponderanno esterrefatti gli economisti, la rivoluzione preveduta, desiderata, è la strage, la spoliazione? Sí, tale sarà, ma le sue vittime saranno in numero assai minore di quello che voi ne spegnete coi lunghi tormenti della miseria. E fossero piú, noi ripeteremo le vostre frasi: "non si giunge senza perdite sulla breccia - non possiamo tener conto di coloro che il carro del progresso schiaccia nel suo cammino". Conchiudiamo: la rivoluzione è inevitabile, essa si avvicina con caratteri chiari e distinti e procede indipendente dalle discussioni dei dotti. Noi ci faremo ad esaminarne piú minutamente le tendenze.
"La Provvidenza, - esclama Alessio Battiloro in Palermo nel 1647, - fa le campagne ubertose per tutti, né noi dobbiamo morire di fame perché alcuni ladri s'impinguano".
È questa la formola della rivoluzione, che esiste latente da due secoli, dal momento che al popolo del medioevo successe il popolo moderno. Tutti i rivolgimenti che hanno avuto luogo da quell'epoca, che avranno luogo in avvenire, tutti, comeché in apparenza vestiti di altri caratteri, sono l'effetto del medesimo movente, i bisogni materiali del popolo. Questi varî rivolgimenti sono stati vinti e sviati, imperocché l'istinto appigliandosi alle apparenze ha trascurata la realtà, sollecito della riforma politica non ha curato la sociale, ma il movente principale sino ad ora occulto, sconosciuto, non compreso dalla moltitudine, già comincia ad emergere dal fondo della coscienza sociale. Chi, oggi, è cosí semplice da supporre che un popolo corra alle armi per surrogare qualche scaltro ad un re, per inalberare uno straccio dipinto in un modo piuttosto che in un altro, per ottenere con le stesse miserie un pomposo nome? Chi negherà che il popolo armasi perché spera in cuor suo, senza dirsi il come, migliorare le sue materiali condizioni? Chi negherà che libertà, patria, diritti... sono vani nomi, sono amare derisioni per coloro dannati in perpetuo, dalle leggi sociali, alla miseria ed all'ignoranza, inerenti al diritto di proprietà come l'ombra ai corpi? Perché amerà la libertà della persona, del pensiero, della stampa, colui che non ha mezzi come esistere, che per ignoranza non pensa e non legge? Sorrideva Metternich quando i sovrani si spaventavano della quistione politica; il suo arguto ingegno scorgeva che la vittoria era certa pel dispotismo finché la quistione non diventasse sociale. Ed oggi chi non vede che la quistione sociale comincia a prevalere alla politica? Gli stessi uomini tenacemente ristretti fra le antiche idee sono loro malgrado obbligati a concederle qualche pensiero, qualche frase. Non era la quistione sociale che scriveva nel '33 sulle bandiere dei ribelli a Lione, Vivere travagliando, o morire combattendo? Non era la quistione sociale quella a cui Cavaignac nel giugno del '48 rispondeva a colpi di cannone? E le associazioni che si creano, appena ne hanno facoltà, quasi istintivamente, non accennano forse a cotesto avvenire? E l'indifferenza con cui il popolo francese mirò violata la costituzione dello Stato, arrestati i suoi rappresentanti, diroccato il palazzo dell'assemblea, non dice chiaramente che egli sperava con la repubblica migliorare le proprie condizioni, e, rimasto deluso, non trovò una ragione sufficiente per difenderla contro l'Impero? Sono scorsi quasi due anni che ho scritto queste pagine, ed al cominciar del 1856 con mia soddisfazione, posso aggiungere nuovi fatti in conferma del mio asserto. Ora che le dottrine socialiste piú non si manifestano, ora che i dottrinanti d'ogni colore predicano l'assurda concordia de' partiti contro il comune nemico, il socialismo si eleva alla pratica, è l'aspirazione di una società secreta, la Marianna.
Le concioni popolari in Londra già prendono questo carattere, aspreggiano i ricchi, Nella Spagna, ove non erasi mai scritto di socialismo, esso mostrasi nei tomulti popoleschi; e la sollevazione di Lione, quella di giugno, la Marianna, le concioni d'Inghilterra, i tomulti di Barcellona... sono quella serie di fatti che tendono a trasformare l'idea in sentimento, che renderanno suggerimento dell'istinto ciò che a pena un tempo antivedeva la ragione. Quando un tal fatto avverrà, in men che balena crollerà il moderno edifizio sociale, e su le sue ruine si vedrà sorgere l'era della libera associazione.
A cotesti fatti, sappiamo quale sarà la risposta dei conservatori: noi speriamo, dicono essi, che tutti i rivolgimenti vengano, come per lo passato, soffocati nel sangue; noi non daremo campo alla rivoluzione di ergere il capo, noi cercheremo di comprimere ogni elatere dell'animo e vinceremo. Ed io rispondo, forse lo potrete, ma nell'aspra lotta le forze della società si logorano, e voi di vittoria in vittoria vi troverete inevitabilmente sotto il giogo del militare dispotismo, e quindi della decadenza e dissoluzione.
L'avvenire è già inesorabilmente stabilito, o libera associazione, o militare dispotismo. Quale di queste due condizioni sociali avrà il trionfo è dubbio: noi faremo fine a questo paragrafo paragonando le forze contrarie che debbono venire in lotta, e cosí [potremo] manifestare un'opinione se non esatta, almeno probabile, rispetto al nostro avvenire.
Se il popolo scuote la schiena rovescia facilmente nobili, ricchi, preti che l'opprimono, questa imbelle schiera d'oppressori non possono paragonarsi alla gagliarda aristocrazia feudale, essi verrebbero fugati dal solo fragore della plebe in corruccio; la sola forza che li protegge, la sola forza che si oppone alla rivoluzione, sono gli eserciti permanenti; ma quale è la loro natura? Possiamo paragonarli ai satelliti armati di cui si circondavano i tiranni della Magna Grecia, a' pretoriani de' romani imperatori, a' venturieri del medioevo? No: pei moderni ufficiali la milizia è un mestiere, ma non lo è pe' gregarî, per questi è un peso a cui con riluttanza si sottomettono. La disciplina adopera ogni mezzo onde, quasi direi, affatturarli, e farne un sostegno della tirannide, di cui i soldati sono le vittime piú che le altre tormentate, ma non perciò cessano di esser popolo, dal cui seno sono svelti a forza, e sempre agognano di farvi ritorno. Perché dunque credere che il fascino, l'incanto che li aggioga al dispotismo, non possa cadere, né possa sorgere in essi la speranza di un migliore avvenire, da conquistarsi non già al prezzo di una battaglia, ma solamente rifiutandosi di combattere contro i proprî concittadini ed amici? Chi piú del semplice soldato deve desiderare un miglioramento delle condizioni della plebe? Egli non è che plebe. Inoltre, quell'amor proprio di corpo in cui risiede tutta la forza de' moderni eserciti è, eziandio, efficacissimo conduttore d'ogni nuova idea; un solo, in que' difficili momenti, in cui gli spiriti esaltati ondeggiano nell'incertezza, momenti nelle guerre civili comunissimi, basterebbe per trascinare col suo esempio un reggimento intero, ed un reggimento un esercito. Aggiungi che la polvere da sparo ha reso facilissimo l'armeggiare; ha diroccato le torri dei feudatarî; ha sfondata la loro corazza; ha uguagliato il povero al ricco, il forte al debole; ha reso impossibile alle soldatesche sostenersi in una città, in cui i cittadini padroni degli edifizî son decisi a combattere; e dando finalmente il vantaggio al numero sul valore, pare che abbia favorevolmente decisa la causa dell'umanità.
Concludiamo: la moderna società trovasi in quel punto fatale d'onde le antiche hanno rapidamente declinato. Ma, facendo considerazioni sulle condizioni de' moderni, osserviamo una grande differenza con gli antichi. Il popolo è misero come l'antico, ma non come quello parteggiato da' ricchi, e legato alle loro persone; il prestigio di cui godevano gli oppressori piú non esiste; le quistioni sulle riforme vaste, nette, non vaghe ed oscure come le antiche, esse dall'astrazione di pochi cominciano già a diventare idee pratiche, sentimento di molti: facili gli armeggiamenti, la trasformazione del cittadino in guerriero facilissima, prontissima; per nemici i soli eserciti permanenti, popolo anch'essi, e però può sperarsi che la società non declini, ma ascenda all'era della libera associazione, scorrendo cosí un'orbita piú vasta di quella percorsa dai popoli che ci hanno preceduto.


IV. Discorremmo come i varî rivolgimenti trasformano la società, ed illuminati da' fatti, dalle moderne condizioni e relazioni degli uomini, abbiamo sospinto lo sguardo nell'avvenire. La religione fra coteste vicende molto opera, ma pochissimo le modifica, quindi preferimmo per semplicità separatamente discorrerne.
La religione è un effetto dell'ignoranza e del terrore; l'uomo deifica ogni forza ignota che lo spaventa, e personifica coteste forze dandogli le proprie forme, le proprie passioni: quindi mutano i costumi e gli attributi de' dei al cangiare de' costumi de' popoli.
I primi numi furono i reggitori di quelle forze, che la Natura manifesta nel suo tremendo corruccio, e cotesti numi cosí possenti la sconvolgevano, al credere de' stupidi ed attoniti mortali, per muover guerra all'uomo. Di quinci la credenza di averli offesi, il desio di placarli, e siccome la sola vendetta accheta l'uomo sdegnato, per placare gli dei gli offrirono la vita dell'offensore, ed il culto manifestossi con gli umani sacrifizî. Isolati gli uomini, ognuno ebbe i propri dei, quindi gli dei penati, i lari. Riuniti in città, surse il pubblico culto, come surse la pubblica opinione, il pubblico costume.
I popoli si mansuefecero, si assottigliarono le menti, e la religione cangiò; l'agricolo e placido Etiopo adorò le costellazioni che annunziavano le stagioni, avverse o propizîe ai suoi campi, ed il dilagare dei fiumi fecondatori; le nomò con simboli conformi alle sue idee, ed adorò questi simboli, queste sue creature. Il guerriero e politico Italiano, adorò la fede, la pace, la guerra... Infine, con l'ingentilirsi de' costumi, i sacrifizî umani cessarono.
Nell'assottigliarsi della ragione surse la greca e l'italica filosofia, la quale era in opposizione, come ogni filosofia, coi principî religiosi. Gli dei de' Greci e de' Romani non erano gli arbitri del destino degli uomini, ma di aiuto efficacissimo se propizî alle loro imprese, nemici terribili se irati; al disopra di essi eravi l'immutabile destino, alle cui leggi sottostavano dei e mortali. La filosofia, naturalmente, concentrò tutti i suoi studî su questa forza, questa legge suprema, e riconoscendo la frivolità degli altri simboli, l'assurdità della numerosa turba di dei, li dichiarò tutti falsi, ed altro non riconobbe che questa potenza superiore, che fu l'unico Dio, le cui leggi essendo eminentemente giuste, e però immutabili, distruggevano qualunque culto, qualunque relazione tra Dio e gli uomini, e cosí, come era naturale, la filosofia stabiliva l'ateismo.
Il riconoscere una legge suprema, giusta e fatale, regolatrice de' destini degli uomini, era idea che poteva allignare solamente fra un popolo puro e conscio della propria dignità, ma la buona semenza fu sparsa su cattivo terreno, il degradato popolo del cadente Impero. Popolo avvilito, popolo schiavo, che le miserie avevano ridotto quasi nello stato medesimo del selvaggio atterrito dalla sconvolta Natura, venne, naturalmente, dal proprio scetticismo condotto a rimettere le proprie sorti nelle mani di questo unico Dio, e ne fece il vendicatore degli oppressi, l'arbitro degli umani destini; e siccome i popoli si creano i dii ad immagine loro, cosí gli attributi di esso furono la sua propria abbiettezza, l'umiltà, la pazienza, l'indifferenza per le cose terrene. Il culto come adorarlo, i misteri, i riti li trasse dagli Orientali, quanto i Romani di quell'epoca schiavi ed indolenti. Intanto la solitudine degli animi e degli interessi, l'egoismo umano, volto solo all'utile privato, questo in diretta contraddizione con l'utile pubblico, produsse, naturalmente, la reazione negli animi dei scrittori, i quali come sogliono i correttori di costumi, senza comprendere che que' vizî erano l'effetto dello sfacelo in cui andava la società, dell'istituzioni che la reggevano, credettero porvi rimedio predicando contro di essi, e contrappesandoli con massime di fratellanza ed abnegazione, e cosí da questa morale predicata ma impraticabile, e dalla teologia orientale nacque il cristianesmo, le di cui regole, le di cui massime mostrano benissimo che sursero fra un popolo eccessivamente degradato ed in balia di uno sfrenato egoismo. Quindi, giustamente, Hegel dichiara la modestia cristiana nel sapere il grado supremo dell'immoralità. Immorali e contraddittorie alla Natura umana dovevano essere tali massime, perché surte fra un popolo in cui ogni elatere dell'animo era spento, e predicate in contraddizione della realtà, dei fatti ch'erano effetti delle immutabili leggi di Natura. Gli uomini deificati formarono ad imitazione del paganesimo la turba de' dii minori che, come gli antichi, presiedettero a tutte le operazioni della vita, a tutti i fenomeni della Natura. Alcune madonne, alcuni santi con speciali attributi, gli amuleti, le reliquie, specie di feticcio, si surrogarono ai dei penati, ai lari, e cosí con diversi principî e nomi, ma quasi con le stesse forme, alla religione di un popolo giovane e fiorente si sostituí quella che convenivasi ad un popolo degradato e corrotto.
Gli dei antichi erano degli eroi, perché eroico il popolo che li adorava quelli de' cristiani dei martiri, perché schiavi ed oppressi gli adoratori. Avvezzi gli antichi a vedere il trionfo ed a rispettare il giusto, lo riguardavano come legge immutabile a cui sottostavano dei e uomini; i cristiani per contro, che la miseria aveva sospinti allo scetticismo, ne perdettero ogni idea, e deificarono l'arbitrio, abbandonando i destini dell'umanità in balia d'un Dio, secondo la preghiera degli uomini mutabile, e cosí al padrone che si creavano nel cielo, davano gli attributi medesimi che avevano i loro padroni sulla terra. La morale degli antichi, risultata dall'azione, era pratica e però d'accordo con l'umana natura; quella dei cristiani impraticabile, perché volta a frenare le sue leggi.
La nuova religione, umile in prima, si propagò strisciando fra i potenti, ma divenuta padrona della forza, mostrossi oltre ogni credere feroce e codarda. Inorridiscono i moderni, in pensando a' terribili riti druidici ed agli umani sacrifizî degli antichi, non conoscono, tanto da' pregiudizî è oscurato il loro intelletto, quanto piú atroci e codardi sono gli assassinî del cristianesimo, commessi nei tetri recessi dell'inquisizione.
Coronata di fiori, resa ebbra dallo stesso sentimento religioso, alla splendida luce del sole, fra devota e festosa moltitudine, involavasi la vittima degli antichi, la cui vita, in men che balena, veniva spenta dal colpo che vibrava il destro sacerdote.
Carica di catene, estenuata dalla fame, sotto le oscure e solitarie volte de' sotterranei, circondata da carnefici, non già addestrati al rapido uccidere, ma raffinati nel lento incrudelire, frusto a frusto, fra tormenti atrocissimi, consumavasi la vittima dei cristiani.
Ne' sacrifizî degli antichi l'aria risuonava dei canti dell'inneggiante e devoto popolo, ed era profumata dalle nuvole di fumo che s'innalzavano dai bruciati incensi; fra' cristiani, invece, veniva percossa da' stridi acutissimi della vittima ed appestata dal lezzo insopportabile di carni lacerate ed arse. E quindi i principî, i misteri, gli attributi degli dei, i riti, i sacrifizî, tutto insomma, rivela nel paganesmo un popolo generoso, e nel cristianesmo un popolo codardo e feroce.
Fin qui della religione. Ora diremo de' sacerdoti ogni eroe fu sommo sacerdote nella propria famiglia e fra i suoi clienti. Formati i vichi, i paghi, le città, la concione de' forti, spesso, non potendo occuparsi delle cose divine concernenti il pubblico culto, delegò altri a compiere tali ufficî, ma costoro, con tali facoltà, acquistarono ben presto un grande ascendente sulla credula moltitudine, e l'aristocrazia si vide osteggiata, contrappesata dalla teocrazia, di quinci la lotta fra queste due caste, che si disputavano la sovranità. Uno dei fatti piú antichi che ci rammenta questa lotta accanita, è l'esterminio che Nob fece d'Achimelech con altri ottantacinque sacerdoti. E le mille volte, presso i Celti, incalzati dal fulmineo brando de' prodi aristocratici, i tremanti sacerdoti dovettero riparare nelle caverne. In Italia l'aristocrazia prevalse, presso i Magno-Greci, come presso i Romani, i numi ubbidivano alla suprema potestà dello Stato.
Le medesime vicende si riscontrano nel cristianesmo: surto in uno Stato già costituito, fu al principio indipendente dal governo. Come fra i vichi ed i paghi della primitiva barbarie il capo era sommo sacerdote, cosí ogni villaggio, ogni città de' primi cristiani elesse un cittadino a tale ufficio, il vescovo. In tal guisa cominciò la teocrazia, la quale, crescendo il suo potete, si rinserrò in una casta e si attribuí que' diritti che ad essi venivano dal popolo, ed erano inerenti al popolo.
La lotta con l'aristocrazia non tardò a dichiararsi, quindi i guelfi e i ghibellini. La spada vinse, il prete fra' moderni, ove il reggimento è nelle mani di uomini né codardi né devoti, se non di diritto, di fatto è soggetto a chi impera: il pergamo, i miracoli, le preghiere sono ai comandi del trono.
Cerchiamo ora di scorgere quale sia l'avvenire a cui accenna la religione. Discorremmo come essa ha seguito i destini de' popoli ed è conforme ai loro costumi. In quella de' selvaggi vi è impresso il terrore di cui è figlia; il loro ingentilirsi ne rammorbidisce gradatamente i troppo duri contorni, e la religione di una società fiorente è quale si conviene ad un popolo di eroi, ed è sempre in perfetto accordo con l'utile pubblico, come quella nata fra uomini dediti al bene ed alla grandezza della patria.
Nella decadenza delle società, poi, si riscontrano in essa le contraddizioni e la viltà d'un popolo degradato, e, cercando rapire l'uomo alle cure di un mondo in cui soffre con la promessa di un futuro ed immaginario godimento, deve sempre trovarsi in opposizione con l'utile pubblico.
Dunque, affinché una nuova religione potesse sorgere, sarebbe indispensabile che un cataclismo confondesse la nostra mente, ne cancellasse ogni tradizione e riproducesse in noi la meraviglia stessa, lo stesso terrore che i selvaggi sentirono al brontolate del tuono. O pure è indispensabile che la corruzione e la miseria, comprimendo affatto l'elatere di nostra vita, ci prostri talmente che, disperando delle proprie forze, ci costringa ad invocare potenze immaginarie; non v'è che l'uomo atterrito o degradato che ripone le proprie sorti nelle mani di Dio. Nel primo caso si riprodurrebbero le primitive religioni, con nomi diversi, perché spente sono quelle tradizioni. Nel secondo, esistendo ancora una religione surta in simili condizioni, non potrebbe che riprodursi, rifiorire la medesima. Quindi se la società moderna declina, risorgerà il cristianesmo e raggiungerà nuovo splendore con rifiorire il cattolicismo, stato di sua perfezione; e viceversa, se questa religione perde il suo prestigio è indizio che la società s'avvicina al suo risorgimento. Apriamo l'animo alla speranza, esso non dovrebbe esser lontano.
Ma quale sarà la religione della società rigenerata? È questa l'ultima domanda a cui ci faremo a rispondere. La religione è fondata su di un'idea di potestà suprema, di dipendenza, senza della quale non potrebbe esistere. Senza preghiere, senza credenze, senza culto, senza autorità non v'è religione. Dunque sono indispensabili i sacerdoti, che parlano in nome degli dei, che predicano la virtú che gli dei richieggono. È egli mai possibile che ciò avvenga? In una società la quale tende verso la libera associazione e l'uguaglianza, ove ogni gerarchia sarà abolita, potrà mai allignare fra essa l'idea di dipendenza da una somma sapienza? chi oserà dirsi delegato da Dio a predicare la virtú? chi, eziandio, nelle presenti condizioni, può farlo senza esser deriso? Il popolo, dice Mazzini, sarà il solo interprete di Dio; ma in simile caso Dio che cosa diverrà? I suoi voleri saranno quelli del popolo né potranno esser differenti, imperocché per esprimerli sarebbe d'uopo d'interpreti che non fossero popolo, quindi Dio diventa un vano nome, e non altro. Se poi, come soggiunge lo stesso Mazzini, Dio è la legge, allora fa d'uopo dichiarare di quale legge parlasi; se di una legge naturale, allora essa deve assolutamente esistere nel popolo, quindi Dio sparisce, Dio è il popolo. Se poi questa legge è differente da quella di Natura, sarà indispensabile un rivelatore, ma chi l'oserà? Ognuno, al giorno d'oggi, potrebbe dire: Italiani! ascoltatemi! io vi darò le migliori leggi possibili, ma niuno avrà tanto ardire, o sarà cosí stolto d'aggiungervi: esse mi sono state rivelate da Dio!
La religione non è, come asseriscono alcuni, il desiderio, il bisogno di venire alla conoscenza dell'assoluto; la religione è un sentimento di debolezza che rendeci creatori ed adoratori di potenze sovrumane, e quando la ragione dimostra che queste forze non esistono, o almeno non impongono doveri, né accordano premî, né infliggono castighi, né havvi mezzo come placarle e renderle a noi propizie, la religione piú non esiste. Dicono alcuni: il simbolo della nuova religione sarà l'Umanità, la Ragione, la Libertà. Ma coteste idee non essendo né mistiche, né sovrumane, non hanno in sé alcun sentimento religioso. Ma, senza andarci ravvolgendo in inutile giro di parole, domandiamo a costoro, se nella nuova società a cui eglino medesimi accennano, vi potrà essere un'idea mistica che ne modifichi la costituzione ed i costumi degli uomini. La risposta non può essere che negativa, quindi la società rigenerata dovrà essere indubitatamente irreligiosa.
Chiamare religione e deismo l'aspirazione alla conoscenza dell'infinito, è un'improprietà di linguaggio, è oscurare le nuove idee con voci antiche destinate ad esprimere tutt'altro sentimento. Non ammettere che queste aspirazioni, dichiarare ogni simbolo di Dio assurdo, negargli ogni ingerenza nella vita dell'uomo, altro non è che irreligione ed ateismo.
In tutte le religioni sino ad ora esistite la fede ha creduto alla certezza e verità obbiettiva della parte sovrumana. La ragione altro non aveva fatto che distruggere un simbolo e sostituirne un altro accettato come verissimo. Ma oggi siamo trascorsi piú innanzi: studiando sul passato e scorgendo una successione di simboli religiosi, ognuno a sua volta dichiarato falso, si è dedotto che tutti erano egualmente bugiardi, che tale è il presente, che tale sarebbe un nuovo simbolo che ad esso si sostituisse. Dunque la nuova fede quale è? Il non aver fede in nessun simbolo perché chimere della nostra immaginazione: ovvero la nuova fede è l'irreligione. Tutti i riformatori, tutti gli apostoli del progresso sono irreligiosi ed atei, ma tutti non vogliono accettare questa conseguenza della loro dialettica e si dichiarano, con enfasi, religiosi e deisti. Per contro, non tutti sono socialisti, ma tutti, comeché professando dottrine opposte al socialismo, si compiacciono dirsi tali, e perché. La ragione è evidente: l'irreligione è già sentimento, quindi tutti la professano, ma sono riluttanti a confessarlo; il socialismo riguardasi ancora dottrina, e tutti cercano farne pompa, senza comprenderlo o approvarlo.
Un'altra ragione per cui la religione si dichiara indispensabile è che la storia la registra come un fatto universale e costante. Ma questa ragione non dovrebbe avere alcun peso per coloro che credono al progresso indefinito, imperocché tale credenza non può ammettere che una qualsiasi istituzione debba esistere per la sola ragione che ha sempre esistito, anzi la dottrina del progresso indefinito stabilisce il contrario. La religione ha sempre esistito imperocché tutti i popoli della terra hanno percorso sino ad ora la medesima orbita, son soggiaciuti alle medesime vicende. Gli Orientali, gli Etruschi, i Magno-Greci, i Romani, i moderni, tutti partendo o dallo stato selvaggio, o dalla barbarie ricorsa, hanno raggiunto il medesimo grado di civiltà, e sonosi trovati nelle medesime condizioni. Al termine poi di questo ciclo sociale percorso da tutti i popoli del mondo, si è accennato ad una legge di fraternità ed eguaglianza quasi sintesi dell'idea sociale: vi accennarono le dottrine di Zoroastro e di Confucio, vi accennò Platone, vi accennò il cristianesmo, vi aspirano piú recisamente i moderni. Quei popoli decaddero né poterono raggiungere questo nuovo stato; noi, raggiungendolo, varcheremo un punto che nessun popolo ha varcato, quindi niuna delle istituzioni passate o presenti ci può esser norma da indovinare le future. L'irreligione sarà nuova, come è nuovo il socialismo.
Faremo fine a questo capitolo richiamando l'attenzione del lettore su di un fatto, da cui moltissimi son stati tratti in un grossolano errore. Quell'aspirazione alla fratellanza, che abbiamo scorto in tutte le società che cominciavano a dissolversi, la comunità de' beni predicata nel vangelo, ha lasciato credere quasi a tutti che quelle antiche idee fussero i rudimenti del moderno socialismo, ma quest'aspirazione ad un migliore avvenire, che sentiva un popolo avvilito, un popolo in cui era spenta ogni energia, era conseguenza delle condizioni di quella società che doveva o progredire o decadere. Ma essa non fu che una semplice aspirazione, le massime che prevalsero furono quelle dell'umiltà, dell'indifferenza alle cose terrene de' cristiani, effetto di loro degradazione e causa che ne accelerò la caduta; una tale aspirazione fu il crepuscolo d'un tramonto tolto quale l'alba di nuovo giorno.
L'avvenire immaginato da' cristiani in tale aspirazione sarebbe stato la trasformazione del mondo in un convento. Il fanatismo condusse que' popoli al martirio, ma non potette elevarli alla battaglia. Per contro, fra le dottrine de moderni socialisti, fra le massime ricevute, non havvene alcuna che dissolve od avvilisce: gli uomini oggi si associano non già per pregare e soffrire, ma per prestarsi vicendevole aiuto, lavorando, per acquistare maggior prosperità, e per combattere; l'aspirazione del socialismo non è quella di ascendere in cielo, ma godere sulla terra. La differenza che passa fra esso ed il vangelo è la stessa che si riscontra fra la rigogliosa vita d'un giovine corpo ed il rantolo d'un moribondo.

CAPITOLO SECONDO

V. Nazionalità. - VI. Libertà. - VII. Unità. - VIII. Federazione.

V. Senza obliare le verità economiche rammentate nelle precedenti pagine, e le conseguenze da esse dedotte, restringeremo le nostre considerazioni fra i confini che le Alpi ed il mare segnano alla nostra patria; e prima di farcene a scrutare l'avvenire, verremmo svolgendo que' popolari concetti che sembrano reassumerlo, mentre essi non potranno ch'esserne la conseguenza e l'effetto.
In Italia, il concetto sociale appena albeggia, traspare appena fra i voti e le speranze universali; il politico predomina, e la ragione è, per se medesima, evidente: un popolo a cui negasi una patria, crede un tal fatto cagione assoluta de' mali suoi, e conquistandola spera alleviarli: nondimeno i fugaci esperimenti del '48 e '49 han fatto scemare fra gl'Italiani, e per essi non intendo sette, ma l'intera nazione, il prestigio che aveva il politico concetto. Se malamente sopportansi le presenti miserie, sentesi eziandio che un cangiamento di forme, di nomi, d'uomini, non è rimedio efficace; ed un tal sentimento, comeché sconfortante al presente, è pegno indubitato di migliore avvenire, avvegnaché sarebbe impossibile abbracciare nuove idee, nuovi ordini, prima che il fatto non avesse distrutto le passate illusioni e gli antichi pregiudizî. Inoltre, sono le relazioni di Stato a Stato cosí intime, e cosí intrecciate in Europa, che gli esperimenti in politica fatti da una nazione, del pari che le invenzioni e le scoverte, sono di un utile universale, non potendo rimanere inosservati ed infruttuosi per gli altri popoli; epperò l'Italia va ammaestrandosi, non solo con le proprie esperienze, ma ancora con quelle de' suoi vicini. I Stati europei navigano di conserva verso la stessa meta; il primo a giungervi determinerà la linea sulla quale verranno ad arringarsi. La Francia, piú che ogni altra moderna nazione, ha fatto numerose esperienze sulle varie forme del suo reggimento. Gli Italiani han visto, tremendo esempio, crescere i suoi mali senza verun vantaggio: un tal fatto, e le nostre passate esperienze, sono cagioni abbastanza gravi a determinarci allo studio accurato delle conseguenze ove potrebbero condurci le nostre istintive aspirazioni. A chi credono che la buona scelta degli individui o qualche picciolo cangiamento facesse fruttare in Italia felicità quelle stesse istituzioni cadute in Francia nel dispotismo, è inutile rispondere; io non scrivo per costoro, i quali, se non sono ignorantissimi, la malafede è indubitata.
Nazionalità è una parola, che, all'iniziarsi i rivolgimenti del '48, corse di bocca in bocca, ed è tuttora per gl'Italiani di grandissima efficacia, ma sempre è stata malamente definita, mai profondamente riflettuta.
La nazionalità è l'essere di una nazione. Un uomo che liberamente opera, liberamente vive ed esprime i propri pensieri, possiede completamente il suo essere, ma se un ostacolo qualunque impedisce lo sviluppo delle sue facoltà, ne interdice la volontà, ne arresta i moti, l'essere piú non esiste. Nella stessa guisa, per esservi nazionalità bisogna che non frappongasi ostacolo di sorta alla libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno interesse prevalga all'interesse universale, quindi non può scompagnarsi dalla piena ed assoluta libertà, né ammettere classi privilegiate, o dinastie, o individui la cui volontà, attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere: è nazionalità quella che godesi sotto il giogo d'un assoluto sovrano? Quale utile ebbero i popoli dalle guerre che da tre secoli e mezzo si combattono in Europa, guerre di rivalità dinastiche e non d'altro? Gli Austriaci, i Prussiani, i Piemontesi, i Spagnuoli quali ragioni avevano di correte alle armi e d'assalire i Francesi per vendicare la morte di Luigi XVI? Il popolo sotto tali governi è un gregge vilissimo, tosato in pace co' balzelli, strumento in guerra di vendetta e d'odio personale fra i principi. La ricca vita nazionale si reassume e si angustia in quella ignobilissima d'un despota, o d'un suo favorito, e diventa però mutabilissima, quindi la stessa Nazione la vediamo ora superba, ora umile, ora bigotta, ora religiosa, ora debole, ora forte; il continuato progresso impossibile, ogni ministro distrugge o sceglie altra via del predecessore, sempre suo rivale, e la nazione è condannata ad un perpetuo ondeggiare. Tutto ciò ch'è collettivo, epperò nazionale, abborrito, interdetto. La storia della nazione riducesi ad una cronaca menzognera o scandalosa delle virtú o de' vizî dei principi. Ove adunque trovasi la nazionalità? Quali vantaggi otterrebbe l'Italia con l'unità monarchica assoluta? Nuovi mali, e non altro.
Tutte le miserie ed umiliazioni che ora si riscontrano in ogni principato in cui è divisa l'Italia, non cesserebbero, ma, a queste, altre ne verrebbero aggiunte che dall'accentramento del potere e dell'amministrazione naturalmente risultano.
Come ora languono le provincie d'ogni Stato, languirebbero allora egualmente le città che oggi son capitali, eccetto una. Il male e l'ingiustizia che le provincie sieno governate da uomini spediti da lontane corti, crescerebbero in immenso con l'unità. Gli abitanti delle varie capitali, oggi usufruttano quasi tutte le cariche di ogni Stato, in allora ad una sola città restringerebbesi un tal vantaggio. La probabilità di rinvenire fra tanti principi uno che sia meno cattivo, la loro debolezza che rende meno ardua l'impresa di rovesciarli, cesserebbe. Scapiterebbe l'industria, che ora in ogni Stato ha un centro di moto; scapiterebbe per la ragione medesima il commercio, non contrappesandosi i danni dell'accentramento dalla piú libera circolazione interna. Ogni governo, eziandio dispotico, è costretto alcune volte, o perché l'epoca il comporta, o per indole del principe, a proteggere le scienze, ed avvalersi de' distinti ingegni; quindi, in ragion del numero de' governi cresce la probabilità che splendesse qualche face fra le fitte tenebre della tirannide; né Beccaria, né Filangieri, né Pagano, né Romagnosi, conterebbe l'Italia se fosse stata una sola monarchia. Avvegnaché in un sol centro troppo lontano dagli estremi sarebbesi favorito lo sviluppo dell'ingegno, e difficilmente un sol governo sarebbesi mostrato in breve tempo piú di una volta propenso alle riforme, né avrebbero avuto luogo le varie vicende che le promossero.
La forza è il solo apparente vantaggio dell'unità; dico apparente, perocché l'esercito ed il tesoro sono mezzi di cui dispone il re, non già la nazione, volti ad opprimerla e non già a difenderla: non pegno di prosperità ma incentivo a' capricci di qualche despota avventuroso.
Quale monarchia può reggere al paragone del nostro splendido medioevo, co' suoi torreggianti edifizî, col suo Dante, col suo Machiavelli, coi suoi guerrieri di ventura, e raggiungere in sí breve tempo quel grande sviluppo dell'industria e del commercio? L'Italia surse dalla barbarie, raggiunse l'apogeo della civiltà, decadde, ed allora le altre nazioni vennero ad attingere dalle sue ruine una scintilla di vita. Non prima dell'epoca di Luigi XIV la Francia s'avvicinò a ciò ch'era stata l'Italia nel XIV secolo. La storia di Francia sarà sempre la cronaca d'una corte dissoluta; e quella [d']Italia la storia di libere genti; l'una è l'immagine de' dispotici imperi asiatici, l'altra della libera Grecia. Perché tanta differenza? Perché l'indole svegliata degl'Italiani ed il loro spirito d'indipendenza non si prestò mai, né mai si presterà a seguire come stupido gregge le sorti di una dinastia. La libertà, e non già la forza, potrà unificare l'Italia.
Nelle grandi monarchie, salvo la capitale, le altre provincie languono quasi membra inaridite e dogliose: esempio la Francia, ove la fazione che trionfa in Parigi dispone a suo talento di trentaquattro milioni di Francesi. Minori assai sono i nostri mali, divisi come siamo in tanti principati, che l'esser tutti sottoposti al medesimo tiranno.
Passiamo ora a far paragonare fra la monarchia assoluta e lo stato di conquista. Un paese governato dispoticamente subisce una perenne conquista. I principi non hanno patria, loro patria è il mondo che si parteggiano. Ove cercano le spose, ove gli amici? fra i connazionali forse? mai no: fra questi cercano sgherri e cortegiani; loro amici sono gli altri principi, pronti a muovere le armi in loro difesa. Quale interesse possono avere gli Italiani di favorire una dinastia piuttosto che un'altra? il medesimo di un condannato a cui fosse concesso di scegliere il carnefice. Se mai siamo destinati ad essere tiranneggiati ed oppressi, è meglio che i satelliti del despota, i sostegni del dispotismo, siano stranieri. Ne verrà risparmiato il dolore di veder rivolti [contro] noi stessi i nostri concittadini: ed essendo maggiore il distacco fra il governo ed il popolo, piú sentito sarà l'odio, piú pronta e terribile la vendetta. Non è forse piú onorevole pe' Romani che il papa debba sostenersi per forza d'armi straniere che se lo fosse da armi nazionali? Non sarebbe stato, per la Francia, meno vergognoso il sottostare ad una conquista, che vedersi oppressa, umiliata, venduta, da Francesi stessi? Si direbbe disgraziata la Francia, ma non corrotta. La conquista può essere l'effetto di una momentanea prepotenza di forza, né dura se lo spirito nazionale esiste. La tirannide domestica, per contro, sorge dalle viscere stesse della Nazione, e vi tiene profondate e sparse le barbe. In una parola, quando i tempi son maturi per libertà, che un despota scacci un altro despota o si sostituisca alla conquista straniera, il popolo, senza nulla guadagnare, sopporta infruttuosamente tutti i mali della guerra. Col dispotismo non v'è nazionalità, qualunque lingua parli il tiranno, qualunque sia il luogo ove ebbe i natali.
Della monarchia costituzionale, dirò brevemente, non perché dopo il detto sia necessario, ma ad evitare l'accusa d'averne taciuto ad arte. Tal forma di governo è assurda altro non è che un'ipocrita tirannide. Il principe, capo delle armate, padrone del tesoro, distributore di tutte le cariche ed onori dello Stato, negoziatore con le Potenze straniere, sorgente di tutte le grazie, solo inviolabile ed irresponsabile di qualunque atto, mentre non havvene alcuno che non sia sua emanazione e sua volontà. Adunque, gli attributi, la forza, i privilegî del principe sono i medesimi che nella monarchia assoluta; quali sono incontro ad essi le guarentigie del popolo? Un patto, ovvero il giuramento del principe stesso, ed un congresso, che il governo, fonte di tutti i favori, facilmente rendesi ligio. Credesi guarentigia la guardia nazionale? Questa istituzione è un accrescimento di forza al governo, e non già una difesa del popolo. I suoi capi sono a scelta del re, e sarà perciò facilissimo, se non d'avvalersi dell'opera di questi armati, paralizzare almeno la loro azione, perocché, essi, loro malgrado, subiranno, quantunque leggermente, l'influenza dell'autorità de' loro capi, e moltissimi cittadini, che in qualche avvenimento prenderebbero parte attivissima, se ne astengono, se guardie nazionali. Inoltre, l'inutile servizio ad essa imposto è, ai piú, di gravissimo peso, sovente non proporzionato, attesa l'indole e condizione dell'individuo, ai vantaggi che esso ottiene dalle franchigie accordate dal governo. Dalla sola volontà del re dipende l'esistenza di un tal governo, quindi è stabile per quanto può esserlo la volontà d'un individuo, che un matrimonio, il credito di un favorito, la paura, o altro impreveduto avvenimento, cangia. Si attengono i ministri alle forme, perché da esse dipende il loro utile personale, la loro carica; ma se credono necessaria una misura arbitraria, come ne' governi assoluti, e non altrimenti, l'eseguono; ne sparla il pubblico, ne scrivono i giornali, qualche deputato ne chiede conto a' ministri, e qui finiscono le opposizioni, a questo si riducono i diritti, le guarentigie del popolo.
Credo inutile distendere piú oltre un tal ragionamento, non parendomi necessario addurre ragioni, quando sonovi i fatti che parlano chiaramente. La storia delle monarchie costituzionali è contemporanea, ricca, notissima: la Francia, dopo essersi dibattuta per ventuno anni sotto un tal governo (tale eziandio dovendo considerarsi l'ultima sedicente repubblica), è ritornata al puro dispotismo; nella Spagna son corsi, infruttuosi, fiumi di sangue; e moltissime costituzioni, nell'anno '48, le abbiam vedute soffocate in fasce da' principi medesimi che le avevano concesse e giurate. Non è l'Inghilterra eccezione a questa regola generale; le sue grandiose apparenze non fanno che nascondere le cancrenose piaghe di quella società. Ora che scrivo, il governo inglese è una piramide, alla cui cima pochi sessagenarî si ripartiscono le cariche dello Stato; piú sotto un congresso parteggiato, non da principî politici, ma dal credito personale di quelle reliquie; quindi gli elettori, commercianti ed industriali, che mercanteggiano, eziandio, il loro voto; alla base infine una plebe ignorante e misera oltre misura. Se meno che altrove hanno luogo nell'Inghilterra gli arbitrî del governo, ciò dipende dall'indole pacifica di quel popolo, dalle tradizioni, da alcune leggi che l'avvicinano ad una repubblica aristocratica piú che ad una monarchia.
Inoltre la monarchia costituzionale è corruttrice per eccellenza; è un armistizio segnato fra i principi ed i monopolisti in danno dell'onestà. Il dispotismo non cerca l'appoggio della pubblica opinione; la nazione soffre e tace, ma non mentisce; il governo costituzionale ha bisogno del plauso e dell'approvazione di pochi per opprimere i molti, li compra; e l'approvazione e le lodi si trasformano, sotto tal governo, in merci. Di quinci, l'ignobile e puerile schiera de' soddisfatti ad ogni costo, che si atteggiano, parlano, scrivono (lodando sempre) come se fossero davvero liberi cittadini e la loro opinione avesse peso nelle determinazioni governative. Vantano i loro dritti e la loro libertà, che riducesi al dritto ed alla libertà di applaudire al governo. Tra costoro, quelli che non son venduti materialmente rassomigliano a quei fanciulli i quali, con elmo di carta, spada di legno, credono rappresentare Scipione o Marcello.
Il despota regna con la sciabola, il re costituzionale con l'oro, quindi appena il reggimento d'uno Stato d'assoluto cangiasi in costituzionale, le gravezze crescono in modo esorbitante. Il dispotismo incatena i corpi, il costituzionalismo perverte il morale; quello comprime l'elatere dell'animo, questi lo logora, lo distrugge, ed abitua il cittadino ad una continua transazione, a quel cinismo di cui la Francia è scuola e sentina e da essa si è sparso sull'Europa intera. Sotto nome di libertà, favorito e protetto il monopolio, e quindi il proletario abbandonato affatto all'avidità de' monopolisti ed incettatori. La politica esteriore, codarda ed ipocrita, dovendosi tutelare gl'interessi di una dinastia, facendo le viste di propugnare i dritti della Nazione. Conchiudo, monopolisti, dottrinarî, giornalisti, editori... vantaggiano col reggimento costituzionale, mentre le sorti de' proprietari e quelle del minuto popolo peggiorano. Sovente una tal forma di governo è d'impaccio ad un principe, od un ministro riformatore; se gli stati napoletani avessero avuto uno statuto al tempo in cui Tanucci ne resse le sorti, probabilmente a questo ministro sarebbe riuscito impossibile attuare le tante riforme. Questo governo ermafrodito impaccia un principe che voglia far del bene, ma non frena le niquizie di un despota.
Parmi di aver dimostrato che, sia l'Italia divisa in varî principati, sia riunita sotto una sola monarchia dispotica o costituzionale, la nazionalità italiana non esisterà per questo; l'Italia sarà feudo di varî principotti, o di un solo, e gl'Italiani non altro che vassalli. Ma voglio supporre erronee le ragioni esposte, e concedere che la nazionalità esiste ogni qualvolta le dinastie, o la dinastia regnante, siano indigene, e farmi a studiare sui mezzi e le probabilità di scacciare i stranieri dal suolo italiano, e francare il paese da ogni loro ascendente.
Autorità, tradizioni e forza sono i principî su cui son costituiti tutti i governi d'Europa, la sola differenza che passa fra loro dipende dalle diverse gradazioni con cui la libertà individuale accordasi con essi, perciò nella sustanza differenza non v'è. Cotesti principî son già in discredito; libertà, nazionalità, diritto sorgono ad osteggiarli; di quinci la lega dell'Europa intera contro le nuove idee. I governi occidentali, piú del nord temono queste idee, e quindi piú immediatamente interessati ad osteggiare ogni rivolgimento; né questa triade rivoluzionaria può essere mutilata in modo alcuno; sconvolte le passioni popolari, è impossibile arrestare il torrente ed egli è assurdo per parte nostra il pretendere che si facessero a combattere, per giovare altrui, i principî su cui si basano. Può mai suscitare la rivoluzione chi la teme piú di qualunque altro nemico? Potranno esservi momenti, come è accaduto, in cui le potenze occidentali, per loro mire particolari, facessero le viste di proteggere i rivolgimenti popolari contro la prepotenza del nord, ma appena ottenuto il loro intento, s'unirebbero co' nostri nemici per opprimerci, spezzare, dopo essersene servito, un pernicioso strumento e punire come delitto di maestà i fatti da loro promossi e le speranze che han fatto sorgere. Se l'Austria che francamente ci osteggia merita l'odio nostro, Francia ed Inghilterra (e parlasi qui del governo, non già del popolo) meritano odio e disprezzo perché nemiche occulte. Alí Tébélen, diceva ai Greci: "Non contate che su voi soli: Russi, Inglesi, Francesi, tutti vi saranno nemici dal momento che sapranno che volete essere un popolo, non perdete mai di veduta questa importante verità". Ed egli è cosa naturale che la sola ragione d'impedire che un altro Stato, dalla condizione di vassallo, venisse a sedere accanto a loro ne' congressi europei, sarebbe bastante per far volgere in noi tutte le loro armi. Dunque il risorgimento italiano altro non potrà essere che la vittoria delle nostre armi sull'Europa de' re. In qual modo compiere una tanta impresa? Quali mezzi posseggono i principi italiani per combattere l'Europa intera è quello che verremo ora studiando.
Il primitivo e naturale concetto è una lega dei principi italiani contro l'Austria, ma essi le debbono due volte il trono; sin dal 1815 è l'Austria che timoneggia la loro politica, che protegge i deboli dall'ambizione de' forti, e tutti dalla rivoluzione. Quale utile avrebbero essi di cacciarla dall'Italia, privandosi cosí del piú saldo sostegno de' loro troni? Del Lombardo-Veneto dovrebbero creare uno Stato indipendente o spartirselo, cose entrambe di somma difficoltà ed imbarazzo. Il supporre che tutti cooperassero all'ingrandimento d'un solo, è un assurdo inutile a discuterlo, che il senso comune ed i fatti han dichiarato impossibile. Ma poniamo che i popoli con mezzi violenti e piú stabili che nel '48 costringessero i principi a scendere nell'agone, quale speranza potrebbe porsi in una lega che porta con sé il germe della dissoluzione, il mal volere? Concedasi vinto anche questo ostacolo, restano sempre le discordie, il dubbiare, la poco energia con cui operano le armi collegate: la storia registra fatti innumerevoli che ne dimostrano l'impotenza. L'Europa s'è collegata contro Federico II, contro l'Inghilterra durante la guerra americana, contro la Francia durante la rivoluzione; Federico uscí vittorioso dalla lotta, l'Inghilterra conservò sempre una grande superiorità sui nemici, fu la costanza degli americani e l'abilità di Washington che la vinsero; i Francesi vinsero sempre, caddero per propria stanchezza e non già per virtú del nemico. Chi è solo ha il vantaggio incommensurabile dell'unità di volontà e di comando. E furono leghe coteste in cui ogni collegato da sé solo pareggiava, se non superava di forze, il comune avversario. Cosa sperare adunque da quella di principi italiani di cui tutte le forze messe insieme sono inferiori alle austriache, e fra cui contasi il papa, cosmopolita, e centro di dissoluzione e di discordie?
Se l'Austria abbandonasse la sua abile politica e minacciasse di voler conquistare d'un sol tratto l'Italia, sarebbe il solo caso di una lega sincera, ma durevole quanto il periglio. Le leghe fra i despoti non son mai cementate da mire comuni e durature, l'indole d'un principe, il suo capriccio, un matrimonio cangia la politica e si violano i patti. Basta promettere ad uno de' collegati vantaggi in preferenza degli altri per staccarlo dalla lega, e forse da amico farlo nemico. La colleganza de' re contro i popoli è la sola possibile e permanente; essa esiste di fatto, essendo il periglio comune e durevole.
Facciamoci ora a discorrere del caso in cui un solo de' principi italiani voglia assumere l'impresa d'unificare l'Italia, numeriano i nemici; prima l'Austria, che tre o quattro disfatte non debellano, mentre le perdita d'una battaglia prostra le forze d'un picciolo Stato; con l'Austria s'uniranno gli altri principi italiani facenti ogni sforzo per salvare i loro troni, ed il papa con essi, che oltre di chiamare l'Europa intera in sua difesa, lancerebbe in campo la livida schiera de' clericali, con le armi che le son proprie, tradimento e raggiro. Armi efficacissime in quello sciame di cortigiani di cui circondasi il trono, e che temono scapitare se il padrone vien costretto a spandere in circolo piú ampio i suoi favori. Non trattasi di un re che caccia i stranieri dai proprî Stati; ma di un picciolo Stato che conquisti e debelli Stati ad esso molto superiori di forze. A contrappesare tanti nemici, il principe conquistatore si rivolgerà alle simpatie de' popoli italiani, che, in un baleno, potrebbero rovesciare i troni, soffocare le mene de' clericali, e schierarsi sotto il suo vessillo. Ma il trionfo del popolo in ogni Stato non basta ad ottenere l'unità di voleri e di sforzi che richiede l'impresa. Il volontario cangiamento di dinastia è per se medesimo illogico, chi può rispondere della virtú di una schiatta? In parità di potere la migliore dinastia è sempre la regnante, e perché la piú affine, e perché il paese non sottogiace all'invasione d'uomini nuovi ed ignoti. Allorché tali cangiamenti non avvengono per forza d'armi, sono tranelli di pochi imbrogliatori, che il futuro ed il presente bene della patria sacrificano a' vantaggi personali che sperano dalla nuova corte. Arrogi, che nel caso di cui parliamo, trattandosi di cessare d'esser monarchia per diventar provincia di monarchia, maggiori sarebbero le difficoltà. A tali unificazioni ripugnano i popoli, e piú che gli altri, e con ragione, gl'Italiani. Adunque ogni città, ogni Stato imporrebbe a questo principe patti, chiederebbe tali guarentigie da suscitare in esso gravi preoccupazioni; egli vedrebbe il trono de' suoi avi abbandonato in balia de' mugghianti flutti de' popolari rivolgimenti, né potrebbero menare a fine guerra lunga e terribile.
Suppongasi ora cotesti ostacoli rimossi, ed il popolo italiano, con illimitata fiducia, abbandonarsi all'arbitrio di questo principe, e che niun partito, niun uomo sorga a propugnare idee contrarie o a spargere diffidenza. In tale ipotesi, impossibile a verificarsi, esaminiamo se questo principe potrà osteggiare e vincere l'intera Europa. Quanti ostacoli e di sommo rilievo non si opporrebbero al rapido andamento dell'impresa? delle tasse e della coscrizione, due muscoli della guerra, per mancanza d'ordinamento e d'unità, per diversità di leggi, d'usi, di tradizioni, sarebbe quasi impossibile ad avvalersi. L'Italia deve costituirsi e guerreggiare nel tempo stesso; e son miracoli questi che fanno le monarchie? Sperasi forse nell'esaltazione universale? essa, senza dubbio alcuno, è arma terribile contro il nemico, spiana nell'interno ogni ostacolo, tien luogo di leggi e di magistrati, ma potrà un principe avvalersene senza tema di rivolgerne in se medesimo la punta?
I liberi e popolari oratori che suscitano le passioni; le promesse e le speranze d'un migliore avvenire; schiusa la via a brillanti e rapide carriere; il magico nome di libertà che agita gli animi e li sospinge in cerca di moto e d'azione; l'amore che tutti sentono per la cosa pubblica, perché a tutti è dato liberamente parlarne, farà correre a torme gli uomini alle bandiere, ed entreranno nel pubblico tesoro le sustanze de' privati. Ma potrà un principe avvalersi di questi mezzi? ordinerà invano ai suoi agenti di far suonare le parole di patria e libertà: il suono sarà fioco, il senso oscuro nella bocca di un cortegiano; unite con le lodi della magnanimità del principe formeranno una strana e discorde mistura. Gli uomini che fra l'universale esaltazione corrono alla pugna non possono che esser prodi: come sfuggire, se codardi, alla pubblica esecrazione? La libertà, facendo d'ogni cittadino un censore del governo, ne forma eziandio un sostegno. È cosa notissima come erano onorati presso le antiche repubbliche que' cittadini che si facevano a scoprire e rivelare le trame dannose allo Stato; e fra i moderni stessi, non appena vien adottato il reggimento a popolo, ogni cittadino non dubita farsi il persecutore de' contumaci, opera vilissima in una monarchia. La repubblica, non escludendo nessuno dal sindacato, ed ogni cittadino avendo il diritto di censurare la condotta del generale, non esiterà a denunziare il soldato o qualunque ufficiale; e la stampa, la libera parola ne' circoli e nelle piazze, gli offrirà il mezzo come farlo dignitosamente ed eziandio acquistarne fama. Per contro un severo e pubblico censore trasformasi sotto il principato in un vile delatore: il silenzio è imposto, o almeno la parola limitata; è inviolabile il principe, e non è ragionevole, dicono i monarchici, trovare difetto d'ingegno, di carattere, di patriottismo negli uomini che il principe chiama a reggere lo Stato. Adunque la censura non colpirebbe efficacemente che il povero gregario e dovrebbe esporsi a voce bassa nelle anticamere delle EE. LL.; quindi, comunque rivolta al bene del paese, diverrebbe atto obbliquo e degradante. Inoltre è natura dei cuori generosi, il non sentir simpatia pei re o altro potere che s'impone al paese, e sotto tali reggimenti i refrattarî trovano protezione e compatimento, e non già riprovazione: questa è una delle tante cause per cui gli eserciti regî, ad onta di pene rigorissime, non son mai saldi come le schiere repubblicane.
Né qui finiscono le cagioni che danno il primato agli eserciti di un popolo libero. È istituzione fra questi il fare abilità al valore ed all'ingegno di palesarsi ed aspirare a balzi ai primi onori, di quinci, l'universale operosità, l'ambizione, madre d'eroi. Un generale d'esercito, avido di conservare l'aura popolare, stimato dalla sferza d'una stampa libera e severa, sollecito di soddisfare alla pubblica aspettazione ed impedire che un rivale, con arditi disegni, lo soppianti, precipitasi in quelle audacissime imprese che sono l'impeto di un popolo corrente verso la libertà. Nei regî eserciti è ben diverso il modo di governarsi: il campo della scelta angustiato fra un cerchiolino di favoriti; il duce supremo contento del favore del re, scudo e difesa sicurissima a qualunque errore; un ciondolo inviato dai penetrali della reggia, segno di schiavitú piú che d'onore, tenuto in maggior conto che la pubblica opinione. Da queste varie cagioni risulta la paralisi, il dubbiare continuo, il temporeggiare, la prudenza spinta alla pusillanimità, e per conseguenza meschine imprese, disastri, o patti vergognosi.
Ne' rivolgimenti popolari, egli è vero, che accanto agli eroi si veggono codardi ed impostori, ed il disordine spesso accompagna le grandi imprese, ma non perciò vien turbato il rapido corso degli avvenimenti.
Le rivoluzioni son come le onde d'un rapido torrente che, quantunque torbide della mota sollevata dal fondo, non s'arrestano perciò, né cessano di sgombrare con fremito gli ostacoli che contrastano al loro corso. Appena un principe, o un potere qualunque sorge a reggere il movimento, e dice: farò io,. immediatamente ogni cittadino diviene d'attore spettatore, l'impeto della rivoluzione s'ammorza.
Suppongasi che dall'ignobile schiera de' moderni cortegiani, da quella torba di generali cresciuti fra le pedantesche discipline de' quartieri, sorga, come dalla brillante nobiltà del medioevo, non serva, ma partecipe de' splendori del trono, un Condé, un Turenna, un Montecuccoli... esso non potrebbe menare a buon fine la guerra italiana, avvegnaché, dovendo, durante la guerra, creare la nazione, gli farebbe d'uopo d'un potere piú che sovrano. La sola libertà può risolvere il complicato problema: abrogando ogni legge, dichiarando libero ed indipendente ogni Comune, ogni cittadino, si spezzano le pastoie domestiche, le differenze, i limiti de' vari Stati spariscono, e dall'uguaglianza l'unità risulta di fatto; e cosí non sarà l'effetto d'un nuovo patto imposto agl'Italiani, ma la naturale conseguenza dell'abolizione di ogni patto. Reso libero ed indipendente, ogni Comune avrà il solo obbligo, che gli viene imposto dalla necessità di conservare l'acquistata libertà ed indipendenza, di concorrere con tutti i suoi mezzi a francare l'Italia dai nemici esterni. Una Convenzione italiana ripartirà sui diversi Comuni, ma senza ingerirsi della loro interna amministrazione, proporzionalmente, le gravezze volte ad alimentar la guerra, e l'esercito, eleggendosi, come è suo diritto, i capi, sarà l'esecutore de' voleri della nazione: sgomberare l'Italia dalle Alpi al mare da ogni elemento straniero e tirannico. Potrà mai un principe operare in tal modo? Egli, non potendo accordare illimitata libertà, o dovrà bandire in Italia nuove leggi, o pretendere che tutti si uniformassero durante la guerra a quelle di uno Stato, cose entrambe impossibili ad effettuarsi. In ogni provincia, in ogni Stato giungeranno i regî commissarî, ed il malcontento o l'indifferenza li accompagneranno come l'ombra i corpi. L'Italia non subirà mai il giogo d'un potere che abbia il benché minimo carattere d'uno de' presenti Stati in cui essa dividesi: tutto ciò ch'è esclusivamente piemontese, napoletano, romano... non è italiano. Un principe, durante qualche disastro, essendo puerilità supporre una sequela non interrotta di vittorie, può scendere a patti per salvare il trono degli avi; e però all'Italia fa d'uopo una rappresentanza nazionale, per cui non siavi altro utile se non quello dell'intera Italia, e che dirà: tutto o nulla. Se vi fosse una città che venga dall'esercito considerata come capitale, sarà lo scoglio contro cui romperebbero i nostri sforzi. Carlo Alberto pensò a difendere Torino, i veneziani Venezia, i romani Roma... tutti furono vinti, perché angustiarono l'idea italiana fra le mura d'una capitale; durante la guerra l'Italia non dovrà averne altra che il punto strategico determinato dal corso delle operazioni militari. Un principe non può, con animo sgombero da sospetti, armare l'intero popolo italiano e trasformarlo in un esercito, e per tema di non poterlo padroneggiare e perché la natura del suo governo nol comporta; il principe dovrà guerreggiare con l'esercito, e la nostra è guerra da combattersi dall'intera nazione. Solo un Alessandro, un Cesare, un Napoleone... potrebbe menare a compimento una simile impresa, ma questi grandi, sempre o quasi sempre, sorgono dalle rivoluzioni; ed inoltre la monarchia italiana, fondata da un Alessandro, facendo cedere il fato alla prepotenza del suo genio, sfascerebbesi alla sua morte, come si sfasciarono tutti gl'imperi fondati per conquista. I vantaggi che può offrire la monarchia non son tali da far dimenticare agli Italiani le loro splendide tradizioni municipali; le rivalità e l'odio fra i diversi popoli con tal reggimento non si spengono, ma crescono, e le detronizzate famiglie non mancherebbero usufruttarle in loro favore; la libertà assoluta e l'uguaglianza può solo cancellare le rimembranze del passato. I re, che da disgregate baronie formarono regni, sonovi riusciti distruggendo od assorbendo nella corte le famiglie baronali, ed unificando i popoli con abolire il vassallaggio; ma i tempi son mutati, ed assai diverso è il caso in Italia: la piú larga promessa che farà un principe è uno statuto, cosa sia il sappiamo; promessa che non tarderebbero, e piú largamente, a fare i suoi rivali, ed in parità di circostanze ognuno preferirà di esser monarchia piuttosto che provincia di monarchia. In una parola, la storia e la ragione han dimostrato abbastanza che la forza non fonda Nazioni, ma conquista schiavi.
Finalmente, se la sola guerra di popolo, e guerra affatto rivoluzionaria, può solo riscattare l'Italia dal suo servaggio, non v'è luogo piú a dubbi, se debbasi o pur no lasciar campo alla monarchia di mischiarvisi. Una rappresentanza popolare, che sorgesse in uno degli Stati in cui è divisa l'Italia, non potrebbe né dovrebbe porsi d'accordo, per cacciar lo straniero, con niuna delle monarchie italiane; troppo diverse sarebbero i mandati dei due poteri, troppo diverse le mire, per sortirne un buon effetto. Il principe, piú che all'indipendenza italiana, dovrebbe mirare alla salvezza del proprio trono, che il reggimento repubblicano, ricco in Italia di splendide tradizioni, minaccerebbe di ruina. Un potere nazionale, per contro, col mandato di sgomberare l'Italia di quanto osta alla sua nazionalità e libertà, dovrebbe in ogni modo impedire che il principato acquistasse credito e potere. L'uno direbbe: meglio io re e l'Italia schiava, che questa libera ed io esule. L'altro non dovrebbe riconoscere altri limiti che le Alpi e il mare; altro patto che l'assoluta libertà. Ma concediamo che, o sconoscendo ognuno la propria politica, o per volere della nazione, s'accordassero, quale potrebbe essere il patto? interrogare il paese a guerra vinta, lo stesso del '48; né pare che lo spirito di conciliazione potrebbesi spingere piú oltre di quello che lo fu in quell'epoca fatale. Si mantenne il patto fra tanta concordia? No; l'atto della fusione il ruppe; e cosí avverrebbe sempre, da' regî o da' repubblicani (a chi prima capitasse il destro) sarebbe infranto. Ed è poi da supporsi che un re, eziandio nella certezza di essere eletto, rinuncierebbe al diritto divino, per surrogargli quello del popolo? Dio non può interrogarsi, il popolo sempre; concedere al popolo il diritto di fare un re, è, vogliasi o no, concedergli il dritto di disfarlo.
Ma concediamo tutto possibile, la colleganza, il patto, la fede al patto; a chi verrebbe affidata la suprema direzione della guerra? Ai generali regî, o ai republicani? Permetterebbero questi che le loro forze venissero logorate e distrutte dall'indubitata incapacità e dalla dubbia fede di quelli, o affiderebbe il re il proprio esercito a generali d'un partito avverso? Egli è facile in simili momenti gridare concordia, arrestandosi alle fallaci apparenze delle cose, senza discernerne i veri rapporti, ma nella pratica poi si veggono sorgere gli ostacoli che generano disordine, codardia, illusioni, disfatta.
Finalmente, le speranze di vedere ingranditi i possedimenti di casa Savoia con l'aiuto delle Potenze occidentali; non essendo se non calcoli ed utili parziali, o tutto al piú di una provincia d'Italia, non entrano nel quadro di questo libro; nondimeno ne parleremo di volo. Un forte regno boreale, se non è vassallo della Francia, è dannoso per essa.
La Francia, ogni qualvolta muove guerra all'Austria, deve, per ragione strategica, dirigere i suoi sforzi nella vallata del Po, mentre all'Austria, per contro, conviene tenersi in questa sulle difese e schierare sul Danubio l'esercito maggiore; quindi alla prima rileva sommamente che in Italia, fra esse e l'Austria, non s'intramettesse altra Potenza, capace, se non d'altro, di mantenere la propria neutralità. Il supporre questo regno sempre ligio a Francia è puerile concetto che non merita risposta. Una volta costituito, esso avrebbe propria autonomia, proprî interessi, i quali attese le frontiere e la natura de' prodotti, l'avvicinerebbero piú alla Germania che alla Francia. E questo regno italiano non potrebbe giammai dar norma (come asseriscono i suoi propugnatori) alla politica degli altri Stati: Napoli, Toscana, il papa, per non subirne la preponderanza, si getterebbero nelle braccia del Russo, dell'Austriaco, del Francese: negarlo è disconoscere l'istoria de' Longobardi, degli Angioini, dei Visconti, di Venezia. Mai i Stati italiani han voluto subire un protettorato italiano, perché natura de' principi come de' popoli è, allorché son costretti di avere un protettore, di scegliere sempre il piú potente ed il piú lontano. Quindi questa utopia, che sperano o fingono di sperare i cortegiani, non vantaggerebbe, e forse ben poco, che i solo Lombardo-Veneti. Fo fine a questo ragionamento, persuaso di aver dimostrato abbastanza che la nazionalità cercata ad una lega di principi, ad una monarchia, è un fantasma, una illusione, non è nazionalità; né potrà mai attuarsi, perché leghe principesche, o principi, non possono né conquistarla né conservarla. L'Italia, per vincere i suoi numerosi e potenti nemici, bisogna che combatta svincolata dalle pastoie domestiche: la guerra del risorgimento gli Italiani debbono guerreggiarla da uomini perfettamente liberi: richiedere all'esaltazione le schiere, ed al bollor delle passioni popolati quei genî che mai non mancano nelle rivoluzioni, come le folgori non mancano alla tempesta; il credere che la libertà debba seguire l'indipendenza è funestissimo errore, è quel desso che nel '48 ci ricacciò nella schiavitú.


VI. Affermano alcuni, ma non molti, che potrebbesi, benché privi di nazionalità, godere di libertà. La piú parte di costoro son dotti, pei quali, a loro credere, è patria il mondo; e cotesta vanità può, in parte, adonestare il loro asserto che, assurdo quanto quello di nazionalità senza libertà, male adeguerebbesi con la loro dottrina.
L'esser privi di nazionalità vuol dire che un elemento straniero debba, nella nostra patria, preponderare, ed in tal caso è indubitato che la libertà individuale verrà lesa. L'Italia, o parte di essa, dicono costoro, potrà formar parte di un'altra nazione libera, e godere di una tal libertà. In primo luogo, come l'utile, le attitudini, le inclinazioni non si riscontrano mai identiche fra due individui, del pari avviene delle nazioni. Un Italiano non sarà mai né Francese, né Tedesco senza una forza estrinseca che violenti il suo naturale. È questa una verità sentita, un assioma che non ha bisogno di dimostrazioni; una provincia italiana, o l'intera Italia, che facesse parte di liberissimo Impero, non potrebbe perciò dirsi libera; gli Italiani non sarebbero che schiavi beati, (per quanto possa esservi beatitudine fra le catene), ma non altro che schiavi. Se poi l'Italia, o parte di essa, fosse confederata con altra nazione, in tal caso sarebbe libera se unita da volontario patto ed allora di fatto esisterebbe la nazionalità; ma se una ragione qualunque imponesse questo patto, nazionalità e libertà sparirebbero entrambe. Tali furono i Cisalpini, vergogna maggiore del bastone tedesco. Tra i Cisalpini ed i moderni Lombardo-Veneti havvi la differenza medesima che fra un vile cortigiano ed un fiero e dignitoso cittadino condannato per delitto di maestà. Se la semplice centralizzazione italiana può intaccare la libertà, come essa può mai rimanere intera sotto l'attrito che eserciterebbe su noi un popolo straniero? eziandio riducendo il tutto alla sola libertà di stampa, pure i scrittori che si faranno a propugnare l'utile della propria nazione, giungeranno ad un punto che intaccheranno il protettore, e la forza li farà tacere, se l'oro non giungerà a comprarli.
Facciamoci ora a considerare la libertà, nel suo vero aspetto, nel suo vero significato: dritto di eleggersi i proprî maestrati, di esser giudicati da' proprî conterranei; di esser legislatori di se medesimi; di non sottostare ad alcuna determinazione, senza che venga ascoltato il proprio parere, o di chi eleggesi quale rappresentante... Possono tali condizioni verificarsi senza una recisa nazionalità? Oltrecché, come un individuo per esistere deve sentire il proprio essere, la propria sensibilità, ed avere un pensiero tutto suo, attributi che non solo non possono venirgli comunicati, ma vengono distrutti o mutilati dalla benché minima influenza altrui, del pari ogni influenza straniera non potrà mai favorire, ma ritardare il nostro risorgimento.
Sperano altri che un popolo straniero ci conquisti per poi donarci libertà, ed è questa delle utopie la piú assurda e codarda ad un tempo stesso. Il forte troverà maggior vantaggio nel comandare, che nel francare completamente il debole; senza che, la libertà ottenuta in dono non potrà essere che condizionata, quindi mutilata; non è libera una nazione convinta, ch'altri, volendo, possa rapirgli la sua libertà; la piena fiducia nelle proprie forze è una condizione indispensabile (fiducia che solo dai fatti può emergere), quindi la libertà deve non solo conquistarsi, ma conquistarsi senza aiuti. Se gl'invasori d'Italia, ritirandosi, l'abbandonassero a se medesima, non per questo l'Italia sarebbe libera: senz'alcuna fiducia, o almeno dubitando del suo valore, ad ogni incontro, non potrebbe che trattare umilmente con l'antico padrone temendo che questi gli rapisse il dono concesso, ed è spettacolo piú della schiavitú umiliante lo scorgere una nazione che vantasi di essere libera subire le violenze d'un prepotente vicino. L'Italia per essere libera deve essere indipendente, e libertà ed indipendenza non altrimenti si ottengono che conquistandole: l'Italia deve fare da sé; e tanto piú salda sarà la sua futura libertà per quanto piú numerosi saranno i debellati nemici, e piú superbi i monumenti di gloria meritati per conquistarla.
Dicono i dottrinarî, i quali temono che i marosi della rivoluzione non li sommerga insieme alle lor dottrine: che bisogna educarsi al vivere libero: ottenerlo per gradi e non per salti, ed accettare una mezzana libertà come sgabello all'intera, come pegno di migliore avvenire. Strano ed assurdo argomento. La brama di libertà è sentimento, è aspirazione naturale dell'uomo, e non già dottrina, ed i ripetuti sforzi del dispotismo non bastano a distruggerla. L'uomo sottoggiace all'altrui dipendenza, non già perché mancasse in lui il desiderio di francarsene ed il convincimento di usare utilmente di sua libertà, ma perché teme maggiore tirannia, ed altri mali, che la propria immaginazione, guasta dal desiderio della quiete, gli figura; ed è al bisogno, al desiderio di conservare parte di sua libertà, ch'egli sacrifica la rimanente. Allo schiavo è forza che sia educato secondo i voleri del padrone; ma per vivere da uomo libero basta seguire gli impulsi della propria natura, né havvi necessità d'educazione.
L'uomo appena sentesi soverchiamente gravato dal peso della tirannide e scorge la probabilità di rovesciarla, senza piú, insorge; ed i progressi della scienza, lo sviluppo della ragione, cosa valgono all'insurrezione ed alla battaglia? quali dottrine sospinsero gli Svizzeri alle armi, o inspirarono la guerra degli Olandesi, degli Americani? quali dotti contava la barbera Grecia allorché dava l'esempio del piú eroico coraggio e del piú sentito patriottismo?
Ghermita la vittoria, il soccorso della scienza sembra indispensabile; essa può, svolgendo i tesori dall'esperienza accumolati, additare i mezzi come confermare le conquiste. Ma questi vantaggi, il fatto li dimostra piú effimeri che reali, perciocché non accettano le nazioni i suggerimenti della scienza, ed il volgo di niun progresso è capace se non v'è balzato dall'imperiosa necessità, né havvi ragionamento oltre il fatto che valga a convincerlo; i mali sofferti, il bene conquistato, sono i soli argomenti che fruttano. La discussione, le opinioni, i sistemi emergono dai mali che soffre la società, e la dottrina, in politica, segue e non precede i fatti. Essa dimostra di quanta levatura sia il pensiero della nazione, ma non già la piú o meno probabilità d'un rivolgimento. Una nazione senza dottrina sarà come un uomo semplice e di soverchia buona fede, che facilmente cade nell'inganno, ma non mancherà per questo di forza, di coraggio, d'eroismo, e dell'ardente desiderio di migliorare la propria condizione. E può eziandio avvenire che un popolo dottissimo, imputridito nei vizî, abbandoni, non curante, il proprio destino al primo venuto. Né le nazioni si addottrinano e sortono dalla loro semplicità a furia di libri e di giornali, ma progrediscono attraverso una serie di fatti terribili e sanguinosi. L'opinione la piú assurda è il supporre che una mezza libertà possa bel bello, e senza veruna scossa, menarci all'intera, mentre cotesto vantato progresso legale mena dritto alla corruzione. Facciamoci a sviluppare in tale asserto.
Le condizioni indispensabili ad un popolo per conquistate una libertà duratura sono: lo sforzo per rovesciare la tirannide, determinato dai mali presenti; e per evitarli in avvenire la piena conoscenza della causa di questi mali, ricercati dalla scienza. Esaminiamo la mezza libertà, quanto favorisca coteste cagioni determinanti e dirigenti.
I reggimenti moderati, per loro natura, nascondono e leniscono i mali che, non essendo abbastanza sentiti per obbligarci a ritorcere in noi medesimi lo sguardo, ci sospingono alla ricerca dei mali di popoli piú infelici, che dalla nostra imaginazione esagerati, ci sembrano molto piú di quello che realmente sono, facendoci perciò benedire le dorate catene.
Il morale non compresso, ma logorato, illanguidito, perde la sua elasticità, ed a servi beati l'insorgere riesce impossibile. Accettasi senza dolore la direzione, i nervi del pensiero e dell'imaginazione son tronchi affatto; metodicamente vengono i sudditi condotti a non pensare diversamente da quello che vogliono i governanti; si avvezzano per mancanza di dolore a non rimontare all'origine delle cose, di quinci la mollezza. Per converso, afflizioni, dolori, ostacoli, l'isolamento stesso a cui costringe la tirannide, ritorcono il pensiero in se medesimo, che per propria conservazione tenta ogni oggetto, rendono l'uomo alacre consideratore, e suscitando le passioni s'accelera la reazione e sospingono alla realtà, all'azione. La congiura del Rutli, che divampava con la battaglia di Morgarten ed inaugurava la libertà svizzera, non avrebbe avuto luogo senza l'avversione che Alberto I d'Austria ebbe per le franchigie, e l'efferrata tirannide di Gessler suo proconsole. Né l'Olanda, senza il S. Uffizio ed il duca d'Alba, sarebbesi francata dal terribile giogo sotto cui gemeva. E se l'Inghilterra avesse rispettato l'indipendenza amministrativa delle sue colonie, l'America farebbe parte del suo Impero. Avendo dimostrato come i reggimenti moderati allontanano le cagioni dell'insorgere, ci faremo a studiare sino a che punto essi favoriscono lo sviluppo delle idee.
Pochi, oggigiorno, sono i cultori delle scienze economiche e politiche, la noncuranza che, generalmente, si ha per la cosa pubblica, l'utile individuale affatto staccato dall'universale, sono cause di cotesto male. Quei che se n'occupano non già per farsi ripetitori, ma per trarre nuove conseguenze, scovrire nuove verità ed elevarsi all'applicazione, riscontrano nella società in cui vivono, non solo le cagioni determinanti a farlo, come è naturale, ma eziandio le istituzioni, i costumi di essa società, prescrivono i limiti alle loro ricerche, a guisa che la scienza si distende secondo tali limiti e secondo l'intensità e la purezza delle cagioni determinanti. Fra le nazioni ove havvi qualche franchigia, le cagioni determinanti sono numerosissime, ma volgono tali studî, non già all'esplorazione dei mali, ma alla ricerca del bene; oltreché, soddisfatti un gran numero, pochissimi attaccano radicalmente il governo, e la libertà del dire da esso concessa, facendo discreditare presso il pubblico gli attacchi e gli attaccanti, limitano il campo della critica: infatti, presso queste nazioni, il frutto che si ottiene dalle migliaia di volumi che si pubblicano, da tante accademie, da tanti dotti e dottrinarî, riducesi a qualche microscopica riforma politica, o ritrovato economico, in apparenza utile. Gli onori, gli stipendî di cui largheggiano questi governi coi dotti, sono incentivo a tali lavori che, mascherati da qualche umile osservazione, sono le piú sfrontate apologie del presente. La tirannide, per converso, tutto interdice; il mistero o la fuga possono solamente salvare da' suoi artigli colui che ardisce alzar la voce; rarissime perciò le cause determinanti a scovrire le piaghe della nazione, ma se sorgono, purissime e fortemente sentite, altre non ponno essere che i mali da cui è oppressa la società, e la nobile ambizione dell'aura popolare comprata a caro prezzo. La moderazione di niuna difesa a chi osa; l'opinione pubblica pronta a favorire colui il quale con piú ardire muove i suoi attacchi, quindi libero, franco, appassionato il dire. Per lunghi anni si tace in uno stato dispotico, ma se la pazienza del popolo comincia a scuotersi, appariscono quegli opuscoletti che suscitano una rivoluzione. Vi sarà poca erudizione e sfoggio di dottrina, ma questa a che giova se non scende ai fatti? Conchiudiamo, che la mezza libertà, le concessioni, non sono stato di transizione per giungere a francarsi da ogni giogo, ma efficace mezzo di cui giovasi la forza per garentire le sue usurpazioni; è uno stato non di scuola, ma di paralisi. Né qui finiscono i mali dei moderati reggimenti.
I rivolgimenti di un popolo vissuto sotto un duro dispotismo sono piú terribili, piú recisi e piú atti a gettar radici che quelli di uno Stato a metà libero. Quale differenza fra la repubblica francese del '91 e quella del '48, l'una surta sulle ruine d'un lungo regno assoluto, l'altra basata sul fango d'un moderato reggimento? Quella terrore dell'Europa e sola pagina onorevole della storia di quel popolo; questa oggetto di scherno e disprezzo universale, e macchia indelebile all'onore della nazione. Inoltre, istituzioni, caste, privilegî, culti, tutto è odiato sotto il peso della tirannide, perché tutte armi volte ad opprimere la moltitudine, epperò tutte nei rivolgimenti distrutte, quindi sgombero il cammino da ogni ostacolo.
Invece nei Stati a metà liberi, quasi tutto salvandosi, la rivoluzione da mille impacci è arrestata o sviata dal suo corso. Dottrinarî, che a voi convenga la mezza libertà, che l'industria ed il commercio fiorisca alla sua ombra, concedo; ma non asserite che essa giovi al minuto popolo, e che ci meni ad un migliore avvenire. L'uomo ha bisogno di lunga e laboriosa esperienza per giungere alla conoscenza di quelli ordini (che sono le leggi naturali) i quali garentiscono la conquistata libertà; ma per francarsi dalla tirannide che l'opprime, procede a salti, lo schiavo non smaglia lentamente le catene, ma le spezza.
Conchiudiamo: la libertà non ammette restrizioni di sorta alcuna, né fa d'uopo d'educazione e di tirocinio per gustarla, essa è sentimento innato nell'umana natura; le franchigie concesse dai despoti nei momenti che non si veggono sicuri della vittoria, non sono che un narcotico somministrato al popolo per addormentarlo fra le lentate catene ed annebbiarne l'intelletto, e quindi senza nazionalità, la libertà non può esistere. Ma oltre la nazionalità, essa per non dirsi una menzogna, una derisione, richiede un'altra condizione, per molto tempo ignorata, ora ad arte disconosciuta, l'uguaglianza.
Egli è falso che l'uomo associandosi co' suoi simili debba sacrificare parte di sua libertà. Questa può definirsi il libero esercizio delle proprie facoltà fisiche e morali, che vien limitato dal mondo esteriore, da' bisogni, da' mezzi di soddisfarli. La società, mediante la sua forza collettiva, trasforma in mille guise il mondo esteriore, giovandosi, con infiniti modi, delle forze naturali e dei loro prodotti, quindi offre all'uomo un campo sempre piú vasto per l'esercizio delle sue facoltà, accresce i suoi bisogni, facilita i mezzi come soddisfarli, e la vita dell'uomo associato deve necessariamente essere piú ricca di sensazioni di quella dell'uomo isolato, ovvero quello goderà di una libertà maggiore che questo. Proudhon scrive: "La libertà di ciascuno, riscontra nella libertà altrui, non un limite, ma un aiuto; l'uomo il piú libero è quello che ha maggior numero di rapporti coi suoi simili". Quindi, se per un individuo o per una classe d'individui non si verifichi tale verità, è forza conchiudere che i loro rapporti con l'intera società non sono equi, ma v'è indubitatamente ingiustizia. Se da un uomo non richiedesi lavoro, mentre si costringe un altro a lavorare eccessivamente, havvi privilegio per quello, ingiustizia per questo, che sarà schiavo della società. Il solo lavoro, che ogni uomo senza distinzione alcuna deve per proprio utile compiere, è quello che le sue naturali attitudini indicano ed i suoi bisogni richieggono; con questa legge, e non altra, tutti gl'individui componenti una società dovrebbero contribuire all'accrescimento del comune prodotto. Inoltre, cotesta società, dovrebbe porre a disposizione di ognuno dei suoi membri, senza veruna eccezione, tutti quei mezzi che essa possiede, onde facilitare lo sviluppo delle loro facoltà fisiche e morali, e fargli abilità a riconoscere le proprie attitudini e scegliere il modo come impiegare le proprie forze, solo in tal caso dall'assoluta libertà d'ognuno risulterebbe massimo prodotto e massima felicità. Ma quanto siamo lungi da un simile stato!...
Come provvedesi all'educazione del proletariato? in un modo negativo, costringendolo dall'infanzia a continuato lavoro, che aggiunge alla mancanza dei mezzi, quella del tempo e delle forze. E sotto qual pena, cotesta numerosa classe vien condannata all'ignoranza? la piú terribile, la morte per fame fra l'abbondanza. E mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà che la Natura ha concesse al proletario, e lo sospinge suo malgrado sulla via faticosa ed aspra percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà cavarsi frutto, perché ricco, avrà tempo e mezzi esuberanti per la sua educazione, che verranno inutilmente sprecati.
L'uguaglianza politica è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l'una condannata a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l'altra destinata a godersi il frutto dei sudori di quelli. L'uguaglianza politica non è che un ritrovato per sgravarsi dell'obbligo di nutrire i schiavi, per privare il fanciullo, il vecchio, il malato d'assistenza; è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la facoltà d'avvalersi di quelli dei suoi dipendenti. Sonosi sciolte le catene de' schiavi recidendogli i garretti.
Una tale ingiustizia, che sacrifica a pochi i moltissimi è, eziandio, danno manifesto all'intera società, perché riesce impossibile a' null'abbienti ingegnarsi, ed ai troppo facoltosi manca ogni stimolo per farlo; e crescendo cosí la disuguaglianza, corresi, come altrove dicemmo, al deperimento, alla dissoluzione sociale.
In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la libertà non esiste, la virtú è impossibile, il misfatto è inevitabile: la fame e l'ignoranza, sua conseguenza imediata, rendono la plebe sostegno di quelle medesime instituzioni, di que' pregiudizî da cui emerge la loro miseria; rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a difesa d'una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell'assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà, sarà sempre quella di cotesti pochi, i quali ammolliti dalle ricchezze, che temono di perdere, sacrificheranno sempre l'onore, la dignità, l'utile universale ai loro ozî beati, e l'ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro volontà, distrugge affatto la nazionalità, espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi.
Conchiudiamo: la libertà senza l'uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene, come il sole la luce ed il calorico.


VII. Gl'Italiani siamo unitarî, tali furono gli antichi, ed una tale aspirazione, fra moderni, comincia da Dante. L'idea che nel 1814 ha cominciato a farsi popolare, che ha progredito sempre, che s'è mostrata dominante in tutti gl'istanti di vita vissuti dal popolo italiano, è l'unità; ma gli ostacoli per attuarla son piú che moltissimi.
Un governo unico, pe' piú liberali emanazione diretta del popolo, responsabile, e revocabile, e per tutti poi, energico, compatto, distributore di cariche, premiatore del merito, è il concetto volgare. Ma se non vogliamo disconoscere l'umana natura, sarà facile scovrire le conseguenze di una tal forma di governo.
L'uomo o gli uomini componenti il governo, non potranno spogliarsi delle loro passioni, rinunziare a' loro concetti, abdicare infine alla loro individualità: questa pretesa sarebbe assurda e ridicola, chi il crede possibile non legga questo libro, io non scrivo per esso. Eglino, come tutti gli uomini, vedranno le cose sotto quell'aspetto che le loro passioni le presentano, ed adattando i provvedimenti alle loro convinzioni, opereranno coscienziosamente e faranno quanto ad un uomo è dato di fare; quindi i loro desiderî, i loro concetti prevarranno su quelli dell'intera nazione, ed avverrà precisamente che, volendo il bene pubblico, conseguiranno uno scopo affatto contrario, imperciocché i desiderî, i concetti, le passioni di pochi non potranno essere quelli di tutti, la parte non può uguagliare al tutto. Inoltre tal governo dovrà esser forte, quindi diverrà immancabilmente tiranno, imponendo con la forza ciò che egli con fini rettissimi vuole; e la tirannide sarà piú dura per quanto maggiore sarà la forza dell'ingegno e della volontà degli uomini prescelti al reggimento; in altri termini, per quanto migliore sarà stata la scelta fatta. La nazione sarà libera nel momento delle elezioni, poi abdicherà la propria sovranità nelle mani di coloro che l'aura popolare menerà al potere; i candidati saranno vari, quindi il popolo si scinderà in partiti ed avverrà quello ch'è sempre avvenuto, il partito prevalente sarà tirannico con gli altri, e questi schiavi ed in permanente cospirazione contro di esso, e le continue lotte intestine roderanno le viscere della nazione, e sarà impossibile la continuità di sforzi, la perseveranza, la costanza che forma la felicità e la grandezza dei popoli; come nel medioevo, l'opera d'un partito verrà distrutta da quello che lo soppianta. Questo scoglio contro cui rompe, immancabilmente, la democrazia, lo scansarono gli antichi popoli italiani, poi i Romani, piú tardi i Veneziani, con l'istituzione del patriziato; questo potere dava a tutta la macchina sociale un continuato ed uniforme impulso, che solo può condurre a grandi risultamenti.
Adunque, democrazia ed unità cosí concepite conducono al governo dei partiti, e nazionalità e libertà sono nomi che servono loro di maschera, di pretesto onde lacerare la patria, né qui finiscono i mali. L'unità, facendo influire tutto ad un centro gli umori vitali della nazione, ne consegue, come dicemmo nelle pagine precedenti, che il resto dell'Italia deperirà, quasi membra inaridite e dogliose.


VIII. La federazione è concetto di pochi, ma di uomini di svegliato ingegno e solleciti di libertà; credono costoro, dividendo l'Italia in varî Stati che un patto comune unisca nella politica esteriore, garantirsi dal dispotismo; ma una tale opinione non ha fondamento.
La tirannide del governo in un picciolo Stato non è diversa da quella che opprime una grande nazione, anzi spesso è peggiore, è piú tremenda perché piú difficile sfuggire dai suoi artigli; e se eglino credono, con una savia costituzione, evitarla in una picciola repubblica, perché in tal caso non applicare tale costituzione all'intera Italia? Lo stesso potremmo dire per la prosperità materiale del paese: se i privilegî di una capitale son dannosi al resto della nazione, in ogni Stato avverrà lo stesso, il male sarà minorato, è vero, ma non evitato; e nel caso che potranno esservi provvedimenti da evitarlo in un picciol Stato, questi provvedimenti stessi saranno applicabili ad uno Stato piú vasto.
Oltre ciò, se i varî Stati in cui si dividerà l'Italia avranno simili interessi, perché non potranno reggersi coi medesimi ordini? se interessi diversi, allora i stranieri saranno arbitri fra noi. Vedremo riprodotto il miserabile spettacolo delle repubblichette del medioevo, che, civilissime com'erano, chiamavano i semi-barberi a decidere le loro contese. I Stati soccomberanno in una lotta parlamentare, in un congresso federale, se non forti abbastanza per farsi ragione con le armi, invocheranno l'aiuto straniero. È questo un fatto storico innegabile, è un fatto che lo vediamo riprodotto nell'Elvezia, e ciò vedrebbesi eziandio in America, se il vasto oceano non la separasse dall'Europa. Non appena troncasi una parte di una nazione, per costituirne uno Stato, questo immediatamente prende la propria autonomia, sorgono i suoi interessi, che non sono quelli dell'intera nazione, e ne sono tanto piú discordi quanto maggiore è la sua estensione, e piú sentita la possibilità di esistere da sé. Non havvi una teoria piú assurda e volgare nel tempo stesso, di quella che nell'ingrandimento successivo dei Stati italiani, e nel minorarsi il numero di essi, scorge la tendenza all'unità; avviene precisamente il contrario. Se l'Italia si dividesse in due soli Stati, l'unità diverrebbe quasi impossibile, i loro sacrifizî sarebbero troppo grandi per sottomettersi volontariamente ad un tal patto; l'uno dovrebbe conquistare l'altro che, dopo esaurite le proprie forze, chiederebbe l'aiuto straniero; un grande Stato vuol conservar sempre l'esistenza propria; quantunque meno splendida. Per contro, se l'Italia venisse suddivisa in tanti Stati per quanti sono i suoi Comuni, ne risulterebbe di fatto l'unità, i sacrifizî che gli verrebbero imposti da un patto comune non potrebbero essere che lievi, e non sperando di reggersi e grandeggiare ognuno da sé in faccia ai stranieri, troverebbero un giusto compenso nel patto comune, non che nell'unità.
Finalmente, se il concetto di una federazione di Stati italiani è assurdo, è ruinoso nei particolari, lo è eziandio se vien riguardato sotto un aspetto piú generale. La federazione altro non è che uno stato di transazione per giungere all'unità; e quando i costumi, il clima, le razze, la lingua, la religione, la geografia non costituiscono che una sola nazione, l'unità è un fatto superiore ad ogni calcolo, che non può disconoscersi senza rinnegare le leggi della natura. La federazione, come dice il Mazzini, sarebbe in tal caso: "simulacro di Patria e non patria, un gretto calcolo d'aristocrazia o di partiti". E nobilitando questa idea, non avremmo che gretto municipalismo. Fra il contrastare la sovranità d'una capitale per non volerne alcuna, e contrastarla per diventar capitale, corre la medesima differenza che fra due individui, di cui l'uno attacca il governo per sostituirvi libertà, e l'altro l'attacchi per sostituirsi in sua vece; il primo è un eroe, il secondo è bassamente ambizioso.

CAPITOLO TERZO

IX. Diritto di proprietà. - X. Governo. - XI. Dichiarazione di principî. - XII. Recapitolazione.

IX. I legami indissolubili che esistono fra nazionalità e libertà, le condizioni da cui quest'ultima non può scompagnarsi, gli inconvenienti che si riscontrano nell'unità, come nella federazione, sono stati svolti nel precedente capitolo. Opera, diranno molti, di sola distruzione, perocché niuna sostituzione, s'è fatta in loro vece. La risposta è semplicissima: voi, che dagli individui pretendete sapere con quali ordini la società debba ricostituirsi, sconoscete affatto le leggi dell'eterna repubblica naturale, sconoscete i diritti dell'intera nazione, e pretendete sostituire il concetto d'un uomo alla ragione universale.
Ogni nazione, lo abbiamo provato con la storia, deve sottostare al proprio fato, che, i rapporti sociali, il suo passato con le sue tradizioni, il presente, l'indole del popolo, le sue correlazioni co' vicini, costituiscono. Ogni nazione prossima ad un rivolgimento, nasconde nel suo seno il suo futuro reggimento, le sue future sorti, esse non attendono a svilupparsi, che una causa, la quale turbando l'equilibrio le precipiti nel moto. L'avvenire d'un popolo, facendo accurato studio sulla sua ragione storica, sui suoi rapporti sociali... può comprendersi nel suo insieme, come uno scienziato la scienza, ma non può manifestarsi che da una serie successiva di fatti, come la scienza non può esporsi, da quello, che pigliando le mosse dalle semplici e facendo seguire le une alle altre, le varie proposizioni.
Tale manifestazione comincia dall'apparire de' riformatori, sagaci interpreti della loro età, di cui esprimono il sentire. La missione di costoro non è di formulare nuovi ordinamenti, ma distruggere gli esistenti, esplorando sin nel profondo e ponendo a nudo le piaghe della società! I riformatori sono la manifestazione della ragion collettiva, dal dolore costretta all'esame de' mali sociali; sono piloti, che non determinano la meta del viaggio già stabilita, ma indicano i scogli contro cui la nave potrebbe rompere; sono quelli che fanno studio, che scrutano, registrano le sanguinose esperienze fatte dal popolo, ne traggono le conseguenze, le presentano ad esso dicendogli: rifletti, non fidarti, se non vuoi soffrire i medesimi mali.
Intanto i riformatori non solo distruggono, ma non tralasciano di proporre nuovi ordini, di creare sistemi; ma la prima parte del loro lavoro è sempre incontrastabile, è la ragione universale che predomina; nella seconda, sempre o quasi sempre, errano, è l'individuo che parla; non raggiungono mai il vero, ma tanto piú vi si accostano, quanto piú vicino è un rivolgimento. Meno sentiti, meno gravi sono i mali, piú calmi sono gli animi, piú profonda, piú vasta è la dottrina de' riformatori, ma nell'applicarla, eglino poco o nulla si distaccano dagl'instituti vigenti. Se, invece, gli animi sono concitati, se l'odio al presente è fortemente sentito, i riformatori saranno meno dotti, ma di tempra piú gagliarda, d'indole piú audace; le conchiusioni vogliono esser recise, non vaghe, tali le richieggono i tempi; e l'applicazione de' principî, scostandosi dagl'instituti in vigore perché universalmente odiati, piú si avvicina al futuro che [i riformatori] prevedono.
La schiera de' riformatori surse in Italia assai precocemente: l'accademia telesiana, come accennammo nel primo saggio, quindi Bruno, Vanini, Campanella, riconobbero i mali da cui veniva roso l'edifizio sociale, e dalla cima vollero diroccarlo. Cominciarono dal riscattare il diritto della ragione e sostituirlo all'autorità, era questa l'arma che dovevano guadagnarsi onde compiere la loro missione; questa prima tenzone costò loro la vita. I conservatori surti a combatterli, eziandio d'ingegno potente, furono i gesuiti rincalzati dalla schiera fratesca. La discussione condusse Bruno e Vanini al rogo, e Campanella soffrí la tortura e ventisette anni di carcere, e se oggi ne ammiriamo il profondo e splendido ingegno, i contemporanei ne ammirarono il sovrumano coraggio. Se i filosofi francesi del XVIII secolo potettero lietamente abbandonarsi ai voli del loro ingegno ed oggi i socialisti disputano, senza tema del carnefice e del rogo, devesi ciò ai riformatori italiani che comprarono col sangue il diritto di ragionare.
Ai sullodati riformatori tenne dietro il Vico, il Gravina... e tutta la nobile schiera dei nostri filosofi che termina con Romagnosi. Le leggi, come fugacemente dicemmo, che regolano le società, non furono piú ignote, e la filosofia civile, come un maestoso fiume, che raccoglie nel suo placido corso i spumeggianti torrenti, riuní le sparse membra dello scibile umano e formonne un tutto.
Intanto, oltr'Alpe s'inaugurò il governo costituzionale, eclettismo politico, epperò sursero gli ecclettici in filosofia, e la paralisi, che da mezzo secolo ci opprime, dalla Francia si sparse sull'Europa intera. L'incerta e pallida luce dell'ecclettismo riverberò in Italia, quindi venne interrotto il maestoso lavoro, che seguitava continuo da Telesio a Romagnosi. Le dottrine del Gioberti, del Mamiani, di Rosmini, di Ventura... vennero in luce. In esse non riscontrasi nulla del gran pensiero italiano, [ma, invece, uno] strano connubio de' piú contraddittori principî: ragione e fede, autorità e libertà, diritti dei popoli e diritti dei principi; né costoro, che intrecciano la loro filosofia sull'orditura impostagli dai birri e dai preti, meritano il nome di filosofi italiani. Durante i rivolgimenti del '48, ligia l'Italia a tali dottrine, naufragò, prima di prendere il largo.
Se ci faremo a svolgere le pagine dei nostri filosofi, vi troveremo consacrate le leggi magistrali della Natura. Eglino tentarono applicarle, ma troppo lontani dal risorgimento, subirono l'ascendente dei tempi, epperò vollero raddolcire i mali, rammorbidire le parti soverchiamente rigide, e non già sbarbicare quelli e rompere queste; ma oggi, le passate esperienze, le tendenze della società, i suoi mali cresciuti, ci danno facoltà a farlo. Quelle leggi debbono formare i cardini su cui dovrà equilibrarsi l'edificio sociale. Ricercare le istituzioni contraddittorie con esse, annientarle, e sostituite in loro vece i principî che n'emergono, sarà lo scopo del ragionamento che segue.
La prima verità che non può disconoscersi, senza negare l'evidenza, senza negare quaranta secoli di storia, è, che la ragione economica, nella società, domina la politica; quindi senza riformar quella, riesce inutile riformar questa. "Conservazione e tranquillità, - scrive Filangieri, - è il primo dato, e questo e non altro, è l'oggetto unico ed universale della scienza della legislazione. Ma l'uomo non può conservarsi senza i mezzi, la possibilità dunque di esistere, e di esistere con agio". A che servono, infatti, i diritti dalle leggi accordati se la miseria rende impossibile il profittarne? Inoltre, non solo il difetto de' mezzi materiali necessarî ad esistere annulla la vita politica della piú gran parte della Nazione, ma l'eccesso delle ricchezze che si accumulano fra pochi, non produce danno minore: ingigantiscono le voglie, succede all'operosità l'ignavia, ed in putredine di vizî si marcisce. La società, dall'ingiusto riparto delle ricchezze, vien divisa in due parti, i pochi e i molti, e questi da quelli dipendenti: proclamare i diritti della democrazia è una impostura, un'ipocrisia. Chi in buona fede può negare che i capitalisti ed i proprietarî sono i soli a cui è dato godere de' diritti politici, che la società è governata dalla gretta aristocrazia dell'oro, inspiratrice della codarda e ruinosa politica moderna?
Si rimedierà, dicono alcuni, a questi mali, con stabilire piú eque relazioni fra il proprietario ed il fittaiuolo, fra il capitalista e l'operaio; sparirà la miseria, dicono altri, con lo sviluppo dell'industria, con l'aumento del prodotto sociale. Abbiamo discorso nei precedenti capitoli dell'efficacia di tali mezzi; è cosa chiara come la sostituzione d'un nuovo protezionismo all'antico riuscirebbe inutile tirannide, inutile inceppamento all'industria; e dimostrammo come la miseria cresce al crescere del prodotto sociale. Finché i pochi, sono proprietarî dei mezzi, onde soddisfare agli incalzanti bisogni de' molti, questi saranno servi di quelli, qualunque siano le leggi; basta [il fatto] che esse riconoscono e proteggono il diritto di proprietà.
L'assicurare a tutti un'agiata esistenza, sarebbe, al certo, un mezzo efficace, ma ove cercare le ingenti somme? non potrebbesi che spogliare parte della società, per togliere all'altra ogni stimolo al lavoro, la società perirebbe; e riconoscendo il diritto di proprietà, come potrà mutilarsi, come limitarlo? non potranno essere che leggi complicate e contraddittorie, incentivo alla frode ed all'ingiustizia.
Non resterebbe che l'uguale riparto delle ricchezze, ma spaventati rispondono gli economisti in Francia, nazione ricca, avrebbesi appena 78 centesimi per caduno. Un tale asserto è assurdo e ridicolo, lo spirito di partito, o meglio l'amor dell'oro li costringe a mentire con inconcepibile impudenza. Se fosse esatto, la Francia altro non sarebbe che una nazione di mendichi. Avvegnaché, sarebbe tale il numero dl coloro che posseggono meno di sí tenue somma, che a pena raggiungerebbesi una tal cifra facendo un eguale riparto di tutte le ricchezze di coloro che posseggono piú di 78 centesimi. Questo calcolo deve essere assolutamente falso, ma noi vogliamo ammettere che rappresenti il riparto del prodotto netto. In tal caso un operaio, con moglie e cinque figli, avrebbe il suo salario, piú sette volte 78 centesimi; né questo è tutto, sarebbevi un aumento non picciolo, riducendo ad un medio salario, tutti i pingui stipendî che i capitalisti insaccano come compenso alla fatica che durano per arricchirsi, epperò saremmo al disotto del vero affermando che un tale operaio percepirebbe un dieci lire al giorno, ovvero un vivere agiato. E chi negherà essere piú giusto che tutti vivessero agiatamente, invece di far perire nella miseria nove decimi della nazione, acciocché pochissimi possedessero oltre il bisogno? Ma la ragione che rende impossibile la pratica di tale idea è piú potente di questa ridicola menzogna. Una tale ripartizione sarebbe operazione complicatissima, né mai potrebbesi evitare la frode; la società dovrebbe sottostare ad una continua forza tirannica, che spigolasse tutte le borse, altrimenti la materiale uguaglianza stabilita non durerebbe che un giorno solo.
Sortono alcuni da questo campo, che, per essi, lo trovano troppo gretto e materiale, e dicono: noi allevieremo, anzi distruggeremo i mali pel proletario con l'educazione. Strana utopia di questa buona gente, condannata dalla natura a vivere d'astrazioni. Come vi procaccerete le grandi somme necessarie all'educazione dei proletarî, alla loro esistenza durante tale educazione, ed al compenso che bisogna pagare alla famiglia privata del guadagno che avrebbele fruttato il lavoro del giovane che voi gli rapite per educare? Con le gravezze forse? Ma non sapete che, rispettando il diritto di proprietà, esse ricadono precisamente sul proletario, nel modo stesso che la base sopporta tutte le spinte e le pressioni del soprastante edifizio? Voi l'affamerete per educarlo. Ma vogliamo ammettere possibile la vostra utopia, cosa guadagneranno con l'educazione? condannati, come Sisifo, ad un perpetuo lavoro, non avendo che qualche ora necessaria a rinfrancare le forze, l'educazione ricevuta li farebbe piú infelici. Se hanno da vivere da bruti, è meglio lasciarli bruti quali or sono.
I piú positivi propongono l'associazione ed esaltano la sua innegabile potenza, ma piú che l'associazione è potente il capitale. Non vale proporre come regole alcune eccezioni; egli è una delle cardinali verità di economia pubblica, non solo che l'associazione del lavoro deve soccumbere in contro alla potenza del capitale, ma eziandio che i piccioli capitali sono inesorabilmente condannati ad essere inghiottiti dai grandi. L'associazione del capitale e del lavoro non conviene al capitalista, specialmente se fa uso di macchine. Alcuni il negano asserendo che l'associazione del capitale e del lavoro, accrescendo il prodotto, debba riuscire eziandio vantaggiosa al capitalista, senza riflettere che il guadagno individuale del capitalista, con tale associazione, scema moltissimo. Infatti, eglino medesimi aggiungono: se questa associazione non è libera, ma imposta da una legge, i capitali saranno trafugati. Contraddizione manifesta, imperocché se reali fossero i vantaggi del capitalista, sarebbero ben presto conosciuti, ed ognuno, senza contrasto, contentissimo sottoporrebbesi a tal legge. Quindi, per fornire di capitali il lavoro, altro mezzo non v'è che imporre gravezze a coloro che posseggono; ma qual ne sarebbe il risultamento il dicemmo; gli operai verrebbero affamati e non soccorsi.
Concludiamo che l'offrire a tutti un vivere agiato, cardine su cui, giusta la sentenza del Filangieri, debbono poggiare gli ordini sociali, non solo non riscontrasi nella moderna società, ma non v'è alcun mezzo come soddisfare a tale condizione. La società è divisa in due parti, possessori e nullatenenti, che il diritto di proprietà determina. L'economia pubblica, pigliando le mosse da questo diritto, sviluppa le sue leggi, che si basano su di esso. Queste leggi regolano inesorabilmente il rapporto fra queste due classi, e conducono a conseguenze inevitabili e funeste. Cotesti rapporti ne risultano di fatto né possono modificarsi, sotto pena di un deperimento universale; unica legge possibile è la libertà: conseguenza di essa, miseria sempre crescente. Se togliete al ricco parte del suo avere onde soccorrere il povero, egli, mentre con una mano sborsa il danaro che gli vien chiesto, con l'altra lo rapisce di nuovo; ben presto incarisce il vivere, e la miseria s'accresce. Dunque: la causa che volge tutte le riforme in danno del povero; la causa che accrescendo continuamente la miseria, mena, come altrove vedemmo, alla decadenza, alla dissoluzione sociale, e contrasta allo scopo principale che si propone la società, il benessere di tutti, o almeno de' piú, è il mostruoso diritto di proprietà. La logica dunque impone di rimuovere l'ostacolo, poco curandosi delle conseguenze; la società riprenderà da sé l'equilibrio, dal caos, naturalmente, verrà il cosmos. Verremo ora a rincalzare il nostro ragionamento, per se medesimo abbastanza chiaro, con l'opinione di due illustri nomi, Cesare Beccaria e Mario Pagano:
"Il furto, - dice Beccaria, - non è per l'ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà (terribile e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza".
Molto piú a lungo ed esplicito ne ragiona Mario Pagano: "Quello che viene occupato, posseduto ed ingombro dal nostro corpo è pur nostro, perché ivi si estende la nostra fisica potenza, e morale benanche. Quell'aria che respiriamo, e ch'ebbe eziandio, sotto la tirannide de' greci imperatori, a riscattare con un dazio l'avvilito mortale; quella porzione di terra che premiamo col piede, la quale è solo retaggio di gran moltitudine d'uomini; quello spazio cui riempie il nostro corpo, il quale neppure ci si toglie con la vita stessa, è cosí nostro come le proprie membra. Que' prodotti della terra che, per sostenimento della nostra vita occupa la nostra mano, per la medesima ragione sono nostri, che della pianta sono non solamente il tronco, i rami, le radici, il suolo ove quelle vengono conficcate ma ben'anche quel nutrimento, quell'umore, quei succhi, che bevono le sue radici, e servono al conservamento suo.
"Ma come poi si appropria un uomo solo quelle ampie foreste, quegl'immensi campi che non misura il suo piede, la mano sua non occupa, e neppur signoreggia lo sguardo?
"La natura un patrimonio comune ha conceduto agli uomini tutti, ha legato loro un'ampia eredità, la quale è questa terra, dal cui seno prodotti gli ha, e nel seno della quale gli ha piantati e radicati. Come alle piante per nutrirsi ha dato le radici, cosí le mani all'uomo per estendere la sua forza sul retaggio comune, e far proprio ciò che alla sua sussistenza faccia d'uopo. Ma queste naturali potenze, dirette dalla sua sensibilità e sviluppate dalla sua mano, hanno un termine ed un confine tra il quale, quando esse sono racchiuse, divengono morali potenze e diritti originati dall'eterna immutabile legge dell'ordine.
"E quali sono mai questi confini e quali gli stabiliti scopi? I limiti delle azioni sono, come si è detto, dalle reazioni degli altri essere circoscritti. Quando l'essere, dalla sua sfera uscendo, invade ed occupa lo spazio e la sfera d'un altro, quello reagisce e riurta, e nella propria situazione lo ripone. Quando un corpo vuol penetrare nell'altro, cioè passare in quella parte dello spazio occupato da quello, ritrova la resistenza che impenetrabilità diciamo, prova la reazione, e se mai persiste nello sforzo di compenetrarvi, vien finalmente distrutto. Cosí se tu, mortale, distendi la mano e la tua forza di là del confine che ti segnò natura, occupi dei prodotti della terra tanto che ne siano offesi gli altri esseri tuoi simili, e manchi loro la sussistenza, tu proverai il riurto loro; il tuo delitto è l'invasione, il violamento dell'ordine; la tua pena è la tua distruzione".
Cosí i fatti, la ragione, l'autorità d'accordo protestano e dichiarano il diritto di proprietà la causa de' mali, alla cui piena indarno la società oppone argini e serragli. Egli è cosa mostruosa scorgere la proprietà del frutto dei proprî lavori, non solo non protetta dalle leggi, ma annullata, manomessa, in vantaggio dell'usurpazione dichiarata proprietà sacra ed inviolabile. Si garentisce la proprietà, e piuttosto che violarla si lasciano migliaia d'infelici perire nella miseria; ma non proteggono le leggi il frutto de' lavori d'un operaio, i sudori di un contadino, contro l'usura e l'avidità dei capitalisti e dei proprietarî. È dichiarato assassino colui che uccide per rapire un pane necessario alla sua esistenza; uomo onesto chi, divorando il vitto sufficiente a dieci famiglie, lascia che queste perissero d'inedia. E ciò avviene in nome della giustizia, prova evidente che essa altro non è che una parola il cui significato cangia al cangiar dei rapporti sociali: quello che oggi dicesi giusto, i posteri lo vedranno con l'orrore medesimo che noi riguardiamo il diritto di vita e di morte che accordavasi al padrone sugli schiavi. Il frutto del proprio lavoro garentito; tutt'altra proprietà non solo abolita, ma dalle leggi fulminata come il furto, dovrà essere la chiave del nuovo edifizio sociale. È ormai tempo di porre ad esecuzione la solenne sentenza che la Natura ha pronunciato per la bocca di Mario Pagano: la distruzione di chi usurpa.


X. "L'essere senziente, - scrive il Romagnosi, - nel sentire non può mai uscire da se medesimo. Egli non può sentire che con la propria sensibilità, non può sentire che il proprio piacere o dolore; non può amare o odiare altrui che in sé, e per sé; agire cogli altri, ed a pro degli altri, o contro gli altri, che per sé... Avviene che l'amor proprio d'ognuno trasportato in società è un centro d'attrazione che tende ad appropriarsi il maggior numero di beni e di servizî; e per sé solo opera anche quando agisce a pro d'altrui, benché di ciò egli per avventura non si avvegga".
Ecco in poche parole messa a nudo l'umana natura, trovata la cagione di ogni speranza, d'ogni pensiero, d'ogni atto: ricercare il piacere, fuggire il dolore; piaceri e dolori, che secondo l'indole dell'uomo ed i rapporti sociali, variano in mille guise, dall'epicureo che cerca il godimento nell'ozio e nella crapola, a Bruno, che preferisce il rogo al dolore di rinnegare le proprie dottrine. Ogni atto è preceduto dalla volontà, e la determinazione di essa è un effetto relativo e proporzionale alla specie ed all'energia de' moventi che si riscontrano nel mondo esteriore. Una grande efficacia in questi motivi, esercitata su d'un individuo d'un'indole capace a sentirla, genera le forti passioni, che richieggono fortissima dose d'amor proprio. Queste forti passioni formano gli eroi ed i scellerati, i grandi genî nelle scienze e nelle arti, ed i grandi corruttori di entrambe.
In una società in cui la fama, il potere, le ricchezze... non possono sperarsi che dalla guerra, o dal bene operato a pro del pubblico, nascono gli Scevola, gli Attilî, i Curzî. "Chi piú di loro, - esclama Filangieri, - fu agitato da una forte passione, chi piú di loro amò per conseguenza se stesso, chi piú di loro serví la società e la patria?" Se poi un governo si farà il distributore di onori, di ricchezze e di ogni altro bene sociale, tutti gli sforzi degl'individui saranno rivolti, non già a guadagnarsi il pubblico plauso, ma le grazie di questo governo, quindi cortegiani, adulatori, sicarî; e quanto piú l'indole della nazione sarà capace di forti passioni tanto piú impudenti e tiranni saranno i satelliti che si stringono intorno a questo centro usurpatore degli universali diritti. Quel popolo, che durante il suo splendore sarà stato ricco d'eroi, nella sua decadenza i seidi saranno numerosissimi, e numerosissimi i martiri se comincia ad accennare al suo risorgimento. Per contro, ove tardo è il corso degli umori, e le passioni rimesse, non vi saranno né eroi né scellerati; all'apogeo come al perigeo tutto sarà pedestre e volgare.
La virtú ed il vizio adunque, nulla hanno d'assoluto; la loro sede non è nell'uomo ma nella società; i significati di queste parole al cangiare degli ordini sociali cangiano senza mai durar d'essi. Infatti, facendo astrazione della società, le virtú ed i vizî spariscono, l'uomo isolato non ha che due qualità, forza ed astuzia. Marco Bruto, vicino a morte, esclamò. O virtú, tu non sei che un nome, io ti seguiva come fossi cosa; ma tu sottostavi alla fortuna. Ingannavasi Bruto: essa non sottostava alla fortuna, ma ai tempi. L'antica Roma riverberava nel suo cuore le virtú già tramontate all'epoca di sua vita; esse si sentivano dall'universale come l'ultima e debole vibrazione di un suono che muore; alle virtú de' Bruti erano successe le virtú de' Cesari a cui la società destinava il trionfo.
Queste leggi magistrali della Natura, svolte da Vico, da Beccaria, da Pagano, da Filangieri, da Romagnosi, e dagli altri filosofi italiani non imbastarditi dall'ecclettismo d'oltremonte, sono l'ordito su cui debbono adattarsi gli ordinamenti sociali, sono i veri che debbono dar norma a tutte le istituzioni; e noi su tali principî baseremo il ragionamento che segue.
Il fine che si propone la società nel costituirsi, altro non dovrebb'essere che assicurare il pieno e libero sviluppo di queste leggi, facendole tutte concorrere al pubblico bene. Se esse vengono violate o interdette nella benché minima parte, l'opera non solo è tirannica, ma stolta, perché invano combattesi contro le forze della Natura.
Da questo vero, il principio d'autorità vien completamente distrutto: chiunque vuole insegnarmi la virtú, o costringemi a seguirla, è un impostore o un tiranno; un impostore se a convalidare le sue dottrine chiama in aiuto il misticismo; un tiranno se ricorre alla forza; e se non giovasi o non può giovarsi di alcuno di questi due mezzi, un povero stolto che predica al deserto. Le dottrine de' pitagorici, quelle di Platone, il manuale d'Epitteto, la morale del Vangelo, non hanno per tanti secoli, non dico modificata ma neanche scossa l'umana natura; gli uomini, usando diverse parole, hanno sempre operato nel modo medesimo. Il Vangelo non solo ha predicato la fratellanza e la mansuetudine, minacciando le pene dell'inferno, ma ha ricorso alla spada, ai tormenti, al rogo... e cosa ha ottenuto con tali mezzi? Ha costretto la natura umana, che sempre ha ubbidito alle medesime leggi, di covrirsi con la maschera dell'ipocrisia. Invano verrà inculcato l'amor di patria ove la patria non dona che miserie e stenti; né vi sarà bisogno inculcarlo quando la felicità del cittadino dipenderà dalla grandezza e prosperità di essa. A che predicherete l'amore della gloria, il disprezzo delle ricchezze, in una società ove, non curata la fama, potentissimo è l'oro? E se i beni maggiori saranno conseguenza della fama e delle virtú, tale dottrina non avrà bisogno di apostoli. Concludiamo che il pubblico costume, assolutamente indipendente dalle dottrine, dalla fede, dalle pene, scaturisce immediatamente dai rapporti e dagli ordini sociali; voler cangiare i costumi, senza cangiar questi, è impossibile, quindi: un governo regolatore de' costumi è la piú stupida ed assurda tirannide che mai uomo immaginasse.
L'origine del governo è stato il dominio eroico de' forti sui deboli. Le prime leggi, l'arbitrio di quelli, in seguito trasformato in consuetudini. I famoli, resi potenti per numero, impedirono i nuovi arbitrî, obbligarono i forti a sottomettersi alla ragione storica, a rispettare le consuetudini, le quali furono, perciò, il rudimento del patto comune, del codice. Questo patto, comunque modificato, non ha potuto, né potrà mai liberare su giusta lance i diritti di tutti, imperciocché trae origine dalla violenza e l'usurpazione, e dovrà esservi sempre qualche parte che preponderi, qualche altra che minacci reazione. A mantenere nella società questo labile equilibrio, ebbesi uopo del governo, che può definirsi l'ostacolo allo sviluppo delle leggi naturali, il sostegno de' privilegî. Ma se ogni privilegio cessasse, se i diritti risultassero dai rapporti reali e necessarî delle cose, il dovere diverrebbe un bisogno; l'uomo non servirebbe piú all'uomo, ma, come scrive il Romagnosi, "solamente alla necessità della natura, ed al proprio meglio". In altri termini il Filangieri esprime l'opinione medesima: "L'uomo non può esser felice, - dice egli, - senza esser libero. L'uomo non può essere felice senza convivere coi suoi simili. L'uomo non può convivere co' suoi simili senza governo e senza leggi. Dunque per esser felice deve esser libero e dipendente. Ma il dovere senza la volontà esclude la libertà; la volontà senza il dovere esclude la dipendenza. Il nesso che unisce queste due opposte condizioni non può essere che la volontà di far ciò che si deve". Quindi la società, costituita ne' suoi reali e necessarî rapporti, esclude ogni idea di governo, e come ben equilibrato edifizio regge da sé, senza aver bisogno di fasciature o di rinfianchi. Questi principî de' nostri padri ora cominciano eziandio a discutersi in Francia; ivi esclama Proudhon: "chiunque mette la mano su di me per governarmi, è un usurpatore, un tiranno, io lo dichiaro mio nemico..."; ed altrove: "chi siete voi per sostituire la vostra saggezza di un quarto d'ora alla ragione eterna ed universale?"
Ciascuno nasce con speciali attitudini ed inclinazioni, ed una società ben costituita dovrebbe offrire ad ogni individuo i mezzi come soddisfar queste ed utilizzar quelle, e cosí, seguendo l'uomo la propria volontà ed il proprio utile, seconderà la volontà collettiva e l'utile pubblico. Derogare da questa legge è un costringere l'uomo ad un lavoro forzato, è una tirannide. Quindi il governo, che lo abbiamo trovato assurdo e tirannico, tanto come correttor di costumi quanto come sostegno del patto sociale, come educatore è inutile: l'educazione altro non deve essere che una legge generale, con la quale pongonsi a disposizione d'ogni cittadino, onde facilitare lo sviluppo delle sue facoltà fisiche e morali, tutti i mezzi di cui dispone la società.
Ma ancora piú innanzi vanno i mali, che, senza utile veruno, sgorgano inevitabilmente dal governo. Se ad esso non verrà concesso né altra forza, né altri mezzi, onde esercitare il suo potere, se non quelli che potrà trarre dall'universale appoggio, che i cittadini darebbero ai suoi atti, credendoli giusti, ne risulterà un governo inutile e ridicolo: lo si vedrà darsi cura di educazione, di costumi, di patto sociale, fatti i quali risultano e si sostengono in forza de' rapporti medesimi delle cose, che esso, privo di forza, non potrà menomamente modificare, epperò quanto piú operoso, tanto piú sarà ridicolo. Se poi gli concederete forza materiale, o lo farete distributore di cariche, di premî, di onori, allora cominciano i perigli per la società. Colui o coloro nelle cui mani verrà affidato il maestrato supremo, come nel precedente capitolo dicemmo, dovranno, perché uomini, soggiacere all'impero delle loro passioni e delle loro imperfezioni fisiche e morali, quindi il giudizio e le determinazioni di questo governo dovranno, senza dubbio, trovarsi in disaccordo coi giudizî e le determinazioni del pubblico, che, essendo la media di tutti i giudizî e le determinazioni individuali, resta scevra da tali influenze. Dichiarare un governo rappresentante la pubblica opinione e la pubblica volontà è lo stesso che dichiarare una parte rappresentante del tutto. Inoltre, l'uomo per sua natura sdegna i rivali e l'opposizione, e gli amici del governo non saranno certamente coloro, che manifestano i suoi errori, che contrastano la sua opinione, ma bensí que' che lo piaggiano; gli oppositori saranno occultamente odiati, e, se lo si potrà impunemente, oppressi; negarlo è un disconoscere l'umana natura, è negare la storia, negare i fatti che tuttodí si riproducono; quindi questo governo sarà sempre un'ulcera che tende di spandere la cancrena sull'intera società.
Se, cessando dal ragionare, ci faremo a scendere nel fondo della nostra coscienza, ad interrogare l'intimo nostro sentimento, vi troveremo la condanna d'ogni governo. Quella complicazione di ruote, aggiunte alla macchina sociale, per tutelarsi contro l'usurpazione e la tirannide de' governanti, ha già fatto pessima pruova, senza impedire i mali, li accresce, e rende il procedere lento ed incerto. La pubblica opinione è affatto cangiata su tale riguardo: ognuno, nei tempi passati, sforzavasi ad aggiungere qualche pezzo alla macchina, o come regolatore, o come moderatore, mentre ora, per contro, tendesi alla semplificazione, il cui ultimo termine è l'anarchia, ove l'umano intelletto s'accheterà. I propugnatori de' governi forti fanno fine ad ogni loro diceria, ad ogni loro ragionamento, con proporre le misure da cui eglino sperano la pubblica felicità; ed il convincimento che riscontrasi in ogni individuo, che i soli provvedimenti per reggere con successo la cosa pubblica son quelli che egli nasconde nel proprio cuore, è la condanna la piú aperta d'ogni forma di governo.
Da quanto esponemmo possiamo desumere che le numerose esperienze registrate dalla storia, che nelle leggi regolatrici della Natura trovano piena conferma, additano come terribili sorgenti di male, come ostacoli all'umana felicità, come scogli di sicuro naufragio, il diritto di proprietà ed il governo. Ma come la società, diranno molti, priva di questi mali, potrà reggere? Cosa verrà ad essi sostituito? Non sono quistioni che deve farsi il rivoluzionario, né che si fanno le moltitudini. Quello addita la causa dei mali, gli ostacoli al bene pubblico, queste irrompono come marosi mugnanti e li rovesciano. La società, come le acque che tendono sempre a livellarsi, riprenderà da sé l'equilibrio; egli è strano pretendere che un uomo dia conto di quello che l'universale volontà potrà compiere. Nondimeno, dalle leggi stesse naturali ed eterne, che ci hanno condotti a queste conclusioni, emergono alcuni principî inconcussi, che violati in tutto o in parte dalle varie società, antiche e moderne, sono stati e saranno la cagione di loro ruina; questi principî, che ora verremo svolgendo, sono superiori ai diritti de' popoli, e sono gl'incastri fra' quali l'umanità, dopo tante penose oscillazioni, verrà ad assettarsi.


XI. La Natura, avendo concesso a tutti gli uomini i medesimi organi, le medesime sensazioni, i medesimi bisogni, li ha dichiarati eguali, ed ha, con tal fatto, concesso loro uguale diritto al godimento dei beni che essa produce. Come del pari, avendo creato ogni uomo capace di provvedere alla propria esistenza, l'ha dichiarato indipendente e libero.
I bisogni sono i soli limiti naturali della libertà ed indipendenza, quindi se all'uomo si facilitano i mezzi come soddisfarli, la libertà ed indipendenza è piú completa. L'uomo s'associa onde piú facilmente soddisfare a' suoi bisogni, ovvero ampliare la sfera in cui si esercitano le sue facoltà, e conseguire libertà ed indipendenza maggiore, epperò ogni rapporto sociale che tende a mutilare questi due attributi dell'uomo, non ha potuto, perché contro natura, contro il fine che si propone la società, stabilirsi volontariamente, ma subirsi a forza; esso non può esser l'effetto di libera associazione, ma di conquista o d'errore. Dunque ogni contratto, in cui una delle parti, dalla fame o dalla forza, vien costretta ad accettarlo e mantenerlo, è violazione manifesta delle leggi di Natura; ogni contratto dovrà perciò dichiararsi annullato di fatto, appena mancagli il liberissimo consenso delle due parti contrattanti. Da queste leggi eterne ed incontrastabili, che debbono essere la base del patto sociale, emergono i seguenti principî, i quali reassumono l'intera rivoluzione economica:
1. Ogni individuo ha il diritto di godere di tutti i mezzi materiali di cui dispone la società, onde dar pieno sviluppo alle sue facoltà fisiche e morali.
2. Oggetto principale del patto sociale, il garentire ad ognuno la libertà assoluta.
3. Indipendenza assoluta di vita, ovvero completa proprietà del proprio essere, epperò:
a) L'usufruttazione dell'uomo per l'uomo abolita.
b) Abolizione d'ogni contratto ove non siavi pieno consenso delle patti contrattanti.
c) Godimento de' mezzi materiali, indispensabili al lavoro, con cui deve provvedersi alla
propria esistenza.
d) Il frutto de' proprî lavori sacro ed inviolabile.
Determinata, con tre principî fondamentali, la rivoluzione economica, passeremo alla politica.
I bisogni sono i limiti della libertà ed indipendenza. Questa legge è innegabile ed universalmente sentita. Ogni altra legge o principio, non sentito ma predicato, non può essere altro che impostura di qualche scaltro che tenda profittare dell'altrui semplicità, ovvero effetto dell'ignoranza di chi predica e di chi ascolta, e la gerarchia, che viola direttamente libertà ed indipendenza, è contro natura.
La sovranità risiede nella Nazione intera. Gli atti di ogni uomo sono proporzionati e conseguenza della facoltà di sentire, variabile in ogni individuo; del pari, gli atti della sovranità sono proporzionati e conseguenza della media fra tutte le facoltà di sentire de' varî individui che la compongono, media in cui son distrutte tutte le particolari influenze alle quali ogni essere piú o meno sottogiace: la sovranità è il senso comune, ovvero, come dice Vico, quel giudizio, che senz'alcuna riflessione vien comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto un popolo, da tutto il genere umano; ed il delegarla è un assurdo, come sarebbe quello di delegare la propria sensibilità, essa è inalienabile, risiede nell'intera Nazione, né mai può essere legittimamente rappresentata da una parte di essa. Le leggi di Natura, sotto pena di gravissimi mali, proibiscono il comandare del pari che l'ubbidire. Un popolo, che per esistere piú facilmente delega la propria sovranità, opera come uno che, per meglio correre, legasi gambe e braccia. Da queste verità emergono i seguenti principî, che fanno seguito a quelli già stabiliti:
4. Le gerarchie, l'autorità, violazione manifesta delle leggi di Natura, vanno abolite. La piramide: Dio, il re, i migliori, la plebe, adeguata alla base.
5. Come ogni Italiano non può essere che libero ed indipendente, del pari dovrà esserlo ogni Comune. Come è assurda la gerarchia fra gl'individui, lo è fra i Comuni. Ogni Comune non può essere che una libera associazione d'individui e la Nazione una libera associazione dei Comuni.
Intanto, molti ostacoli materiali e morali vietano in molte occorrenze le funzioni della sovranità. I principî stabiliti, conseguenza delle leggi di Natura, non sono che il primo ordito degli ordini sociali, e non bastano: bisogna discendere a determinare i varî rapporti che dovranno essere d'accordo con essi. In questa laboriosa ricerca, la nostra natura, vinta dal costume e smarrita nel suo corso, ad ogni passo cade nell'errore, quindi richiedesi una continuità di attenzione, una serie di ragionamenti, cose per le moltitudini impossibili, e sovente mancherebbe il luogo e 'l tempo onde fare abilità a sí numerosa assemblea di riunirsi e deliberare.
Cotesti lavori sono da individui, ed un solo dev'essere dichiarato legislatore. Inoltre, è una verità dimostrata all'evidenza dal Romagnosi, che il giudizio di tutti i savî del mondo può essere erroneo nel sindacare il lavoro compito da un solo; quindi un congresso di delegati del popolo avrebbe l'incumbenza, non già di svolgere, di sopraccaricare di clausole ed emendamenti le leggi proposte, ma solo verificare scrupolosamente se i principî immutabili, dichiarati base del patto sociale, vengano in qualche parte lesi da queste leggi. Fatto ciò, pubblicarle; né può andar piú innanzi il potere del legislatore e del congresso; la Nazione le adotterà se vorrà e quando vorrà, non avendo il diritto di concedere ad uno o a pochi il potere d'imporgli leggi, l'attuazione di esse è atto della sovranità, e la sovranità non può delegarsi. I concetti di un individuo possono definirsi i pensieri della nazione, è il modo di cui essa si avvale onde manifestare il suo concetto collettivo, ma come un individuo non impone a se medesimo l'obbligo di trarre in atto i proprî pensieri, cosí i concetti di un solo non possono venire imposti a tutti. Per la ragione medesima, che la sovranità non può abdicarsi, o trasmettersi, non potrà determinarsi la durata delle funzioni del legislatore e del congresso, esse cesseranno appena la Nazione il vorrà; e la volontà del mandante, dovendo costituire la legge del mandatario, ogni deputato non può essere che sempre revocabile da' suoi elettori. L'imporsi per un dato tempo un governo o un'assemblea è un assurdo, come lo è per un individuo il costringersi da un voto. È lo stesso che dichiarare la volontà e la determinazione di un momento arbitra e tiranna della volontà che progressivamente può manifestarsi in avvenire. Di quinci i principî che seguono:
6. Le leggi non possono imporsi, ma proporsi alla Nazione.
7. I mandatarî sono sempre revocabili dai mandanti.
Di piú la Natura stessa, che ha creato l'uomo indipendente e libero, ha dotato ogni individuo di attitudini speciali, d'onde la potenza del lavoro collettivo, la sociabilità. Coteste attitudini son quelle appunto che, nelle varie operazioni della vita, costituiscono la diversità delle incumbenze. Dichiarare un'incumbenza piú nobile che un'altra è un assurdo degno di una società che ha vanità e privilegio per base. "Ma qual si è l'arte vile, - esclama Mario Pagano, - quando ella giova alla società? vile è l'opinione degli uomini che avvilisce gli utili mestieri". Ed è eziandio assurdo dichiarare una funzione piú che un'altra faticosa; la meno faticosa è quella che meglio armonizzi con le proprie attitudini ed inclinazioni, epperò esse solamente debbono dar norma alla distribuzione delle varie cariche e mestieri che nella società si riscontrano.
In tutte le varie operazioni dell'intera società o di un nucleo qualunque di cittadini, sono indispensabili gli ordini e la distribuzione delle funzioni; egli è impossibile operare tumultuariamente. Ciò deve aver luogo nelle grandi, come nelle picciole cose, tanto nella guerra e nella pubblica amministrazione come in qualunque altra speculazione o industria. A conservare illesa la sovranità nazionale, nel caso che una parte di cittadini debba compiere un'impresa che riguarda l'intera società, due condizioni si richieggono, cioè: che l'impresa da eseguirsi e gli ordini da adottarsi siano il risultamento della volontà nazionale, il che emerge di fatto da' principî 6. e 7.; e che la distribuzione delle varie funzioni, fra quel nucleo di cittadini operanti, venga fatta da que' cittadini medesimi. Se la nazione volesse indicargli i capi che debbono dirigerli, violerebbe manifestamente la libera associazione. Quindi i principî seguenti:
8. Ogni funzionario non potrà che essere eletto dal popolo, e sarà sempre dal popolo revocabile.
9. Qualunque nucleo di cittadini dalla società destinati a compiere una speciale missione, hanno il diritto di distribuirsi eglino medesimi le varie funzioni, ed eleggersi i proprî capi. Finalmente, l'uomo, facendo parte di una società, è immedesimato con essa; e questa società proponendosi come fine principale non solo di garentire, ma ampliare quanto piú sia possibile la libertà ed indipendenza individuale, ed ogni offesa d'individuo ad individuo riducendosi alla violazione di questi due attributi, ne inferisce che le offese private debbono tutte considerarsi come offese pubbliche: ogni misfatto, ogni delitto, ogni errore offende direttamente l'intera società, la quale, giusto il tacito patto che ha con ognuno de' suoi membri, ha il dovere di vendicare l'offeso, e con l'esempio contenere i male intenzionati; e questo dovere della società, per la natura medesima dell'uomo, portato a vendicare altrui a tutela di se medesimo, diventa, come dice il Romagnosi, controspinta, ma non già criminosa, perocché l'urtato ha il diritto di riurtare, ed il riurto risulta, evitando la riproduzione del delitto, utile. Se poi ci faremo a considerare come ogni delitto trovi la cagione promotrice negli ordini sociali, o nell'indole dell'individuo, conchiuderemo come il patto sociale debba esser volto a rimuovere le cagioni del delinquere ed all'educazione de' colpevoli, onde non venga distrutto dalla società medesima uno de' suoi membri.
Egli è indubitato che le leggi scritte, invariabili, fra il continuo mutar dei tempi e de' costumi, riescono, in alcune epoche, soverchiamente rigide, e troppo forte il loro contrasto con la pubblica opinione, quindi l'utile della giurisprudenza, che cerca rammorbidirle ed adattarle ai tempi. Ma, se riesce soverchiamente duro il non lasciare al giudice altra facoltà, se non quella di pronunciare la sua sentenza dietro il sillogismo prescritto dal Beccaria, c'è cosa egualmente perigliosa, il dar luogo alla giurisprudenza che conduca all'arbitrio. Come evitare entrambi questi inconvenienti che risultano dall'ordine stesso sociale, dallo svolgersi e modificarsi dei rapporti? rimandate il reo ai suoi giudici naturali, al popolo. Le leggi scritte siano di norma e non d'altro, le decisioni del popolo superiori ad ogni legge. Potrà il popolo eleggere dal suo seno alcuni cittadini e costituirli giudici, ma i giudizî di questi saranno sempre annullati dalla volontà collettiva, a cui deve riconoscersi come diritto inalienabile, inerente alla sua natura, alla sua sovranità, la decisione suprema di ogni contesa. Cosí non potrà piú avvenire che vengano inflitte punizioni contraddittorie con la pubblica opinione e coi tempi; cosí avverrà che le leggi seguiranno lo svolgersi ed il mutar dei costumi, né mai questi verranno in lotta accanita e sanguinosa con esse. Adunque:
10. La sentenza del popolo è superiore ad ogni legge, od ogni maestrato. Chiunque credesi mal giudicato può appellarsi al popolo.
E cosí prendendo le mosse da due semplicissime ed incontrastabili verità: - 1. L'uomo è creato indipendente e libero, e solo i bisogni sono assegnati come limiti a questi attributi; 2. Per allontanare da sé questi limiti e rendere sempre piú ampia la sfera di sua attività l'uomo s'associa, epperò la società non può, senza mancare al proprio scopo, ledere in menoma parte gli attributi dell'uomo; - siamo stati condotti alla dichiarazione di dieci principî fondamentali, de' quali uno solo che non venga rigorosamente osservato, la libertà e l'indipendenza saranno violate. Dunque ogni contratto sociale, volto non già a confermare l'usurpazione di una classe, ma la felicità dell'intera nazione, deve aver come base questi principî.


XII. Pria di procedere piú innanzi, rileva rammentare, per sommi capi, quello di cui sino ad ora discorremmo in questo saggio. Ragionando del progresso abbiamo scorto come le società tendono, nelle varie loro evoluzioni, ad assettarsi fra le leggi naturali, e quando, per errore dell'istinto, per disaccordo del sentimento con la ragione, se ne allontanano, esse rapidamente declinano.
Indi osservammo come lo scambio facilissimo delle idee e dei prodotti abbia fatto, di tutt'Europa, un popolo di costumi, di leggi, di propensioni quasi uniformi; e noi, abbracciandolo nel suo insieme, ne siamo venuti scrutando le tendenze, tanto economiche come politiche. Il continuo aumento del prodotto sociale, il restringersi il numero de' possessori di esso, il crescere incessante de' miseri e della miseria, sono cose evidenti, innegabili, e quindi i mali, la necessità di migliorare, la reazione de' tanti miseri contro i pochissimi ricchi, certa, immancabile. Di quinci, sotto varie cagioni mascherato, il connubio de' pochi agiati co' despoti, e ad ogni minaccia, ad ogni tomulto, ad ogni rivolgimento, crescere le milizie perpetue, solo argine contro la numerosa plebe, e da questa lotta emergere, indubitatamente, il dispotismo militare o il trionfo della democrazia, l'uno seguito dalla licenza e dalla dissoluzione, l'altro dal rinnovamento sociale. Altra alternativa non v'è.
Incerti, ci facemmo a cercare quale delle due soluzioni fusse la piú probabile. L'atteggio, i tentativi, il cupo gorgogliare del proletario, fanno fede che la sua fibra è rozza, non flaccida, l'elatere n'è compresso ma non spento, quindi havvi speme di vita. Il soldato che lo fronteggia non è pretoriano, non avventuriere, ma proletario anch'esso, affatturato da magica forza che lo costringe a sacrificare se medesimo in sostegno delle proprie catene e di quelle de' suoi uguali, epperò la speme che la sua ottenebrata mente potesse balenare per un istante, e ciò basterebbe alla società per risorgere. Questi incerti e pallidi raggi di luce ci sembrarono fulgidi, scorgendo quasi nunzî del nuovo giorno la splendida pleiade de' socialisti, la tendenza delle moltitudini all'associazione, la preponderanza che giornalmente il concetto sociale acquista sul politico. Ristorato l'animo, ci siamo ristretti all'Italia solamente.
Abbiamo fatto studio sulle varie quistioni politiche, che si agitano in seno della nostra patria, e dimostrammo quanto vana ed inutile sarebbe la loro soluzione se non si sbarbicassero le due cagioni da cui la miseria, la schiavitú, la corruzione irraggiano, proprietà e governo. In ultimo, abbiamo stabiliti dieci principî, conseguenza immediata delle leggi di Natura, come base del futuro contratto sociale. Ora, non verremo esponendo un sistema, proponendo ordini, promettendo felicità, né esorteremo con gonfie declamazioni gl'Italiani alla concordia, alla battaglia. Noi studieremo le forze che operano nel seno della Nazione, ne cercheremo l'intensità, la direzione, la risultante, onde conoscere cosa l'Italia sarà, non già cosa vogliono che sia i partiti. Epperò cominceremo dall'esaminare quale sia lo stato dell'Italia relativamente alle altre nazioni dell'Europa.

CAPITOLO QUARTO

XIII. Italia e Francia. - XIV. I partiti in Italia. - XV. Il Comitato nazionale e Giuseppe Mazzini. - XVI. Insurrezione. - XVII. Dittatura.

XIII. Il volgo, il quale senza esaminate minutamente le cose, giudica dalla fallace apparenza di esse, considera la Francia e l'Inghilterra come le due nazioni dalle quali debbono partire gli impulsi che sospingeranno i popoli ad un migliore avvenire, quasi che la rigenerazione politica-sociale d'Europa dipendesse dal progresso industriale di esse. Per non dilungarci soverchiamente su tale argomento, e perché cotesta missione rigeneratrice si attribuisce alla Francia piú che all'Inghilterra, noi faremo paragone fra la prima di queste due nazioni e l'Italia. La rivoluzione francese del 1789 fu una grandiosa esperienza che mise a nudo la poca importanza delle varie forme di governo relativamente ai mali che la società ammiseriscono. Coloro che governarono quella rivoluzione cercarono garentire la libertà, proponendosi a modello Grecia e Roma, e mostrarono ignorare affatto quelle storie. Se con maggiore oculatezza avessero cercato le cagioni di quello splendore le avrebbero scorte ne' rapporti sociali, nello stato economico di que' popoli, per cui legavasi strettamente l'utile pubblico al privato; ed in quelle forme di governi, creduti origine d'ogni bene, avrebbero riscontrato la causa della non tarda ruina di quelle nazioni. Se avessero fatto studio sui tanti esperimenti che fecero que' popoli, e tutti invano, per impedire l'usurpazione di chi reggevali; se avessero meditata la storia d'un'epoca meno remota, quella degl'Italiani del medioevo, che pel loro stato economico, religioso, morale, si rassomigliavano ai Francesi piú che i Greci ed i Romani, si sarebbero convinti facilmente come sia impossibile limitare l'abuso ed evitare il despotismo, allorché delegasi a pochi la sovranità ed il potere che risiede in tutti, e solleciti delle forme lasciansi sfuggire la sostanza delle cose.
La Francia al '93 subí l'esperienza medesima che già avevano subito gl'Italiani nel medioevo. I nobili, domati dal regio potere, avevano smesse le armi, ed il re aveva vinto un rivale, ma perduto un sostegno. Intanto, come in Italia il popolo, combattendo a difesa del papa, conobbe di aver diritti, cosí in Francia, assumendo la difesa del re, imparò a difendere se stesso. Parteggiando pel re, egli credette migliorare, ma svincolato dalle strette del feudalismo, videsi abbandonato, privo di mezzi ed appoggi, in una lotta ineguale co' ricchi; sospinto dai suoi dolori rovesciò il trono, in tal modo la rivoluzione si compí, rivoluzione che, come quella del mille in Italia, fu il trionfo del Comune sul medioevo. Agli Italiani bastarono sei secoli per cangiare in popolare il barbaro reggimento, ai Francesi ne bisognarono quattordici. L'unità, l'indipendenza assoluta, le superstizioni del cristianesimo scrollate, il prestigio de' nomi caduto, resero, all'esterno, la Francia piú maestosa dell'Italia, furono idee, non famiglie, che parteggiarono il popolo. Ma la stessa unità, la minore energia della plebe, lo spirito di libertà poco comune, insomma lo spirito repubblicano, universale in Italia e difettivo in Francia, e per contro fortemente sentite le tradizioni della monarchia, distrussero in dieci anni tutte quelle conquiste del popolo che gli Italiani conservarono per quattro secoli.
La rivoluzione francese scosse dal loro letargo i popoli d'Europa, ed il governo, che i moderni chiamano rappresentativo, fu la barriera, l'ostacolo che gl'impotenti troni opposero all'esigenze del popolo. Abbiamo parlato abbastanza largo di una tal forma di governo, quindi non è mestieri ritornare sull'argomento, diremo solo che da tale epoca cominciò a germogliare l'epoca che minaccia di cancrena l'Europa. Intanto, l'industria, il commercio, le scienze, progredirono, il secolo XIX venne chiamato il secolo del progresso, ed i dottrinarî credettero, o gli convenne credere, che sotto tale reggimento compivasi gradatamente l'educazione del popolo, navigandosi a golfo lanciato verso la libertà, strana aberrazione, o strana menzogna. Il secolo XIX sarà famoso nei fasti dell'umanità, non già per la servile e codarda schiera dei dottrinanti scaturiti dal suo seno, ma perché in tal torno il socialismo, d'aspirazione fattosi sentimento, ebbe partito ed avrà attuazione.
La grandezza, la degnità della Nazione non va misurata dal numero de' libri che in essa si pubblicano, come non è la dottrina solamente la qualità che determina il conto in cui debba tenersi un individuo. Un dotto, che pone la sua penna a disposizione del maggiore offerente, lambisce la mano che lo sferza, bacia le catene che l'avvincono, e con facile viltà maledice chi cadde, né mai osa di biasimare il potente, non può certamente preferirsi ad un ignorante che, domo dalla forza, guarda torvo l'oppressore, minaccia ne' ferri, né lasciasi intimorire dalla spada, né dall'oro corrompere: il primo sarà un uomo culto ma degradato, il secondo rozzo ma pieno del sentimento della propria dignità; nell'uno possiamo rappresentare il basso Impero e l'Italia al secolo de' Medici; nell'altro la Roma de' Bruti, de' Scevola... e l'Italia del mille; nel primo possiamo scorgere l'odierna Francia, nel secondo l'Italia moderna. Colui che si crea un padrone è schiavo per natura, chi lo subisce non è che disgraziato.
Se i rivolgimenti avvenissero in ragione de' libri, non sarebbe stata la Sicilia la prima ad iniziare i moti del '48, né la dotta Germania sarebbesi rimasta quasi inerte tra l'universale sconvolgimento. Quali dotti contava la Grecia all'epoca della sua memorabile rivoluzione? Gli Hoche, i Marceau, i Kléber... i Marco Botzari, i Canaris... eroi da rivoluzione e non già da poltrona, non sono parto di dottrine, primogeniti di queste sono i Guizot, i Thiers... La probabilità di un rivolgimento è in ragion diretta de' mali che opprimono il popolo e del grado d'energia che esso conserva. Faremo studio su di ciò, onde discernere se in Italia l'abilità al moto sia minore che in Francia.
In Italia come in Francia, la vita pubblica è difettiva, non curato l'utile nazionale, a cui viene sempre preposto l'utile privato. La vita pubblica de' moderni consiste nelle gesta da romanzo che suppliscono alla sterilità degli avvenimenti storici. L'eroe da romanzo è il modello che la gioventú si propone nel suo esordire; una brillante comparsa, come dicono i Francesi, dans le tourbillons du monde, è l'ambizione de' moderni eroi, de' lyons, è la gloria che per essi adegua, anzi sorpassa quella de' Scipioni e de' Marcelli. All'operosità succede il riposo, il lyon si trasforma e comparisce nel mondo sotto il carattere d'homme blasé. Il lyon ama i rischi del duello, di una corsa a cavallo e... ma guardasi bene dal mischiarsi in politica, se le barricate covrono le strade, chiudesi in casa curandosi poco dell'esito della lotta, ed aspetta tranquillo quando les affairs ont repris, per essere richiamato all'azione. Allora si fa di nuovo ad usare in quelle numerose brigate ove lo scambio degli affetti è impossibile, ed in quei teatri ove con mostruosi drammi si tenta invano scuotere la flaccida e logorata fibra dell'annoiato ascoltante. In Italia i lyons, i grandi ridotti, quel genere di produzioni teatrali sono piante esotiche. Ci sforziamo, egli è vero, di accettare i medesimi gusti e farci imitatori degli oltremontani, ma fortunatamente con pochissimo successo. Quanto ristretto è il numero de' romanzi e dei romanzieri in Italia!... E perché? mancano forse gl'ingegni, o la favella, come alcuni asseriscono, non prestasi a tali letterarie produzioni? mai no; se esse venissero chieste dalla pubblica opinione, tutte le difficoltà sarebbero superate, né la tirannide le interdice. Ma quello poi che maggiormente ridonda a gloria nostra è che i pochi romanzi italiani sono quasi tutti di fama imperitura, quasi tutti hanno uno scopo politico, ed i piú accreditati fra essi, come l'Assedio di Firenze, Nicolò de' Lapi, Ettore Fieramosca,... suscitando un torrente di affetti patrii, affogano, attutiscono ogni affetto privato.
Il prestigio del fasto immenso in Francia, in Italia abborrita la pompa: gradirono i Francesi il brillante corteggio di Bonaparte piú che la semplicità del governo provvisorio del '48 e di Cavaignac; in Italia, per contro, il modesto vivere di Mazzini e di Manin riscossero plauso ed universale simpatia.
La superstizione religiosa, in Italia come in Francia, non esiste che fra le donnicciuole; la religione è ridotta ad atti esterni, è un'abitudine, non già un sentimento, e se sentimento religioso vi fusse ancora al giorno d'oggi, la sua sede sarebbe in Francia e non già in Italia. Proudhon rinnegava la storia scrivendo Le bigot italien, egli non rammentavasi come i Francesi, da Carlo Magno, sono stati sempre i difensori del papa, non per ragion di Stato, ma per fanatismo, ed i nemici de' pontefici sono stati e sono gl'Italiani, ai quali è riserbato d'inaugurare il trionfo su tutte le idee religiose.
Si eccettui il Piemonte in cui, per soverchia docilità del popolo il reggimento costituzionale dura, nelle altre parti d'Italia non ha potuto gettar le sue barbe; la violenza, la corruzione non son bastate in Napoli, in Roma, in Toscana, ad ottenere una camera suddita del ministero. Troverete in queste provincie satelliti efferati ed impudenti della tirannide, ma quei trafficanti in politica, pronti ad inchinarsi ai fatti compiuti, non esistono, feccia e non cima di società, come essi si compiacciono credere; in Napoli sonovi i Windishgratz e gli Haynau, ma invano si cercano i Magnan, i Saint-Arnaud, i Maupas... Gli ex-triunviri, gli ex-ministri, gli ex-generali italiani vivono tutti nell'indigenza, mentre non trovasi in Francia un ex-impiegato che non abbia sa petite fortune.
Secondo il proprio stato, i proprî bisogni, le proprie inclinazioni, producono le nazioni gli uomini che le rappresentano, e viceversa dal carattere di questi uomini potrà inferirsi lo stato in cui esse si rattrovano. E se non volesse considerarsi come passeggiero il presente stato della Francia, in vedendola padroneggiata da' Guizot, da' Magnan, da' Saint-Arnaud, da' Bonaparte... bisognerebbe conchiudere che essa si dissolve, e che le ultime virtú rivoluzionarie sonosi spente con Armand Carrel. In Italia, per contro si rattrovano esseri spregevoli, ma non sono che i rappresentanti de' varî governi locali vicini a ruinare, mentre la nazione intera non onora, non prezza né costoro né i dottrinanti che predicano rassegnazione, ma i martiri suoi; quindi è nazione che sente il peso de' proprî mali, che onora quelli che danno la vita per combatterli, e dal martirio alla battaglia non havvi che un passo.
L'attacco di centosettantamila stranieri contro Italia divisa, quasi non bastò a ristabilire il dispotismo; essi per vincere han dovuto ricorrere eziandio al raggiro ed alla menzogna. Tre battaglie, quattro assedî, sessanta combattimenti, tre città messe a ferro e fuoco, sono i gloriosi monumenti di nostra resistenza, mentre gli esuli, i prigioni, le vittime che muoiono col nome d'Italia sulle labbra [sono] la nostra continua e gloriosa protesta. Come ha difeso Francia la sua libertà? un pugno di compri francesi in poche ore da libera la fanno schiava, e la nazione, ben lungi dal resistere, col suffragio universale, sancisce l'usurpazione ed appoggia la spregevole tirannide. Come negare che i rivolgimenti avvenuti in Francia il 1830, il '48, il due dicembre, sono l'effetto d'una vittoria ottenuta da un ristretto partito in Parigi? E somigliano moltissimo alle congiure di palazzo del basso Impero, a cui veruna parte prendevano le popolazioni delle provincie, mentre in Italia non v'è movimento che non trovi un'eco in tutte le valli dell'Appennino. Tre volte, nel breve spazio di cinquanta anni, la Francia è stata arbitra de' suoi destini, tre volte da se medesima si è foggiata le catene, mentre, se non vi fosse stato intervento straniero, l'Italia, forse, sarebbe libera da molto tempo. I gusti adunque, i costumi, i fatti, la dimostrano meno indifferente a' suoi mali, meno degradata che Francia, quindi maggior probabilità di risorgere, accresciuta eziandio dal desiderio ardente che sente ogni Italiano, di conquistare la propria nazionalità, significante movente di cui difettano i Francesi perché credono possederla.
Esaminate le forze che sospingono al moto, ci faremo a studiate quelle che resistono. La nobiltà, la borghesia, i preti, gli impiegati d'ogni genere, un forte e numeroso esercito, sono una base di granito che in Francia sorregge ogni genere di despotismo; ma ove sono queste forze in Italia? La piú famosa nobiltà italiana, la vera nobiltà feudale venne distrutta al sorgere de' Comuni; solo nell'Italia cistiberina durò ancora lungamente, ma fu in continua lotta col trono. Doma da Federico, riprese vigore per l'avarizia degli Angioini; di nuovo perseguitata dagli Aragonesi, durante il regno del perfido Ferdinando d'Aragona, fece l'ultimo sforzo con la famosa congiura. Dieci Baroni de' piú famosi lasciarono la vita sul palco, altri fuggirono, furono occupate le loro castella, disarmato il vassallaggio. I discendenti non ebbero piú forza, e per tradizione, e pel continuo cangiare della dinastia regnante, essi non furono mai gli amici del re: undici nobili di primo rango perirono nel '99 come repubblicani, fra questi il formidabile campione della libertà, Ettore Carafa conte di Ruvo. In Piemonte la nobiltà non conta che i fasti di sua docile servitú, nobiltà di secondo rango, perocché i grandi feudatarî si estinsero successivamente, e sulle loro mine s'innalzò il trono di casa Savoia. I numerosi titolari che brulicano ne' varî Stati d'Italia, sono nobili nuovi, ovvero non nobili, né formano casta i cui privilegî li lega per utile proprio al trono; sudditi, come il resto de' cittadini, sono regî se percepiscono stipendio, liberali in caso contrario. I veri nobili d'Italia sono i patrizî delle varie repubbliche, ed in primo luogo i veneziani, e cotesta nobiltà potrà essere municipale e non regia. La borghesia italiana, non solo non sostiene ma odia i presenti governi, e se non è sollecita al muovere, non avversa i movimenti. I preti, non essendo salariati come in Francia, contano moltissimi liberali, ed anche soldati della libertà. Infine possiamo conchiudere che se togli dall'Italia i stranieri, l'appoggio dei troni riducesi alla codarda schiera degli impiegati e de' poliziotti. Solo in Napoli ed in Piemonte havvi un esercito, ma esso non si è mostrato, in certe circostanze, inaccessibile alla brama di libertà. Quindi la tirannide non si sostiene che in virtú di forze straniere; aggiungi, le tradizioni dell'Italiani repubblicane tutte, quelle de' Francesi regie, e potremo senza errore conchiudere che l'esercito conservativo, potentissimo in Francia, in Italia quasi non esiste.
La sola cosa che in apparenza favorisce la Francia, è lo scorgere che in essa le idee di riforma sociale sono piú generalmente sentite, sono già scritte sulla bandiera d'un partito. Ma questo partito non è reciso ne' suoi concetti e nella sua propaganda; lo stesso Proudhon spera accordare l'utile del proletario e quello della borghesia; tutti sono, nella pratica, dubbiosi e timidi.
I riformatori che svolgono le dottrine, foggiano sistemi, altro non fanno che delineare la prima orditura, che stabilire de' principî; un numero ristrettissimo di persone s'inspirano ne' loro volumi, e questi volumi possono dirsi un retaggio europeo. Ma nulla apprende il numeroso volgo, ché, eziandio le cose volte a migliorare la sua condizione e minorare la sua fatica, non le accetta che stretto dall'estremo bisogno, e non si lascia convincere se non dal fatto. I giornali, i ragionamenti e le corrispondenze pubbliche o private, gli scopi che si propongono le congiure, le persecuzioni, le vittime, gli avvenimenti, sono quella serie di argomenti per cui le astrazioni de' riformatori divengono concetti popolari. I discorsi di Proudhon all'assemblea, i suoi articoli sul giornale da esso redatto, le lezioni di Louis Blanc al Lussemburgo, le manifatture nazionali, le barricate di luglio, ha formato la propaganda la quale cominciò a trasfondere nelle masse il socialismo; il popolo, forse, non ha compreso il significato dell'ordinamento del lavoro, ma sa di essersi battuto per esso, e quindi può non sembrargli strano il ritentare l'impresa.
Il due decembre ha spaventato ogni partito, e tutti avrebbero desiderato far tregua alle contese onde abbattere il nemico comune, i socialisti han taciuto ed han quasi perduto il terreno che avevano guadagnato. Le dicerie pubblicate dai rivoluzionarî francesi sono vuote declamazioni. Non si scrutano i varî rapporti, non si dimostra al minuto popolo quale sarebbe l'avvenire che, volendo, può conquistarsi: son formalisti e non altro. Tutti, si eccettui Proudhon, persistono nel grave errore di pretendere iniziare le riforme dall'alto [al] basso, imporle al popolo, e non farle sorgere spontanee dal basso in alto; e siccome ogni caporale di partito credesi il solo atto a praticare le proprie idee, che egli crede le sole vere e giuste, tutti si fanno propugnatori della dittatura, perché ognuno la spera per sé, non per ambizione, ma pour faire le bien, dicono i Francesi, per educare il popolo, dicono gl'Italiani; epperò, comeché il moderno socialismo fosse nato in Francia, non è la Francia piú innanzi dell'Italia nella pratica di tali dottrine. Inoltre, il compimento della sociale riforma deve in Francia superare ostacoli assai maggiori che in Italia, e perché il grande sviluppo dell'industria accumulando grandi capitali ha creato potenti e numerose forze che resistono; e perché bisogna ridonare la vita al Comune, spenta affatto dall'unità francese, mentre in Italia essa è latente, ma vigorosa e pronta a svilupparsi. Quindi non solo l'Italia ha in sé probabilità di moto maggiori che la Francia, ma la soluzione del problema sociale è molto piú facile ed omogenea all'Italia che alla Francia.
Seguiamo il confronto fra le due Nazioni, e cerchiamo discernere per quale delle due, ammesso il moto, è piú facile il successo. Parigi è la sola città della Francia ove l'insorgere è possibile; ivi, egli è vero, sono raccolti grandi mezzi di resistenza, ma il popolo parigino è numeroso ed arrischiato, il vacillare delle soldatesche facilissimo in una sí grande città, quindi facile la vittoria che menerà un partito al potere. La Francia pensa ed opera come Parigi: a Carlo X succede Luigi Filippo, a questi la repubblica, poi Cavaignac, Bonaparte, l'Impero... ed in tutti questi cangiamenti, solo di nomi, la Francia intera si rimane tranquilla. Cangiano i pubblici funzionarî, piú per premiare i partegiani del nuovo potere che per punire quelli del caduto, pronti sempre ad inchinarsi al vincitore, tanto è cieca la disciplina. Ubbidienza a chi comanda è la formola che regge la Francia intera; il re, il governo provvisorio, il presidente, l'imperatore... qualunque, infine, sia il nome del potere che siede sovrano a Parigi, esso disporrà arbitrariamente delle forze di tutta la nazione. Fra i moderni, i suoi ordini militari sono ottimi, le schiere istrutte e costumate a fatica, il Francese per indole prode e facile all'esaltazione, le tradizioni militari brillanti e recenti, la fiducia nelle proprie forze grandissima, quindi formidabile, rispettata. Dopo l'esempio del '93 nessuna Potenza d'Europa attaccherà la Francia per sostenere un partito, anzi tutti gli Stati crederanno di avere ottenuta una grande vittoria se dopo un rivolgimento la Francia si rimane nelle sue frontiere. Per essa, adunque, li cangiar forma di governo è un fatto il quale, con pochissimo rischio, compiesi in pochi giorni. Ma quale è il vantaggio di tali rivolgimenti? sotto altre vesti, forse piú luride, il dispotismo è permanente.
La forza cade nelle mani di uomini che, parlando [di] libertà, si sostituiscono al despota, ne calcano le orme, ne seguono il sistema, e fannosi scudo contro i cittadini di quell'esercito stesso che pochi istanti prima riguardavano loro nemico. Inesperti nel trattare un tanto terribile strumento di tirannide ne rivolgono contro loro medesimi le offese: un soldato o il discendente d'un soldato, legittimo possessore e vero rappresentante del diritto della forza, impone silenzio al loro importuno garrire, e col piatto della sciabola li caccia ignominiosamente di seggio. Quando dittatura vi è in un paese, questa non può essere che militare, e se tale non la crea la nazione, essa per la natura stessa delle cose tale diventa, sono vani gli ostacoli, i raggiri del curiali per garentirsi. Di un tal genere di rivolgimenti, cioè ad una fazione sostituirgli un'altra al potere, la Francia può compierne uno l'anno; all'Italia sono impossibili. Ci faremo a dimostrarlo.
Non già in una sola città italiana, ma in ognuna di esse, perché piene di vita municipale, potrebbesi iniziare un movimento, ma con poca speranza di successo. L'Italia intera seguirà l'esempio, ma senza unità: gli uomini nel[le] cui mani, in ogni regione, verrà affidato il potere, non vorranno sottomettersi gli uni agli altri, ed ogni Stato, forse ogni Comune, spererà salvezza isolando la propria causa. Ma poniamo il caso che gl'Italiani, resi dotti dalle passate vicende, affidassero ad un centro comune la somma delle cose, questo governo unico, a quanti bisogni deve provvedere, e prontamente provvedere? Insorgere e vincere le prime prove non basta agli Italiani, essi debbono combattere una delle piú formidabili Potenze militari, che possiede in Italia una munita e forte base d'operazione, alla quale appoggia un numeroso esercito, quindi è forza che, ad onta del difetto di milizie e di armi, un esercito italiano sorga in un baleno numeroso e compatto. Come provvederà il governo? ricorrerà al terrore? Coloro i quali credono che un illusorio potere concesso da pochi ad alcuni uomini possa far loro abilità di comandare d'un capo all'altro d'Italia s'ingannano, eglino conoscono l'Italia come può conoscerla un Francese o un Inglese, che giudicano dal proprio l'altrui paese.
La formola obbedienza a chi comanda, che ora regge la Francia, resse eziandio l'Italia, nel secolo passato e ne' due precedenti, ma il concetto del risorgimento italiano, fatto sentimento, dal '14, cangiolla. Il costume che, ora, dalle Alpi al Lilibeo, hanno i popoli Italiani, è, sempre che lo possono, resistenza a chi comanda, né esso può cangiarsi in un istante. Il terrore produrrebbe l'immediata reazione, favorevole al nemico già accampato fra noi; le passioni in Italia non son tiepide, la forza medesima di esse rese gli Italiani padroni del mondo, e ne fa un popolo di assai difficile reggimento. Ed ammessa l'ubbidienza, cosa valgono que' battaglioni per forza raccolti? ne' tomulti ardenti, son codardi in ordinate battaglie. La Francia stessa, su cui il terrore ebbe grandissimo successo, non ebbe esercito prima del '94; per cinque anni rimase esposta ai colpi nemici, fu salva non già per propria virtú, ma per gli errori di quelli. Ma l'Italia non può sperare tale fortuna, appena qualche mese sarà concesso all'insurrezione italiana per trasformarsi in esercito.
Inutile, inefficace, ruinoso è il terrore in Italia, quali mezzi rimangono, adunque, agli uomini eletti a governarla in sí difficile emergenza? un solo: fare un fervido e continuato invito al paese, proporre i mezzi come provvedere a tutto, dico proporre, perocché non potendo abusare della forza, i comandi non si ridurrebbero che a semplici proposte, il cui risultamento dipenderà dalla volontà del paese, epperò dalle cagioni che determineranno questa volontà.
L'odio ai presenti governi bastante ad insorgere, trionfata l'insurrezione s'ammorza, quindi bisogna suscitare una passione da bilanciare i rischi ed i stenti della guerra. Il desiderio di libertà, d'indipendenza, l'amor della patria, han forza grandissima nei cuori di quella balda ed intelligente gioventú che è sempre prima ad affrontare i perigli delle battaglie; ma essi soli non bastano, l'Italia trionferà quando il contadino cangerà, volontariamente, la marra col fucile; e, per questi, onore e patria sono parole che non hanno alcun significato; qualunque sia il risultamento della guerra, la servitú e la miseria lo aspettano. Chi può, senza mentire a se medesimo, affermare che le sorti del contadino e del minuto popolo, verificandosi i concetti de' presenti rivoluzionarî, subiranno tal cangiamento da meritare le pene ed i sacrificî necessarî a vincere? Il socialismo, o se vogliasi usare altra parola, una completa riforma degli ordini sociali, è l'unico mezzo che, mostrando a coloro che soffrono un avvenire migliore da conquistarsi, li sospingerà alla battaglia. Quindi, le difficoltà che presenta la guerra del nostro risorgimento, i numerosi nemici, l'indole italiana di assai difficile reggimento, la vita municipale prima a manifestarsi nelle rivoluzioni, il costume, omai reso seconda natura, di resistere a chi comanda... costituiscono il fato della nazione, che inesorabilmente ne ha segnato il destino. Schiavitú o socialismo, altra alternativa non v'è.
Poniamo ora il caso che in un rivolgimento il popolo italiano vegga la possibilità di migliorare il suo avvenire, ed animato da una passione forte e popolare, che unifichi e determini la sua volontà e la sua azione, corra volenteroso incontro al nemico, e facciamoci a ricercare, seguendo il paragone con la Francia, se i suoi mezzi materiali son tali da vincere.
La Francia avanti la rivoluzione contava duecentocinquantamila uomini, de' quali diecimila erano milizie dorate della corte sparite con essa; settantasettemila erano battaglioni provinciali; e venti o venticinquemila stranieri, quindi i soldati regolari nazionali si riducevano a' centocinquantamila. In Italia, ammessa una rivoluzione universalmente sentita che ne raccolga le forze sotto la stessa bandiera, non manca certamente un tal numero di soldati. Aggiungi che gli abusi, dopo quell'epoca riformati, han reso gli eserciti piú mobili e piú compatti, e centocinquantamila uomini in oggi valgono assai piú che centocinquantamila uomini in allora, e la superiorità di ordini ed istruzione che avevano gli eserciti alemanni sul francese, nel caso nostro non esiste, perocché gli eserciti stanziali, all'epoca presente, si pareggiano in Europa. Le schiere francesi rimasero quasi dissolte pel numero significante d'ufficiali che seguirono le sorti del re, in Italia, per contro, probabilmente non se ne conterebbe alcuno. Quindi le nostre forze materiali, possiamo dirle per numero ed ordinamento superiori a quelle che possedevano i Francesi al cominciare della rivoluzione.
Negare agli Italiani il primato in armi, è negare la storia, che perciò siamo venuti rammemorando nel primo Saggio. La nostra temperie, fornita di una quantità sufficiente, ma non eccedente, di sangue igneo, accoppia il coraggio all'ingegno, qualità che spesse volte si escludono; l'Italiano discerne il pericolo, studia il proprio vantaggio, ed opera. Se noi siamo degeneri dagli antichi, lo sono del pari gli altri popoli d'Europa, quindi il vantaggio che deriva dall'indole nostra, dono della Natura, rimane il medesimo. Ma il valore individuale non ci vien negato, tutti son convinti che un Italiano valga assai piú, o almeno quanto un Francese. Ci faremo a discorrere del valore delle soldatesche.
Un contadino che difende il suo tugurio con coraggio da leone, un brigante che combatte valorosamente la sbirraglia, può, fatto soldato, mostrarsi codardo perché non vede la ragione, non sente la necessità di rischiare la propria vita, e qualunque sia la severità della disciplina, le pene da cui vien minacciato non controbilanciano mai i perigli immediati della battaglia. La disciplina, bastante a rendere il Russo e l'Inglese ottimo soldato, non basta, con diverse gradazioni, all'Italiano, al Greco, allo Spagnuolo, al Francese eziandio; questi popoli debbono combattere sotto il pungolo d'una passione che li esalti; questi popoli hanno troppo discernimento per sacrificarsi come ciechi strumenti dell'altrui volontà. I Suliotti, di eroico valore fra le loro montagne, arrolati dalla corte di Napoli come soldati, non corrisposero alla fama [che] era corsa di loro; al '99 l'esercito napoletano fugge, ed il popolo napoletano combatte strenuamente il nemico in ogni vallata; Capua, difesa da un esercito, e la fortissima Gaeta, non indugiano la marcia dello straniero che vede in periglio la sua facile vittoria innanzi alla città di Napoli, aperta e priva di ogni genere di milizia. Non appena in Francia cessò il feudalismo, ed ai guerrieri feudali, guerrieri eroici, successero le regie milizie, i Francesi perdettero il primato delle armi, i lanzi ed i Svizzeri gli vennero preferiti. Fate paragone tra le gesta de' Francesi durante la guerra de' sette anni e quelle durante la guerra della rivoluzione, e scorgerete quanta differenza passi fra le milizie regie e le repubblicane; quelle strumento d'un despota, queste animate da una forte passione. Paragonate le battaglie di Rosbach e Jemappes, la prima combattuta dal fiore delle regie milizie, l'altra da inesperti volontarî tumultuariamente accozzati. Paragonate il soldato italiano a Pastrengo, e lo stesso soldato a Novara, e scorgerete ad evidenza come il convincimento e l'esaltazione siano per tutti i popoli di svegliato ingegno moventi assai piú efficaci che la disciplina ed il terrore. In virtú del loro discernimento cotesti popoli, e particolarmente gl'Italiani, combattono da eroi in lontane regioni, e mollemente, se manca l'esaltazione, nel proprio paese; nel primo caso essi veggono nella disfatta la loro ruina, nel secondo un pretesto per tornarsene a casa. Solamente dopo una lunga carriera sui campi di battaglia ed una serie non interrotta di vittorie, possono formarsi quelle schiere di veterani che amano la guerra per la guerra, che tutto il loro utile si reassume nell'utile della vittoria, come erano le schiere napoleoniche; ma senza la rivoluzione, e per essa dieci anni di prospera guerra, non sarebbero esistite né quelle schiere, né Napoleone, né le vittorie di cui la Francia incoronasi degnamente. Adunque, la cagione medesima, la nostra temperie, che assicuraci il primato in guerra, è stata quella per cui i moderni eserciti italiani fecero cattiva prova; gli Italiani discernono troppo il periglio, per incontrano in forza di una virtú negativa, l'ubbidienza. Questa virtú è efficacissima pe' popoli del nord, che, dotati di una grande abbondanza di sangue caldo, sono stupidi e coraggiosi, atti ad essere menati come massa inerte contro il cannone, ma, per contro, incapaci di que' sforzi che richiede la virtú ardita e libera allorché inspirasi nelle grandi passioni. In tali sforzi gli Italiani non hanno pari che i Greci; seguono con maggiore impeto, ma minor costanza, i Francesi.
Un esercito d'Italiani, guerreggiando per conto di una dinastia e per cagioni che non comprende, sarà il peggiore degli eserciti europei, se poi combatterà per una causa sentita e popolare, sarà invincibile. Senza una passione universalmente sentita, gli Italiani non potranno combattere con valore; se poi la passione e l'esaltazione esisterà, le nostre schiere saranno tanto superiori a quelle degli altri popoli per quanto lo furono i Romani, i quali non vissero sotto clima diverso dal presente, né ebbero un maggiore numero d'organi sensorî, né diversa temperie che noi. Essi nella guerra vedevano un utile che noi non veggiamo; questa differenza, e nulla piú, passa tra noi e loro.
La popolazione della Italia oggigiorno è quanto quella della Francia nell'89, mentre l'estensione della nostra frontiera è poco piú del terzo di quella. La Francia mise in armi ottocentomila uomini, ma questi, ripartiti in quattordici eserciti, (cosí richiedeva la ragion di guerra), non potettero in alcun punto ottenere sul nemico una significante preponderanza di forze; gli eserciti a' confini di Spagna, d'Italia, del Belgio, della Germania, non potevano certamente operare con un comune disegno, ed ognuno d'essi rimase abbandonato alle proprie forze. La posizione degli Italiani è molto migliore: difesi dalla cerchia delle Alpi, il nemico è costretto a raccogliere le sue forze in paese sterile e dirupato, mentre gl'Italiani si trovano nella valle del Po, regione ubertosa ove popolose e ricche città, numerose strade, un maestoso fiume, forniscono, trasfondono facilmente le vettovaglie. Gli attacchi che le diverse Potenze potrebbero intraprendere sui varî punti della frontiera, non possono riuscire simultanei, perché non sono prevedibili tutti gli ostacoli che attraverso i monti possono indugiare la marcia d'un esercito. Impossibile riescirebbe loro il darsi un vicendevole soccorso, perché l'asprezza del terreno nol comporta, ed ogni attacco, non solo rimarrebbe isolato, ma, sboccando dalle valli, non porrebbe che presentare delle teste di colonne agli Italiani, i quali possono, facilmente, far massa contro il piú vicino de' nemici; di modo che i Francesi con ottocentomila uomini si difesero contro tutta l'Europa, né potettero sempre pareggiare in numero il nemico sui diversi campi di battaglia, mentre agli Italiani basterebbero duecentocinquantamila uomini per conservare in ogni scontro la loro superiorità. I nemici della Francia, finalmente, ebbero uno scopo alle loro operazioni, Parigi, i nemici d'Italia non ne avrebbero alcuno; l'importanza delle varie capitali sparirebbe con la rivoluzione; né potrebbesi questa, ad onta dei sforzi che farebbero gli stolti, attribuire ad una sola fra esse, sia anche Roma, perché l'indole nazionale nol tollera; quindi il nemico sarebbe costretto vincere in ogni vallata, in ogni borgo, troverebbe tante capitali innanzi a sé per quanti sono i punti strategici del nostro suolo.
Facendoci a reassumere il detto conchiuderemo che le tendenze e le probabilità di moto sono in Italia maggiori che in Francia, e minori le forze resistenti; che, quantunque i moderni socialisti siano francesi, la propaganda pratica di quelle idee non è in Francia piú avanzata che in Italia. Nondimeno i vantaggi che esse promettono sono tali, che se un rivolgimento ne permetterà la benché minima applicazione, esse diverranno in un tratto popolarissime in Italia come in Francia. Ammesso il moto prodotto da cagione universalmente sentita, abbiamo discorso del numero e valore delle soldatesche, delle frontiere, della guerra che dovremmo sostenere, e che la Francia sostenne, ed il vantaggio, evidentemente, è dalla nostra parte. Possa questo confronto rilevare gli animi, generare la fiducia in noi stessi, ch'è forza confessarlo, manca, imperciocché gli Italiani hanno il torto di confondere le imprese dei nostri tirannelli con quelle della nazione. Perché essi non s'inspirano in quelle gesta che l'Italia tutta unita compí? in esse, la cui memoria dura da tanti secoli e durerà lontana, avranno la giusta misura delle nostre forze, né ci sarà luogo a scoraggiamento.
Le nazioni, durante le medesime fasi di loro vita, sono sempre le stesse; credi tu, o lettore, che siamo in decadenza? non leggere oltre, non perdere il tempo, caccia le mani nella corruzione che ti circonda, usa ogni mezzo per arricchirti e goder della vita, inchinati ai tiranni, basta che ti assicurino i materiali godimenti; se poi credi che possiamo risorgere, devi assolutamente credere che saremo grandi come furono i nostri progenitori; se nol credi ti compatisco, il tuo animo poco gagliardo non regge alle impressioni delle conseguenze estreme, tentenni nel mezzo, e sei fra la turba di coloro che vissero senza biasimo e senza lode; sarai poco utile alla patria ed increscioso a te stesso.
Inoltre, il nostro ragionamento farà risaltare sempre piú la stranezza di alcuni Italiani di pregevole ingegno, di ottimo cuore, i quali credono fermamente adoperarsi per lo bene della patria, col tessere una continuata apologia di Francia, mostrandocela quale astro che dovrà dar norma e rischiarare il nostro avvenire. E perché abbiamo qualche chilometro di meno di strade a rotaie e di telegrafi elettrici, perché l'aristocrazia bancaria non è cosí potente come in Francia, perché il monopolio, tra noi, non ha raggiunto l'apogeo, perché in Francia si pubblica qualche migliaio di piú di bugiardi volumi, n'inferiscono che l'Italia non regge al confronto di quella nazione. I loro scritti, eziandio nel cuore dei piú imparziali non possono che suscitare un certo disgusto, pure, considerando ogni libro che si pubblica l'espressione di un sentimento nazionale, e lasciando all'intolleranza religiosa e regia la ripartizione fra libri buoni e libri cattivi, noi ci siamo dati alla ricerca delle cagioni che possono suscitare simili dottrine. L'apparenza degli eventi hanno tratto fuori del loro proposito cotesti scrittori. Eglino, per scrivere come rivoluzionarî italiani, sonosi dati a fare profondo studio sulle cose e sulle idee di Francia, che, al momento, avevano vita piú rigogliosa, e tutti invasi di quelle idee si son fatti a ricercarle in Italia; cercavano Francia, ad essi notissima, han trovato Italia, che poco conoscevano, e, come se le nazioni durante la loro vita dovessero calcare le medesime orme, han dichiarato Italia in ritardo. Intanto la loro posizione, dovendo scrivere d'Italia con idee francesi, era falsa, e la conchiusione non poteva essere ch'una, l'Italia non è Francia. Allora han colorito diversamente il loro disegno, han reso francese l'Europa, ed in questo quadro generale, in un posto affatto secondario, quasi totalmente in ombra, si scorge l'Italia in lontananza. Ma chi parte da falsi principî deve esser condotto, naturalmente, a false conseguenze. Infrancescato il globo intero, ne inferiva la supremazia francese, e l'avvenire da essi prognosticato sarebbe, come dice V. Hugo, il mondo francese e quindi la rivoluzione, la rigenerazione umanitaria, risultando d'un carattere speciale e non già umanitario, veniva da essi, che se ne dicono i propugnatori. rinnegata affatto.
E tratti ancora piú innanzi da' loro ragionamenti additano la Francia come nostra protettrice, come fonte di ogni nostro futuro bene, e predicano la fratellanza con essa; assurdo manifesto. Avvegnaché tra il protettore ed il protetto, il maestro ed il discepolo, il difensore ed il difeso, fratellanza non può esservi mai, ma dipendenza. Senza che essi se ne accorgano, i loro ragionamenti prognosticano che un giorno Parigi sarà la nuova Roma, e come ora la Francia china il capo ai Vitellî sublimati da compri pretoriani, nel felicissimo avvenire al quale ci avviciniamo, tutta l'Europa farà lo stesso. Se questo è il progresso, auguriamoci il regresso, e regresso prontissimo.
Non si affretta né si propugna la rivoluzione con dottrine che la distruggono, o almeno la travisano e sgagliardiscono l'animo; l'unità mondiale vi sarà, ma non già come pretendono costoro, distruggendo le nazionalità, incorporandosi insieme, o assorbite dalla preponderanza di una fra esse; ma come un individuo, associandosi co' suoi simili, viene abilitato ad uno sviluppo maggiore delle proprie facoltà, del pari, nell'associazione universale, ogni nazione, lungi dal perdere la sua individualità e l'indole propria, troverà campo piú vasto di svilupparla; e nel modo stesso che una nazione non sarà libera in tutto il significato della parola libertà, se ogni suo individuo non sente fiducia nelle proprie forze, dignità, ed uguaglianza assoluta col resto dei cittadini, cosí l'associazione universale non potrà aver luogo, se prima ogni nazione non si costituisca strettamente ne' proprî caratteri e non ci sia fra tutte che un'uguaglianza universalmente sentita. Quindi, per attuarsi la nostra fratellanza con la Francia, bisogna combatterla e vincerla, o almeno è indispensabile che, in parità di circostanze e di forze, sul medesimo campo di battaglia, contro un nemico comune, meritassimo la palma in una nobile gara di gloriose gesta.


XIV. Se per numerare i partiti in Italia ci faremmo con microscopica diligenza a discutere le minime gradazioni, e vorremmo tener conto di una turba di persone che affannosi brulicano intorno ai troni, l'impresa riuscirebbe faticosa ed ingrata. Cotestoro non sono che individui, le cui opinioni mutano al mutare degli eventi: ora veggono il re di Sardegna cacciare d'Italia stranieri, principi, papa, ed incoronarsi re d'Italia; ora promettono corone ed assicurano successi in virtú d'un credito che mai ebbero o piú non hanno; oppure distribuiscono l'Italia ai varî principi d'una dinastia, e cangiano il pensiero italiano in servitú per una schiatta principesca, e vorrebbero richiamare a vita antichi regni, coi suoi baroni, i suoi pari, i suoi prelati, e tutta la pompa del feudalismo; altri, e sono i piú abbietti, cercano un re oltr'Alpi invocando l'appoggio d'un avventuriero e degli assassini di Roma. Sono tra questi dottrinarî, paghi di esprimere moderatamente i loro pensieri, badando, come essi medesimi dicono, che la scienza non uscisse dalla sua innocenza, ovvero si riducesse ad una pura perdita di tempo; vi sono banchieri e commercianti le cui faccende prosperano, e quindi temono qualunque rivolgimento che ne ristagnasse il corso. Ma questi non sono partiti, neppur sette, sono individui, ripeto, esuli i piú, a' quali l'esilio, sorgente per la maggior parte di miserie e dolori, fruttò loro onori, considerazioni, lucri, che mai ottennero nel proprio paese. Rispettando in questa numerosa schiera i pochissimi illusi perché non vogliono darsi la pena di pensare, e perché Natura li creò d'animo poco gagliardo, spregiamo la generalità; né ci faremo a rimescolare un tal fango, le nostre riflessioni si rivolgeranno su coloro che meritano il nome di partito.
I regî bramano la guerra europea; e leggendo come casa Savoia, barcheggiando fra Austria e Francia, abbia ingrandito i suoi Stati, sperano che si possa porre ad effetto la cacciata dello straniero, e costituire un forte regno boreale arbitro de' destini italiani. Il principio loro è quello sviluppato dal Balbo, tendere all'unità col successivo ingrandimento de' varî Stati italiani. Noi teniamo bene, e l'abbiamo dimostrato, che questo successivo ingrandimento è di ostacolo all'unità: che uno Stato italiano non darà mai norma agli altri, ma accrescerà in quelli l'occulto potere ed il credito de' stranieri; abbiamo emessa distesamente la nostra opinione riguardo al significato che diamo alla parola nazionalità, epperò non possiamo riscontrare la nazionalità italiana negli abitanti della vallata del Po, retti secondo i capricci di un principe; ed in ultimo, insegnandoci la storia con severissima lezione, che le guerre regie combattute in Italia son sempre state scaturigine di miserie ed umiliazione, rispettiamo una tale opinione, ma la logica ed il cuore si ricusano a dichiararla italiana.
L'altro partito che raccoglie sotto la sua bandiera la piú ardita e generosa gioventú, è il repubblicano. Assennati da' passati disastri non han fede alcuna ne' principi, il risorgimento d'Italia, la cacciata dello straniero, la sperano dalle proprie forze, da una rivoluzione.
Si distaccano alquanto da questi un numero limitatissimo d'individui che si dicono federalisti: per gli unitarî lo scopo principale è la nazionalità, pei federalisti la libertà; quelli escludono qualunque intrusione straniera, questi accetterebbero la libertà dalla Francia, quasi che la libertà potesse riceversi in dono, e cosí federalisti ed unitarî, per soverchia esclusività ne' loro sistemi, errano, non potendo esistere, come nei precedenti capitoli abbiamo dimostrato, nazionalità senza libertà, né questa senza quella. I federalisti hanno piú chiari e recisi concetti politici, sono repubblicani di principî; gli unitarî sentono piú fortemente la dignità nazionale, ma non sono repubblicani che di forme. Quindi repubblicani unitarî, federalisti e regî sono i tre partiti che si riscontrano in Italia, ma i due ultimi aspettano l'impulso d'altronde, e son ben rari fra loro gli uomini d'azione, i piú son dottrinarî; i primi invece vanno fastosi di una schiera nobilissima di martiri e contano quaranta anni di vita operosissima. Inoltre, tanto i regî, come abbiamo detto, quanto i federalisti, appartengono quasi tutti all'Italia boreale o alla Sicilia, gli uni contenti di un regno, gli altri di una cisalpina, mentre gli unitarî abbracciano nelle loro mire l'intera penisola, dalle Alpi al Lilibeo, epperò, se non vogliasi disconoscere il vero, i soli che abbiano un carattere reciso di partito italiano sono i repubblicani unitarî. Gli avversarî accusano questo partito di debolezza e discordia, e correndo dietro una chimera, ma è forza riconoscere che sono i soli i quali si adoperano a dar corpo a cotesta chimera, senza attendere che la manna piombi dal cielo.
Dal detto possiamo conchiudere che, quantunque l'energia arricchisce l'Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta, il che dal volgo è tolto quale disgrazia, fatto studio sulle diverse opinioni, tre soli partiti abbiamo visto nettamente coloreggiarsi, de' quali due limitarsi a sperare, un solo operoso. Senza che, fra queste tre parti, che in apparenza sembrano escludersi, havvi eziandio un punto di contatto: l'odio ai stranieri; sentimento ad ogni altro prevalente in un cuore italiano. E fatta eccezione di alcuni servili, o salariati, o baroni, che ambiscono d'essere senatori, o strisciare nelle anticamere de' re, il partito regio in Italia ha un carattere affatto diverso da quello che hanno i realisti d'oltralpe; non è simpatia per la monarchia, o per una schiatta, ovvero, come dicono i Francesi, dévouement, che legali al trono, ma è il bisogno che essi sentono d'un appoggio, per la poca fiducia che hanno ne' rivolgimenti popoleschi. Del pari, le opinioni de' repubblicani, meno pochi, avvicinansi assai piú al dubbio, ovvero ad un'oscura ed incerta percezione di rapporti, che all'evidenza; son repubblicani perché convinti che i principi non vogliono né possono volere l'unità e l'indipendenza italiana ma regî e repubblicani saranno tutti con quell'insegne che prime muoveranno arditamente e lealmente contro li stranieri. Il modo adunque per discernere quale partito è il piú forte, non è, in Italia, quello di numerarlo; l'azione, indubitatamente, farà sparite i partiti, li raccoglierà sotto la medesima bandiera; ma invece bisogna studiare quale abbia maggior probabilità d'iniziativa, quale, pei principî che propugna, potrà solvere piú facilmente i tanti ostacoli che si presentano.
Nel ragionare della nazionalità abbiamo visto come lo stato presente d'Europa, le questioni che vi si agitano, l'energia italiana, le tradizioni municipali, la difficoltà dell'impresa, non rendono possibile il risorgimento italiano, che da una rivoluzione radicale e sentita, epperò l'utile delle masse sarà come un torrente che trarrà seco alla battaglia gl'Italiani d'ogni opinione.
Seguiamo ora il successivo sviluppo di queste opinioni in tutte le diverse loro fasi, facciamo studio sugli insegnamenti del passato, onde scorgere ove la forza delle cose, ovvero il fato della nazione, ci condurrà.

XV. Allorché una forza prepotente opprime un rivolgimento qualunque, nel cuore de' vinti, privati de' loro beni, sorge, a rattemprare i mali, una fervida speranza della riscossa, che lo scorrer degli anni, in luogo di rafforzare, scema e dilegua. Imperocché essendo allora il disquilibrio dell'utile e delle affezioni private grandissimo, la natura umana creasi un puntello, la speranza, e volge tutta la sua operosità alla cosa pubblica, che in que' fugacissimi momenti reassume eziandio l'utile privato, mentre in seguito l'imperiosa necessità li separa di nuovo, e l'abitudine, scemando i mali, ammorza il desiderio della riscossa.
Queste naturali ed universali disposizioni, cessata la repubblica romana, trovarono in Mazzini chi diede loro forme ed azione. Cosí surse l'associazione nazionale, poi il comitato nazionale, fatto la cui importanza lo rendono del dominio storico e meritevole di riflessione. Epperò, innanzi tutto, ci renderemo esatto conto, e sottoporremo a severa critica le dottrine che professa Mazzini, inspiratore di un tal fatto e degli avvenimenti che n'emersero.
Giuseppe Mazzini è una indole nobilissima. I suoi piaceri, i suoi godimenti si reassumono nel farsi strumento del risorgimento italiano. Sospingere gli Italiani alla conquista della loro patria fu il primo forte pensiero che balenò nella sua mente giovanile, [fu] poi la stella polare della sua vita, e sarà l'ultimo suo voto.
Se ragiona assistito dalla verità, ha logica potentissima: il suo discorso è colorito e convincente; ma se qualche pregiudizio lo trae di passo, allora declama, e ripetesi sovente, quasiché delle idee fisse, de' punti di fede, angustiassero il suo grande ingegno in picciolissimo giro.
Facile all'amicizia, generoso, inaccessabile all'odio, e coi suoi nemici personali magnanimo.
La sua temperie non è robusta, ed a niuno meglio che a lui converrebbero gli agi della vita: nondimeno, niuno piú di lui li sprezza; per esso la vita materiale non esiste.
Durante la sua laboriosa e tribolata carriera, esposto alle ingiurie ed alle persecuzioni degli uomini e de' governi, essendo privo d'appoggio in sulla terra, ha inteso il bisogno di rivolgersi al cielo, ha ricorso alla religione, e perciò ne' suoi concetti politici havvi un poco del misticismo. La religione l'ha fatto propendere un poco verso il principio d'autorità; quindi le accuse mosse contro di lui, ora di assumere un tuono dittatoriale, ora profetico, mentre la sua indole lo rende capace della [piú] pacata discussione e della piú ampia tolleranza. Quindi i suoi difetti, i suoi errori prendono tutti origine nei suoi sentimenti religiosi; se Mazzini fosse irreligioso sarebbe l'ideale del cittadino. Su lui il mondo esteriore non ha potenza di sorta alcuna, mutano i tempi, cadono e sorgono troni, ognuno in questi mutamenti cerca fortuna, o salvarsi dalla caduta, egli invece, costante ne' suoi principî, marcia attraverso le rovine, come attraverso le ricchezze, verso il fine proposto. Il sentimento interno ha sempre la prevalenza sulle impressioni esteriori. Parlerò delle sue dottrine, esporrò piú diffusamente quello di cui tante volte parlammo insieme.
Il fato di una nazione, Mazzini nol cerca ne' rapporti sociali ed internazionali d'onde scaturiscono le guerre, le conquiste, le rivoluzioni, ma abbandona la terra e lo cerca nel cielo. La legge, dice egli, è un'emanazione di dio, che impone di vivere nel vero, nel reale, nel giusto. Cotesto dovere non e, secondo lui, verso noi medesimi, ma verso l'umanità. Quindi la vita una missione a compiere, un continuo sacrificio, che necessariamente deve aspettarsi un premio o una pena, altrimenti non avrebbe scopo. Ma ove conducono questi principî?
Questo dovere, questa missione, questo sacrificio, secondo Mazzini, oggigiorno è disconosciuto. Dal che risulta un fatto che gli è forza riconoscere: il dispotismo, forza mondana e materiale, ha soffocato un'idea, una tendenza celeste, che Dio avrebbe dovuto infondere in tutti i cuori.
Per compiere la rivoluzione bisogna adoperare ogni sforzo onde far rivivere questo sentimento, questo germe divino, che trovasi in ogni cuore. Ma se la rivoluzione avvenisse quando esso sarà risorto, avverrebbe precisamente quando piú non sarebbe necessaria, giacché se ognuno, trascurando se medesimo, s'interessasse non d'altro che del bene pubblico, allora, ad onta de' despoti e de' stranieri, la nazione, pare, dovrebbe essere felicissima; senza che, despoti e stranieri, uomini anch'essi, e perciò soggetti alla potenza di tale legge, diverrebbero nostri padri affettuosi, nostri fratelli, e gli Austriaci, volontariamente, senza bruttarsi le mani di sangue, andrebbero a compiere, ne' loro paesi, la missione della vita. Tutta questa dottrina, altro non è che la sognata fratellanza del vangelo. Mazzini sfugge questa conseguenza: il despotismo, egli dice, impedisce che questa legge si trasfonda nell'umanità (tanto poco curasi Dio di propagare le sue leggi), solo pochissimi eletti, i migliori per senno e per virtú, hanno il privilegio di comprenderla, e nel tempo stesso il dovere di rovesciare gli ostacoli materiali e fare abilità ai molti di riconoscere ove si trovi il vero.
Ponghiamo caso che alla voce, all'impulso di pochi, tutti rispondessero, e la patria fusse conquistata. Cosa ne seguirebbe? Il passato avendoci insegnato quanto sia facile corrompere gli animi e cancellare da essi la percezione del vero e del giusto, bisogna che, in avvenire, s'adoperi ogni mezzo onde evitare, impedire ogni trista tendenza. D'onde emerge per necessità il governo de' migliori, i padri della patria, che terranno le anime sotto la loro tutela, che diranno al cittadino: tu hai un'anima immortale, una missione da compiere, un vincolo con quanto [ha] vita, un dovere verso tutti, un diritto all'amore ed all'aiuto di tutti. Chiunque affermasse che l'anima non è immortale; che non abbiamo missione da compiere, ma un istinto, che ci sospinge continuamente verso il nostro meglio; che, verso altrui, non abbiamo né doveri né diritti, ma vincoli di libera associazione, che il nostro personale vantaggio determina, sarebbe un eretico, meriterebbe l'ostracismo con onta, ed infamati dovrebbero essere i nomi di Beccaria, di Filangieri, di Romagnosi.
Conseguente a tali principî, Mazzini attribuisce i mali sotto cui ora geme la Francia al cattivo apostolato: e perciò l'apostolato non potrà esser libero, ma bisogna adoperarsi in ogni modo onde l'anima non venga illaqueata da' sofismi de' materialisti; indice adunque de' libri proibiti, censura, financo il rogo, per gli ostinati, se fa bisogno; eterno, inesorabile assurdo in cui cadono coloro i quali riconoscono come una necessità imporre de' limiti alla libertà.
I libri e le azioni, ripetiamolo, che risultano dalla lettura di essi, altro non sono che la manifestazione della vita sociale, ne sono i pensieri e le opere. La tirannide che cerca interdire cotesta manifestazione onde sostituirsi in sua vece, è naturale che la tema. Ma riconoscere il diritto e la sovranità della volontà nazionale, e declamare contro i cattivi libri è un grossolano errore; un popolo libero che volesse limitare la stampa, sarebbe come un individuo che per limitare i propri pensieri, le proprie azioni, mutilasse il suo essere.
L'imperatore delle Russie Alessandro I dichiarò esservi al disopra di lui il principio della giustizia, ma chi proclamava questo principio? egli medesimo; chi n'erano i custodi? i suoi satelliti. Ogni epoca annovera il suo giusto ed il suo vero: di quali, fra' tanti, parla Mazzini? Riconoscere doveri è, né può negarsi, ammettere il diritto di limitare la libertà, e questo principio, piú o meno largamente applicato, è quello su cui si fondano i moderni governi d'Europa. Voi siete liberi, vi dice la monarchia costituzionale, fin tanto che la vostra libertà non eccede i limiti dell'equo e del giusto; il fisco è incaricato di additarvi cotesti limiti.
Chiunque mi dirà: devi compiere il dovere di conquistarti la patria, assume su di me un tuono di superiorità e di comando, io nol patisco, e rispondo: chi sei tu che il dici - Dio lo vuole. - Ed io: dimostrami prima che esiste Dio, e poi dammi le prove che tu sei l'interprete della sua volontà, altrimenti, se puoi costringermi con la forza, non sei che un tiranno, nel caso contrario non posso che compatirti. Per contro, ogni individuo può farsi propugnatore de' diritti universali senza arrogarsi autorità e senza intaccare la libertà di alcuno. L'uomo nasce libero ed indipendente, dunque ha diritto all'esistenza, diritto di sviluppare ed utilizzare le proprie facoltà, diritto al pieno godimento del frutto de' suoi lavori... ecco delle verità che non hanno bisogno d'essere interpretare e svolte da' migliori per senno e per virtú; chiunque le propugna, sia egli l'ultimo o il primo per senno, sia egli cultore della virtú o del vizio, esse non perderanno mai la loro evidenza, non cesseranno mai di esser verità. Costui potrà aggiungere: - la tirannide che sostiene i privilegî è quella che vi rapisce questi diritti; abbattiamola! - ed ognuno, senza fare atto di ubbidienza, potrà afferrare un fucile e seguirlo.
La società non impone doveri, ma li crea, con promettere solamente guarentigia de' diritti d'ognuno, il che limita di fatto i diritti altrui. La dissoluzione della società conducendo per conseguenza immediata alla perdita di questi diritti, n'emerge, senza aver bisogno d'apostolato o di educazione, l'impegno, la volontà d'adoperarsi con ogni possa onde difendere questa società. Ma se questi diritti si riducono a quelli del proletario, morir di fame ed essere tratto in prigione, allora la sola forza, favorita dall'ignoranza, potrà indurre cotesti iloti a difendere quel sistema e quelle istituzioni che l'opprimono.
Questi diritti sono quelli che mantengono l'equilibrio sociale, senza esservi bisogno di governo; ma non appena questi diritti vengono lesi nella benché minima parte, il governo diventa indispensabile perché sostegno d'usurpazioni e privilegi, non di leggi eterne e naturali, che reggono da sé.
Tanti fratelli messi sotto la tutela de' migliori, è la società, la nazione sognata da Mazzini, ovvero l'attuazione del cristianesimo.
Quale teoria ha avuto un cosí lungo apostolato come l'evangelica, ed in quale epoca si è mai verificato il sogno della fratellanza? I selvaggi in mortali duelli si disputano il vitto e la donna, si sbranano l'un l'altro; in essi è la Natura che parla in tutta la sua purezza, e secondo i religiosi è Dio che manifesta le sue leggi. Le famiglie combattono fra loro. Dall'unione delle famiglie, prodotta dal bisogno di difesa, sorgono le città, le nazioni, che si conquidono, si distruggono, si asserviscono, quasi senza veruna ragione sufficiente, il piú sovente pel capriccio di un despota. Un soldato per un magro guadagno, si dà al mestiere di uccisore d'uomini che non conosce e con cui non ha astio veruno, anzi spesso vincoli di parentela e di amicizia. Il forte cerca sempre di opprimere il debole; l'astuto profitta dell'altrui semplicità; il dotto dell'altrui ignoranza. Non havvi fortuna che non si elevi sulle altrui ruine. Fratelli contro fratelli, figli contro padre s'accaneggiano, disputandosi il possesso di ricchezze che hanno usurpate al povero. Un mercante vedrebbe ad occhio asciutto cadere a migliaia i suoi simili, piuttosto che ribassare il prezzo di una sua merce. Insomma, il mondo sempre in possesso de' piú forti e de' piú astuti è la storia dell'umanità. Finalmente, i primi cristiani, i piú fanatici adoratori di Cristo, discutevano, nella Tebaide, di fratellanza e mansuetudine a colpi di pietre e di bastone. E piú tardi gli ortodossi cattolici ponevano ad effetto il dogma della fratellanza con ardere vivo chi non voleva dirsi loro fratello. L'uomo, ben lungi dal propendere a dividere il suo con altri, mai sempre scontento di quel che ha, desidera ciò ch'altri possiede, di quinci l'infaticabile operosità. Il coraggio, in qualunque epoca, in qualunque nazione, dall'uomo timido come dal valoroso, nell'assassino o nell'eroe, è sempre ammirato, di quinci le ardite imprese. Son queste le due espressioni che dan norma alla vita dell'uomo, e sono in contraddizione manifesta col dogma della fratellanza.
Un uomo, in passando, scorge un moribondo per fame, oggetto che produce in lui, in ragione della delicatezza di sua fibra, una sensazione dolorosa; a sfuggirla, soccorre l'infelice. Il domani, esaurito il magro soccorso, quello muore per fame, e questi che non è piú sotto l'impressione dolorosa del giorno innanzi, neppur pensandovi, banchetta lietamente. Un tal fatto, argomento validissimo contro l'istinto della beneficenza, è tolto dai propugnatoti di essa, dallo stesso Rousseau, come una dimostrazione favorevole, tanto scarsi sono gli argomenti che rincalzano la loro asserzione.
A' Romani ed a' Greci non venne mai in mente dirsi fratelli, e ne ammiriamo, stupefatti, l'amor di patria, gli atti generosi, il continuo prevalere dell'utile pubblico sul privato: mentre il mondo cristiano, che si disse un mondo di fratelli, presentaci il miserando spettacolo d'una solitudine di voleri e di mire, scaturigine d'ignobili fazioni e guerre civili atrocissime. Egli è adunque ben meraviglioso il pretendere rigenerare il mondo, predicando la fraternità, che dopo diciotto secoli di apostolato è rimasta infruttuosa.
L'indole umana, le sue propensioni, i suoi istinti sono inesorabilmente invariabili, e sono le forze di cui il sistema sociale deve avvalersi per produrre la pubblica felicità, la quale sarà, necessariamente, nulla, se coteste forze si combattono e si elidono perché applicate in opposta direzione, e massima se tutte cospireranno al medesimo scopo. Quindi non è l'uomo che deve educarsi, ma sono i rapporti sociali che deggiono cangiare affatto e ciò basterà per trasformare un popolo di egoisti e dissoluti in un popolo d'eroi; amor di patria e fratellanza vi sarà quando l'utile privato verrà indissolubilmente legato coll'utile pubblico, quando ognuno adoperandosi pel proprio bene, farà eziandio il bene dell'universale. Consolantissima verità, che sostituisce al lento, impossibile, assurdo sistema di educazione, quello prontissimo della rivoluzione, e che in luogo di escludere, come irriducibili, un numero considerevole d'individui, e restringere gli eletti a pochissimi, allarga in vasto campo la nostra coscienza, ed abbraccia senza eccezione di sorta l'universalità de' cittadini; il traditore, l'assassino, il ladro... tutti potranno diventare utili al paese allorché saranno sparite le cagioni del delinquere e l'utile che dal delitto traevano. Il fine è l'unità d'interesse, la fratellanza; il mezzo, la riforma completa degli ordini sociali operata con la forza.
Inoltre, sarà sempre un enigma inesplicabile, come alcuni trovino nelle pagine del vangelo l'inno delle battaglie; come il vangelo, ove è scritto: obedite principibus etiam dyscolis, racchiuda massime favorevoli alla libertà. I stranieri, i satelliti del dispotismo, sono nostri fratelli, bisogna convincerli, non già ammazzarli: quale orrore! versare il sangue fraterno!... ma questa è l'eterna contraddizione del mondo cristiano. I fiorentini dichiarando Cristo patrono della città ed armandosi contro il principe d'Orange, mentivano a loro medesimi: lungi da voi que' micidiali brandi, calpestate i fregi de' vostri cimieri, inginocchiatevi e pregate, umiliatevi al vostro nemico, il vostro regno è nel cielo, tanto piú splendido quanto piú umiliati in terra, ecco la dottrina di Cristo. Voi combattete innalzando il vessillo della croce? voi non siete che degli ipocriti e de' stolidi che non sanno quel che si fanno. Un valoroso polacco, durante la rivoluzione di Polonia, fece scrivere sul vessillo della sua legione: tutti gli uomini sono fratelli; e questa legione fu il terrore de' fratelli russi. Ebbene metterò de' guanti, rispose un soldato francese il due decembre ad un popolano che dicevagli di non bruttarsi le mani di sangue fraterno, meritato sarcasmo alla stupida ed ipocrita proposta. Allorché il popolo insorge, i soldati potrebbero fargli il medesimo rimprovero, nulla giustifica il fratricidio, è a Dio, secondo la vostra dottrina, il punire i colpevoli. Ma la digressione sulla fratellanza è già lunga e noiosa, riprendiamo il filo delle idee e continuiamo il ragionamento sul comitato nazionale.
Tutti coloro che speravano il risorgimento per mezzo delle forze della nazione e non d'altronde, applaudirono unanimemente all'installazione del comitato nazionale. Tutti rivolsero lo sguardo a questo nuovo faro; tutti fidavano nella candida fama degli uomini che lo componevano, guarentigia solenne della rettitudine di loro intenzioni. Il comitato non ebbe in suo potere alcun mezzo materiale per farsi riconoscere, anzi la minaccia di prigionia e d'esilio [vi era] contro chiunque facessegli adesione, nondimeno le adesioni furono numerosissime; prova incontrastabile di sua legittimità. Si confortarono i dubbiosi, si ravvivarono le speranze, e generale era l'aspettativa. Il comitato esordí col prestito nazionale, e comeché il risultamento non avesse corrisposto alle speranze, fu un atto logico e necessario; sarebbe stato follia sperare di piú; ottener danaro è cosa piú difficile che ottener combattenti; ed in simile circostanza trattav[asi] di sborsarli correndo rischi gravissimi. La fama de' membri del comitato prestavasi egregiamente ad ogni operazione finanziaria, come quella superiore ad ogni villano attacco che si potesse muovere in materia d'interesse.
Egli è cosa indispensabile, per determinare quale avrebbe dovuto essere la condotta del comitato nazionale, il renderci conto esatto dello stato in cui trovavasi il popolo italiano alla caduta di Roma. E poiché gli individui giudicar non si possono dalla vita monotona ed abituale a cui le circostanze li costringono, ma bensí da certi rarissimi momenti ne' quali tutta e liberamente manifestano la forza di loro temperie, cosí i popoli non dalle leggi, non da' costumi, non dall'inerzia in cui oppressi trascorrono molti anni prima di manifestare la nuova vita, ma da' tomulti, da' martirî, da' grandi misfatti, da' tratti d'eroismo, si giudicano. Epperò senza troppo distenderci, e sorvolando sugli avvenimenti, prenderemo le mosse alquanto da lungi.
Le sollevazioni di Masaniello, di Balilla, de' straccioni... avevano, come dicemmo, annunziato un nuovo popolo italiano sulla scena politica del mondo, il popolo moderno. A Cosenza si concepirono i primi forti e liberi pensieri, che poi Bruno, Campanella, Vico svolsero. Ma questi rapidi slanci furono ben tosto repressi. Le armi straniere arrestarono l'azione nel popolo ed i gesuiti spensero ogni scintilla di libertà che manifestavasi nel pensiero. L'Italia palpitò, ma i suoi palpiti furono repressi dalla barbera Europa e l'Italia, ritornata cadavere, tale si fu sino all'89.
Poco prima della rivoluzione francese, i monarchi, non ancora atterriti dallo spettro della rivoluzione, scossero tanto torpore. Tanucci, Leopoldo, l'imperatore [Giuseppe II] si diedero a migliorare la condizione de' popoli, e sursero scrittori che d'un balzo superarono gli oltremontani, ma il ruggito del popolo fecesi sentire, e le riforme ristagnarono di botto. I principi ripresero le antiche armi: la tirannide, avendo a maestra la paura, mostrossi piú atroce che mai.
La guerra tenne dietro alla rivoluzione; i principi italiani, essendosi adoperati a tutto potere a spegnere ne' popoli ogni sentimento nazionale, non potettero opporre al nemico che schiere di servi vestiti da soldati, che vennero sbaragliati al primo urto de' liberi Francesi. Vinti, atterriti, si videro costretti ad invocare quella passione medesima che prima avevano combattuto; i loro editti poco differiscono da quelli de' rivoluzionarî moderni, ed il popolo rispose al generoso invito; a Domodossola, a Pavia, a Lugo, a Verona, a Napoli, in Calabria, i stranieri cadevano sotto il brando italiano; tutte le valli dell'Alpi furono intronate dal fragore delle armi.
Profondiamo un istante la nostra riflessione, e vedremo una riproduzione de' fatti del mille. In quell'epoca il papa scosse il popolo dal letargo, gli disse di essere italiano e l'oppose all'imperatore. Il popolo, che per legge di natura, fa sempre precedere i fatti al pensiero, senza riflettere, combatté lo straniero; nel modo stesso adoperò nel '96. Al mille sursero in Italia due partiti, guelfi e ghibellini, questi, che avevano privilegî da conservare e difendere dall'avidità della teocrazia, parteggiavano per l'imperatore; quelli, che non avevano nulla da conservare, lo combattevano perché straniero; similmente nel '96, i pensatori, gli amanti di libertà, erano coi Francesi, togliendoli quai difensori di essa, il popolo, invece, che altro non vedeva in essi che invasori, osteggiavali. Al mille appena i popoli cominciarono ad avvertire ciò che avevano solamente inteso, combatterono nobili e prelati, vollero governarsi da sé, e dopo mezzo secolo, al cominciare dell'XI, il popolo era risorto. Dal '96 noi scorgeremo nel popolo italiano un continuo progresso e lo stesso cangiamento, la stessa unificazione di partiti avvenuta sul mille.
Nel 1805, ne' quattro anni seguenti, l'agitazione contro i stranieri manifestossi in diversi luoghi d'Italia, nel Polesine, nel basso Po, nelle Calabrie, a Parma, nel Tirolo, e questa volta il partito liberale, che sostiene i stranieri, piú non esiste, ne sono parteggiani non altri che gli impiegati. In tale epoca, gradatamente, la contro-rivoluzione comincia ad assumere i caratteri di rivoluzione; il '14 la trasformazione è completa. Il popolo cominciava a comprendere il bene della libertà, ed apprezzava le pretese dei liberali, questi, d'altra parte, s'erano convinti che i Francesi con pompose e mendaci parole non portavano che tirannide, e si erano ravvicinati al popolo. Murat e Beauharnais venivano assaliti dagli Italiani al nome di libertà. Gli Inglesi, i fautori del dispotismo e della schiavitú d'Italia, per acquistare le simpatie de' popoli della penisola, sbarcando a Livorno, scrivevano sulle loro bandiere libertà ed indipendenza italiana. Al '14 gli sforzi degli Italiani cominciarono ad avere unità, e la storia del nostro risorgimento comincia: lotta continua fra la giovane Italia e l'Italia ufficiale; come quella che ebbe luogo dal 1056 all'XI, fra i Comuni ed i feudatarî ed ecclesiastici. I popoli ne' loro risorgimenti seguono le stesse evoluzioni.
Ugo Foscolo, prima che Bonaparte distruggesse Venezia, giura odio a' stranieri, poi, rivolgendo un mesto sguardo all'Italia, e scorgendola priva di forze e di sentimento, dispera, ed accetta l'invasione come una crudele necessità; quindi la combatte con la parola, cospira contro di essa, e vorrebbe trarne profitto per la sua patria. La sua vita, le sue opere, le sue speranze, reassumono la vita, le opere, le speranze del popolo italiano dal '96 al '14, di cui Ugo Foscolo n'è la personificazione.
Qui cade in acconcio una degressione onde coglier cagione a combattere gl'infrancesati, e distruggere il turpe vezzo d'idoleggiare i stranieri, ed esaltarli in nostro paragone non solo, ma dichiararli nostri benefattori. Dalle continue irruzioni che han fatto i Francesi in Italia, sin dall'epoca di Carlo VIII, traggono alcuni argomento a dimostrare la loro influenza, e, trascinati dall'amor di un sistema, veggono sempre in Italia partiti che, secondo le varie epoche, si agitano a favore o contro cotesti stranieri. Una tale asserzione è assurda: la storia, durante tre secoli di guerra, ci mostra l'Italia cadavere, essa non era rappresentata che da varie corti codarde e dissolute, in Italia non v'erano che individui, popolo e partiti piú non esistevano. All'epoca della rivoluzione francese s'iniziò il nostro risorgimento, non già perché di Francia si trasfondessero in noi idee di libertà, leggi, istituzioni, come alcuni asseriscono; coteste intrusioni non furono che dannose, il regno di Napoli, ove fu maggiore, quali vantaggi ne trasse? nessuno; perdette invece le franchigie municipali di cui sempre aveva goduto. Il fragore di quella rivoluzione serví a risvegliarci dal nostro letargo e non altro, fu lo scroscio di fulmine del Vico. I Francesi altro non furono in Italia che predoni e tiranni, gli uomini che governarono l'Italia durante l'occupazione francese furono quali il Foscolo li definisce: "antichi schiavi, novelli tiranni... La regia autorità era in essi senza il coraggio e senza il genio d'esercitarla, vili cogli audaci, audaci coi vili..." I Francesi in quell'epoca ci disarmarono, perché temevano di noi; quindi ci dissero codardi, perché cosí disarmati non combattemmo i loro nemici.
Ripetiamo, senza mai credere d'averlo detto abbastanza, quale è la vantata superiorità della Francia su noi? forse perché havvi fra essa piú vasta erudizione? No, un uomo potrà essere eruditissimo, dottissimo, non perciò essere grande, esser uomo modello. La vita della Francia, dal risorgimento alla rivoluzione dell'89, altro non è che un continuo strisciare dietro lo splendore e le dissolutezze di una corte. L'89, una fazione la sospinse sul sentiero della gloria e della grandezza, ma il popolo stesso la rovesciò, e volle farsi sgabello a nuovo trono. Al 1830, padrone un'altra volta delle proprie sorti, fu suo primo pensiero crearsi un padrone. Il '48, per la terza volta nel torno brevissimo di mezzo secolo, la Francia è arbitra de' suoi destini, quali sono le sue gesta? conserva nella sua costituzione tutto l'ordito d'un governo assoluto ed affida il supremo maestrato ad un ambizioso e goffo pretendente, e suo primo pensiero è quello d'assassinare l'Italia. Finalmente l'esercito, dopo poche ore di strage proclama l'Impero, e la Francia applaude, la Francia affida i suoi figli ed i suoi tesori con codarda rassegnazione al piú ridicolo ed incapace reggimento che mai abbia usurpato trono. Non è nostro proposito ragionare dell'erudizione francese, a noi basta d'aver dimostrato che non abbiamo bisogno di cercare oltremonti le leggi magistrali della Natura, in Italia proclamate prima che altrove. Ma concediamo sotto tale riguardo qualsiasi superiorità alla Francia, essa rappresenterà un dotto la cui dottrina è al servigio del successo, de' fatti compiuti e di chi meglio paga. Il dottrinario che trovasi bene in tutte le epoche, e sotto qualunque reggimento smaltisce con guadagno la propria dottrina, è precisamente la personificazione della Francia. L'Italia invece è un colosso, cinto da catene, circondato d'armati pronti a soffocare in lui ogni palpito di vita; se il gigante svincola uno de' suoi membri sbaraglia gli oppressori, ma immediatamente tutta l'Europa corregli addosso per opprimerlo. Facciamo fine alla digressione, che i gallomani han provocata, e rispettiamo tutti i popoli, ma senza ammettere, né popoli modelli, né popoli arbitri delle sorti d'Europa. Il carattere con cui si annunzia la futura rivoluzione nol comporta. La prima nazione che senza curarsi dell'avvenire abbatterà tutto l'ordine sociale che l'opprime, estirpando fin l'ultime sue barbe, sarà la testa di colonna dell'umanità, e questo popolo potrà essere l'italiano, come il greco, come il francese, come il tedesco; e questo popolo non sarà il piú dotto, ma il meno degradato, e quello che maggiormente sente l'oppressione presente.
Le sanguinose e tristi esperienze che gli Italiani fecero dal '96 al '14 racchiudono gravissimi ed importanti ammaestramenti: i liberali sperarono ne' Francesi, e n'ebbero invece disarmo, taglie di guerra e schiavitú; sperarono bene dalla restaurazione, ma l'Austria mancando alle promesse, le loro condizioni peggiorarono. I stranieri ci chiamano codardi se fidando in loro ci sottoponiamo al loro giogo, ribelli se insorgiamo, quindi da essi non bisogna sperare che disprezzo o martirio: combatterli e vincerli è la sola risorsa che ci resta.
Dopo questi fatali disinganni l'Italia comincia a vivere nelle società segrete, che tutte vanno ad incorporarsi in quella famosissima de' carbonari, che, dal '19 al '21, fu oltre ogni credere potente. Il '20 il movimento si manifestò nel regno di Napoli, in vaste proporzioni, poi in Piemonte; venne oppresso dalle bajonette straniere. Le file de' settarî, quantunque decimate dalla paurosa tirannide, conservarono ordini e forza. I Capozzoli, generosi, che dal '20, piuttosto che inchinarsi alla ferocia del governo, battevano la campagna, si fecero iniziatori di una sommossa che, non secondata, e quasi preveduta e desiderata dal governo, fu soffocata nel sangue di numerosi cittadini e [sotto] le ruine di Bosco. Al '31 Ciro Menotti muore da eroe a Modena, Bologna sollevasi. Tutti gli occhi si rivolgono alla Francia, essa proclama il non intervento, nuova menzogna per tradire i popoli. Gli Italiani ebbero la stoltezza di credervi ed osservarono ridicolmente il patto. I bolognesi non soccorsero perciò i modenesi, e non accolsero Zucchi, incalzato da forze straniere, che disarmato.
Gli Austriaci, ad onta de' Francesi, intervennero: piú tardi intervennero eziandio i Francesi in aiuto de' primi, e, secondo loro costume, intervennero mascherandosi con bugiarde proteste.
Questi fatti furono nuovi ammaestramenti, le società segrete sono mezzi poco efficaci, esse, avvolte nel mistero, tolgono a modello il dispotismo: come questo ad un cenno muove i suoi battaglioni, aggregato di armati uniti per disciplina, per utile, e materialmente concentrati; cosí quelle vorrebbero disporre de' loro ascritti, separati non solo materialmente, ma eziandio dalle circostanze e dall'utile di ognuno. Vane speranze, son sempre pochi che muovono, la nazione rimane indifferente spettatrice. Se qualche volta trionfano, allora hanno nel loro seno il germe della dissoluzione, la gerarchia della setta, e le sue esigenze si sostituiscono al governo, in cui prevalgono le cupe e torte abitudini de' cospiratori. Il cospiratore vien costretto a simulare, e la simulazione al governo trasformasi in moderazione e diplomatici raggiri; il cospiratore è avvezzo ad infiltrare gradatamente le sue idee quasi mascherandole, mentre coloro che sono chiamati a reggere una rivoluzione debbono, a scesa di testa, apertamente proclamare i principî e dai primi istanti afferrare le ultime conseguenze, perocché ivi solo si riscontra l'utile che può convincere le moltitudini.
La Giovine Italia surse come conseguenza di tali ammaestramenti. Non fida piú ne' governi stranieri ma ne' popoli, non piú nelle società segrete ma nelle masse popolari, ad esse, e non a' capi, vuole affidare il risultamento della rivoluzione, respinge perciò ogni idea di dittatura, e sminuzza il popolo in bande. Mazzini non tace, non asconde i suoi principî, come i carbonari: Mazzini, da rivoluzionario, tuona, e fa noto all'Europa de' popoli le miserie degl'Italiani, i loro diritti, le loro speranze. Le cospirazioni cangiano carattere, i vendicatori del popolo, gli amici del popolo non hanno il mistero e le discipline de' carbonari, sono piú adattate all'epoca, ma piú esposte agli attacchi de' governi. La cospirazione del '33 è soffocata al nascere, la spedizione di Savoia, come doveva, abortí. Il '41 l'Aquila e Civita di Penne rimangono isolate. Il '43, il movimento doveva essere vasto, non scoppiò, i Bandiera, se non estranei alla cospirazione, lo erano almeno per quella regione ove sbarcarono, furono le vittime. Attraverso a tali esperienze, e sacrificando numerosi e nobili martiri, l'Italia compiva la sua propaganda, di fatti non di parole. Dietro i fatti, sempre tardi, sempre incerti sorgono i scrittori. I primi scrittori cominciarono per rinnegare le nostre tradizioni: Mario Pagano aveva già dimostrato come arti, scienze, industria, tutto emerge dalla vita politica de' popoli. Romagnosi aveva raccolto tutto lo scibile umano nella filosofia civile, la scienza del cittadino, ed essi, invece, si dissero letterati e si dichiararono estranei alla politica. "Voi siete, - diceva loro Mazzini, - prosatori, verseggiatori, pedanti, non mai cittadini". Epperò con Mazzini e Guerrazzi comincia la letteratura italiana ad assumere un nuovo carattere, ma i loro scritti in Italia sono soppressi sul nascere e la voce d'Italia non può sentirsi che fuori d'Italia. Allora i scrittori, per ottenere il favore alle loro dottrine, si rivolsero a' principi, sperando eziandio d'aver un nuovo e saldo appoggio alle loro speranze. Eglino reassumevano le passate esperienze, dichiarando nostri nemici i stranieri, impotenti le cospirazioni; di quinci le dottrine di Gioberti, di Balbo, l'Italia deve far da sé, uniamoci tutti, popoli e principi, eziandio i gesuiti, scriveva il Balbo.
I rivolgimenti del '48 ebbero precisamente questo carattere; tutto il popolo che si agita, i principi sono travolti nel turbine, ed al termine di questa nuova fase succede una nuova disfatta ed un nuovo ammaestramento. Popolo e principi hanno mire opposte: quindi diffidenza, dubbia fede, spergiuro, incapacità ne' capi, e, dopo tanti sforzi, il popolo altro non guadagnò che persecuzioni ed efferata tirannide.
A Roma o Venezia il popolo combatte solo, quasi svincolato dalle pastoie domestiche, ivi combattesi con tutta l'anima; gregarî e capi non vogliono che la vittoria, hanno unità di mire, unità d'interessi; la disfatta è egualmente ruinosa per tutti, non vi sono cagioni estranee alla causa italiana che distornano ed ammorzano l'impeto de' combattenti, non v'è nulla da conservare. Nondimeno Roma e Venezia cadono, e perché? perché angustiarono i loro sguardi fra le mura di una città, si combatté per Roma e per Venezia, non già per l'Italia. Come in Ugo Foscolo si personifica la vita del popolo italiano dal '96 al '14, in Mazzini si personifica la stessa vita sino al '48. Mazzini esordí per esser carbonaro, poi osteggiò questa setta, fondò la Giovine Italia, vinto in ogni tentativo, il '48, egli, repubblicano, fu costretto, come tutti i repubblicani, a rassegnarsi all'opinione universale. A Roma fu troppo romano.
In questi quarant'anni di storia rinviensi l'avvenire d'Italia. E se ogni Italiano appuntasse il suo intelletto sulle gloriose pagine di un tale libro, troverebbe in esso la soluzione di ogni dubbio che adombra la sua mente. Dalla vita de' nostri martiri, dalla narrazione di tutti gli sforzi fatti dagl'Italiani, scaturisce un corpo di dottrine, d'onde dovrebbero prendere le mosse i ragionamenti, e trarsi le conchiusioni che i dottrinanti, con poco senno e poco decoro, cercano altronde. In questo periodo di nostra storia, Mazzini, che vi occupa un posto glorioso, avrebbe dovuto trarre le norme per la condotta a tenersi dal comitato nazionale, ivi avrebbe trovato scritto a caratteri indelebili: i stranieri e principi [sono] nostri nemici; le sette impotenti; il municipalismo ruinoso. Non eravi che un altro passo a fare, ed egli lo avrebbe potuto studiando sui passati avvenimenti, senza farsi trarre di passo da ciò che detestava presso gli oltremontani.
La prima esaltazione rivoluzionaria creò que' battaglioni che valorosamente difesero la romana repubblica, quella ammorzata, quantunque tutti applaudissero al governo repubblicano, esso non trovava soldati. Il volgo, in un tal fatto, altro non scorge che un mal volere, una ripugnanza alla milizia, mentre esso emerge da piú lontane fonti, da piú importanti cagioni, è la quistione economica che sotto varî aspetti padroneggia l'Europa e reclama la sua supremazia; il popolo non ottenne dalla repubblica vantaggi tali da impugnare le armi a sua difesa, in esso prevaleva l'odio al passato piú che l'amore al presente. Mazzini, oltre ciò, avrebbe dovuto ridursi alla memoria la lettera che Sismondi scriveva alla Giovine Italia: "Finalmente la stessa libertà, - scriveva l'insigne pubblicista, - offre il piú tremendo di tutti i problemi, quello della protezione del povero e dell'ignorante... affiderete voi la causa del proletario agli uomini che ne dividono le privazioni? essi non hanno forza. L'affiderete quindi ai ricchi? essi saranno i primi a tradire il popolo". Questo problema Mazzini avrebbe dovuto farne il cardine principale de' suoi sforzi, della sua propaganda, svolgerlo, ventilarlo, l'adesione di molti sarebbe mancata al Comitato, ma le sue file in luogo di diradarsi, sarebbero andate sempre ingrossandosi dell'immensa moltitudine che soffre e che sola combatte.
Mazzini avrebbe dovuto essere quale fu allorché iniziata la Giovine Italia: combattere i governi, le sette, ogni specie di dittatura; richiedere tutto alle masse popolari ed aggiungervi una franca propaganda de' diritti del povero, una guerra accanita alle usurpazioni del ricco. Ma egli non ha presentito allora la morte della borghesia, la supremazia della plebe: si diresse alla prima, questa gli è venuta meno di fatto, ed egli, che credevasi isolato, ha visto sorgere spontanea la plebe e sostituirsi a quella.
Il mandato del comitato nazionale era rivoluzionario; quindi era suo principale carattere quello di escludere la guerra regia, guerra antirivoluzionaria, e già dichiarata dagli avvenimenti del '48 e '49 impotente e volta solo a spegnere l'esaltazione nazionale. Il comitato sorgeva per sostituirsi a quel trono, verso cui fugacemente s'erano rivolte le speranze d Italia; accordarsi con esso era rinnegare la propria legittimità; era assurdo, era ridicolo. Il governo sardo, volendo operare, non facevagli mestieri dell'adesione d'un comitato d'esuli residenti a Londra. Se gl'Italiani volevano seguire le sorti del Piemonte, non avrebbero certamente domandato, per farlo, l'adesione del comitato; e non volendolo, quell'adesione valeva poco. Il comitato, in luogo di farsi un organo pel cui mezzo la pubblica opinione poteva manifestarsi ed operare, pretese darle forma e carattere, se ne credette l'arbitro, e parlava come un governo costituito che offriva patti al governo sabaudo. Un tale errore fu di breve durata: il comitato, dopo poco tempo, si disdisse.
Unificare le volontà sgomberando i dubbî, avrebbe dovuto essere l'opera principale del comitato; era seconda quella di aiutare con mezzi materiali l'azione ovunque spontaneamente sorgesse. Il primo lavoro avrebbe dovuto esser quello di distruggere l'antico errore; la rivoluzione non era, e forse non è, compresa nel suo vero senso. Il prestigio di un nome superava quello delle idee; ed il nome di Mazzini aveva tanta autorità, da aggiungere grandissima forza alla verità per se medesima potente. "Italiani, - avrebbe dovuto esclamare, - in Roma, io e tutti coloro che mi circondarono, non fummo rivoluzionarî, non fummo all'altezza delle circostanze, e per legge fatale nol potevamo essere; l'Italia doveva subire l'esperienza del '48. Noi avremmo dovuto con un decreto rovesciare l'antico edifizio, proclamare i diritti che ad ognuno le leggi di Natura accordano; lasciare ai cittadini libera la scelta de' magistrati, all'esercito la scelta de' generali e degli uffiziali di ogni grado: chiamare tutta la nazione alle armi, bandire la guerra, intraprenderla con audacia; cosí operando, se il popolo secondavaci, l'Italia era salva; nel caso contrario, saremmo eziandio caduti, ma con la coscienza di aver fatto il proprio dovere. Noi invece, calcammo le orme de' passati governi, attaccati, abbiamo resistito, ecco il nostro merito. Facciamo studio su questi errori, per non incorrerci nell'avvenire".
Ben lungi dall'esserne oscurata, sarebbesi accresciuta in immenso la fama di Mazzini; invece la repubblica romana venne dichiarata repubblica modello.
Mazzini, se erra, conserva sempre la coscienza la piú pura, e le intenzioni le piú rette. Egli non tradisce mai i suoi principî, sono i suoi principî che qualche volta tradiscono lui. Egli propende a credere che gl'individui non rappresentano le nazioni, ma sono le nazioni che seguono l'impulso di pochi; e cotesto è gravissimo errore. Mi spiego piú chiaramente.
L'individuo non potendo avere idee, che non siano state generare in lui dalle impressioni che riceve dal mondo esteriore, non può mai svelare verità, il cui germe non si trovi già abbastanza sviluppato nella società. La fama immediata è retaggio di colui che afferra il concetto collettivo e lo svolge all'occhio dell'universale; o di quello che nel campo dell'azione non trae la nazione dietro di sé (cosa impossibile), ma la regge in quel cammino che la nazione medesima presceglie. La boria dell'uomo l'induce a credersi creatore di que' concetti che egli ha semplicemente svolto, inspiratore di quelle imprese che, dall'universale volontà sospinto, produsse a fine; e mentre l'uomo cosí favorevolmente giudica se stesso, ogni altro, non trovando in sé o in altri tali concetti, conferma un tale giudizio, e di quinci la personificazione de' principî, la deificazione degli uomini, mentre la società nell'onorare gli eroi, altro non fa che onorare le sue piú eccelse opere; è un artista che ammira il proprio lavoro. Quando la fama di uno scrittore è universale, e finanche il volgo comprende le sue idee, esso sarà onoratissimo, produrrà alla patria beni incommensurabili, se poi questa fama restringesi nel picciol mondo de' dotti, allora verrà dimenticato, non frutterà alcun bene, e tutto al piú lo rammenteranno ed onoreranno i posteri, e pure il secondo ha merito molto maggiore che il primo. Questi ha schiuso la via ad un germe quasi impercettibile ed ha dato un frutto tanto precoce che la società non vuol riconoscere come suo, quello ha trovato la pianta già rigogliosa e grande, ed il frutto già maturo, ha durata poca fatica a coglierlo. Secondo la teoria dei deificatori d'uomini, se Romolo, Cesare, Carlo Magno, Napoleone... non fossero nati, l'umanità non avrebbe storia. Cosí l'uomo per non riconoscere la potenza collettiva, cade nel puerile.
Gli eroi sono effetti, non causa degli avvenimenti sociali; i loro caratteri sono il complesso de' vizî, delle virtú, delle tendenze dell'epoca; la società può riconoscersi in essi, come un uomo nell'imagine che ai restringe nel breve cerchio dello specchio di una picciol lente. Un popolo che vi addita come suoi duci i Scipioni, gli Attilî, i Cincinnati... è un popolo libero, la gloria e la grandezza della patria ne sono le passioni predominanti... Se, per contro, sono i Cesari che primeggiano, potete inferirne che la nazione inchinasi allo splendore guerresco ed alla forza; se volontariamente lasciasi reggere da uomini inetti e corrotti, la nazione declina. Facciamo fine alla digressione, per ritornare al comitato.
Il concetto, non solo il finale, ma le prime linee dell'avvenire, mancavano in Italia; le questioni di unità e federazioni pendevano incerte, né sono ancora risolte: per unità s'intende la francese; per federazione quella adottata nell'Elvezia o in America. L'opinione prevalente, senza dubbio, è l'unitaria, ma i fatti danno ragione a' federalisti; nei passati rivolgimenti, fu impossibile tradurre in atto il concetto: Roma, Firenze, Genova, Venezia, Palermo furono libere, e ad onta de' sforzi fatti dal partito unitario, non si unirono. Il modo come operare ne' primi istanti d'un'insurrezione incertissimo, gli Italiani, vittoriosi in una città, non sanno come governarsi, non sanno quale sia il prossimo avvenimento che li attende, di quinci la deificazione de' nomi: insorgiamo, concediamo al tale tutti i poteri, ed egli penserà al resto. Strana e ruinosa aberrazione è questa, rinunziasi alla libertà con tanti sacrifizî acquistata, s'ammorza l'esaltazione; e noi che manchiamo di un prossimo e splendido passato, epperò manchiamo d'uomini, fondiamo sugli uomini il nostro avvenire!!!... questi dubbî, questi errori, in luogo di venir rimossi con un esteso lavoro di propaganda, il comitato nazionale li confermò.
La propaganda rivoluzionaria in Italia, pel numero de' nemici, per le varie divisioni politiche, per le sentite e numerose tradizioni municipali, è lavoro difficoltosissimo, che solo la potente voce della nazione può compiere. E questa voce solenne viene espressa da ogni italiano, che parla, scrive, opera come meglio crede, in un campo libero e non già angustiato o dalle tiranniche esigenze de' governi o delle sette. Dalle discordi voci, dalle tante idee che si manifestano emerge il concetto collettivo, che unifica le tante volontà, latente sino all'istante dell'azione, i fatti che si svolgono lo manifestano. Tanto il federalista, quanto l'unitario che propugnano le loro dottrine, hanno uguale diritto alla gratitudine della patria, perché entrambi, in manifestando i pregî ed i difetti de' due sistemi, lumeggiano l'argomento, ed entrambi sono sotto l'ampio vessillo della rivoluzione che il comitato avrebbe dovuto inalberare.
Egli, elevandosi al disopra di tutte le opinioni, avrebbe dovuto essere sua missione il facilitare cotesta propaganda, che sorge spontanea fra i cittadini, facendo abilità ad ogni scritto rivoluzionario, senza prediligere una dottrina piuttosto che un'altra, di circolare nell'interno. Il comitato non avrebbe dovuto credersi un governo, aggiunto a' tanti altri che opprimono l'Italia, ma un mezzo come eludere la vigilanza di essi e scrollarne l'autorità; non crear ceppi ma rompere gli esistenti; non chieder silenzio, ma libertà di dire, non fare né dire, ma lasciar fare e lasciar dire; non governare ma rivoluzionare. Il comitato volle imperare; la sua formula fu tacete e fate; avrebbe dovuto essere: FATE e dite come meglio credete.
Le città d'Italia, varie d'indole e di tradizione, e variamente oppresse, non possono astringersi ad unico organamento, né da un sol centro dipendere, ma solo riceverne aiuto. Il popolo che in varie foggie vede sorgere i patiboli e cadere le vittime, è solo giudice del come i cittadini debbano tra loro intendersi ed a quali uomini debbano fidarsi. Il comitato volle tutto accentrare nelle sue mani, e che tutti muovessero ad un suo cenno.
L'intolleranza, nelle opinioni, crebbe a tale che il comitato toscano escluse pubblicamente dalle sue file coloro i quali non erano unitarî, dicendosi abbastanza forte, e mostrandosi quale fazione dominante in Italia; ingenua confessione della piú assoluta mancanza d'idee pratiche.
Fu concetto de' carbonari, ed allora era idea comunemente accetta, liberata l'Italia, conservare, per un certo tempo, una dittatura educatrice; ora le opinioni son cangiate, non si fa guerra ai governanti ma al governo, al principio d'autorità: ed intanto Mazzini, il fondatore della Giovine Italia, che avea combattuta la dittatura in quell'epoca, se ne fece, al giorno d'oggi, il propugnatore. Dittatura, dice il Mazzini, che preparerebbe: l'educazione iniziatrice; con la stampa ordinata ad un fine; con l'associazione pubblica concentrata ad una sola bandiera; con l'esercizio delle facoltà elettorali fin dove è possibile ai militi. E non è forse questo il principio su [cui] fondasi il dispotismo, che non dice: voi dovete essere schiavi, ma ammette la necessità di ordinare e limitate la libertà? Non anarchia, continua Mazzini, non tentativo di sovvertimento delle condizioni sociali, predicazioni inconsiderate di sistemi stranieri, esclusivi, imperfetti, tirannici. Quindi la censura, la persecuzione, lo spionaggio per conoscere se alcuno secretamente si facesse l'apostolo di tali sistemi, erano le conseguenze immediate di coteste massime. Egli è certo che scrivendo queste parole soggiacque ad un momento d'aberrazione. E chi sei tu, può rispondergli ogni Italiano, che pretendi proibirmi di propugnare tali sistemi? D'onde trai il convincimento che fosse questa la volontà della nazione? se questi sistemi son contrarî al voto pubblico, essi saranno respinti, io, italiano quanto te, opino diversamente, e quale altro giudice se non l'universale volontà ed il fatto, può decidere la nostra contesa? Tu dici che la nazione in ceppi non può esprimere la sua volontà, ed ammesso questo, come puoi asserire che il tuo e non già il mio sia il concetto nazionale? E poniamo caso che l'Italia risorga, che, trascurando la sustanza delle cose ed attenendosi alle forme, ti conceda assoluti poteri, e col potere la forza, tu mi costringerai a tacere, ma non perciò avrai ragione, ne avrai tanto quanto ne ha Bonaparte contro i socialisti di Francia. È vano il dire, la nazione mi ha concessa la forza: tutti i tiranni possono dirlo, allorché non reggono in virtú di forze straniere. Furono francesi quelli che compirono il colpo di Stato, francesi quelli che votarono, e se la Francia non volesse davvero, potrebbe reggere Bonaparte sul trono? Nel potere a te, o a chiunque altro concesso, io non vedrei, se questo potere restringe la mia libertà individuale, che il momentaneo trionfo d'una tirannica fazione. Come adunque decidere la quistione? Se dal primo istante che in un angolo qualunque della terra italiana cesserà il presente stato di cose, avremo tutti piena libertà di dire e nessuno la forza per porre altrui il bavaglio, e la nazione accetterà le tue e non già le mie idee, allora io ti darò ragione. Ma finché tal prova non sia fatta, chiunque vorrà imporre una sua idea, dicendo: "cosí vuole il paese", se ha forza materiale non è che un tiranno. La tirannide, la semi-tirannide, o qualsiasi specie di governo, esprimendo sempre la prepotenza di una parte piú o meno numerosa della Nazione, deve, per sua natura, temere la manifestazione dell'universale volontà, essendo dessa che l'osteggia e tenta indefessa di sostituire la sovranità del tutto all'usurpazione della parte. Ma bandire la sovranità del popolo e limitare la manifestazione del pensiero, è un chiedere la luce con favorire le tenebre. Le opere ed i pensieri di una società non possono mai minacciare l'esistenza di essa società, ma tendono sempre d'assettarla ne' suoi incastri, e contrastano a tutto ciò che vuole spostarnela e mantenerla in un equilibrio che non gli è naturale.
Conchiudiamo, al comitato nazionale è avvenuto quello che ad ogni governo, a cui non sia tronca affatto la possibilità di usurpare, avviene. Per istinto invariabile dell'umana natura, gli uomini che lo compongono cercano farsi centro d'attrazione di quanto succede, e sempre, comecché spesso con rettissimi fini, pretendono che tutto pieghi alla loro volontà; eglino praticano e non dicono ciò che il XIV Luigi diceva e praticava: "lo Stato sono io". Il comitato fece solitudine intorno a sé, allontanandosene tutti coloro che non volevano abdicare alla ragione e credevano assurdo e ruinoso errore il rinunziare alla libertà per conquistarla. La stampa che rappresentava il partito, in luogo di richiamarlo con severa critica sul diritto sentiero, sacro debito d'Italiano, credette migliore tattica adularlo. Disconobbe cosí la propria missione, e prese norma da' scrittori ministeriali, i quali, in luogo di correggere, lodano a cielo gli atti del governo. I pochi utili atti, che un governo o un centro qualunque può compiere, portano scritta in fronte la loro apologia; sono innumerevoli i dannosi che la stampa debba energicamente attaccare. Ogni governo, ogni centro, a cui per necessità viene concesso un potere superiore a quello che per loro medesimi avrebbero gli individui che lo compongono, è un'ulcera che tende a spandersi sulla società se la pubblica opinione non ne arresta il progresso.
Intanto se, scorgendo gli Italiani uniti a rovesciare la monarchia, adottarne i principî, le forme, i costumi, bisognava conchiudere che la rivoluzione non era compresa; nella guisa stessa, scorgendo come il comitato cessò, perché successivamente gli vennero meno tutti gli appoggi, se ne inferisce che vi è stato progresso significante nelle idee. Come il cristianesmo è sceso nel sepolcro co' panni da filosofo di cui l'han vestito Gioberti e Rosmini... del pari il comitato nazionale, speriamolo almeno, è stata l'ultima prova del principio monarchico, che, trasformandosi in mille forme, mascherandosi con varî nomi, si è spento con quello di comitato rivoluzionario.
Pongo fine a questo capitolo consacrandone a Mazzini gli ultimi versi. Ho fatto tacere ogni simpatia personale, e com'era mio debito, l'ho severamente giudicato. Ora mi sarà caro il dire, che il suo nome, ad onta della mia censura, avrà sempre meritate e splendide pagine nella nostra storia. Niuno, durante l'intera vita, ha operato con fini piú retti, niuno ha rivolto, con maggior costanza, tutti i pensieri e tutte le opere ad un solo fine, cosí grandioso come è quello del risorgimento italiano, una tale idea ha inspirato la sua giovinezza e ne ha assorbito ogni affetto. Nella storia antica e moderna non si riscontra un uomo che abbia sacrificato tutto l'utile privato ad un utile pubblico sperato. Cotesto tipo di un uomo, di cui tutti i pensieri e gli affetti si reassumono indefessi e costanti nell'amore alla patria, è frutto di terra italiana, è una gloria di piú da aggiungersi alle tante che noi contiamo.


XVI. Il comitato italiano cessato, gl'Italiani ondeggiarono nell'incertezza: era un sistema crollato perché venuto meno il punto d'appoggio. Surse in alcuni l'idea di ricostituire un nuovo centro, fortuna che non si rinvennero uomini che avessero raccolti i suffragî universali, altrimenti sarebbesi ricaduti nel fatale errore per cui tutte le rivoluzioni riescono infruttuose: cangiare gli uomini ritenendo i principî.
Il piú grande amatore di libertà, non appena assume il potere, se non è uomo dappoco, vuole che tutto pieghi alla sua volontà; epperciò il nuovo centro, come il caduto, avrebbe personificato in se medesimo la patria, dichiarando ambiziosi e corrotti coloro che si fossero opposti alle sue mire. Il comitato aveva fatto un gran bene, aveva incarnato il convincimento negli Italiani, di sperare la loro salvezza dalla cospirazione e dalle proprie forze; aveva poi prodotto un gran male, quello di dare alle cospirazioni un carattere passivo, che, invece di operare da sé, aspettavano sempre e l'imbeccata e gli ordini d'altronde. Per determinare il modo come governarsi in tale bisogna, è d'uopo esaminare come operano queste forze latenti che si nascondono nel seno di un popolo, e che in alcuni giorni fatali si manifestano terribili.
Le nazioni funzionano come l'individuo, che prima avverte appena, poi con turbamento, quindi riflette, in ultimo opera. Ma sovente il dolore troppo vivo precipita l'uomo dal turbamento all'azione senza dargli campo a riflettere, mentre altre volte, i stimoli essendo leggieri, ne prolungano oltre il bisogno, la riflessione. Nella guisa medesima, in una nazione ove godesi una certa libertà di pensiero, ed ove i mali sono leggieri, si svolgono fra un importuno cicalío molte dottrine; per contro, ove forti sono i dolori ed interdetto il pensiero, i fatti abbondano e quasi sempre precedono le parole. Da ciò s'inferisce quanto sia assurdo il voler decidere se una nazione debba ragionare o combattere; è lo stesso che pretendere di voler regolare secondo la propria volontà il moto degli elementi.
Le idee, i ragionamenti, le dottrine politiche-sociali, non sono che lo studio dei mali che opprimono la società e la ricerca dei modi come lenire questi mali. Secondo le circostanze e l'ingegno dell'autore, piú o meno inclinato all'astrazione, le dottrine si allontanano o si avvicinano alla pratica. Vico dai mali che opprimevano la sua patria fu mosso a cercarvi un rimedio, e non potendo appigliarsi agli immediati e pratici perché l'epoca glielo avrebbe interdetto, e la natura del suo ingegno nol comportava, e' si elevò ad altissime regioni e l'animo suo acchetossi, trovando che una legge e non il caso reggeva i destini dell'umanità; legge ch'egli la nominò provvidenza, e determinò [cosí] la periferia di quel circolo su cui le nazioni dovevano compiere il loro giro. Mentre Vico rivela un fatto che riconosceranno sempre con maggiore evidenza le future generazioni, vi sarà altri d'animo rimesso e d'ingegno pedestre, che, stimolato dai medesimi moventi, dopo lunghi ragionamenti, chiederà il cangiamento d'un ministro o qualche insignificante concessione, fra questi due estremi trovasi tutta la diversa gradazione dei scrittori. Or dunque, scrittori le cui idee potranno giovare alla costituzione sociale non potranno esistere senza mali sociali. Oltrecché fra placidi affetti e deboli passioni è assai raro che si formino, in tale materia, grandiose idee ed ardite verità, l'operosità umana manca di stimoli sufficienti; durante la tempesta, e non già durante la calma, il pilota manifesta la sua abilità. Quei scrittori medesimi che ora imprecano contro le insurrezioni, senza le tempeste del '48 e '49 sarebbero un nulla, sarebbero rimasti ai Prolegomeni di Gioberti. Epperò, ammettere il facile e lento progresso fra il continuo prosperare della società, è un pretendere l'effetto senza la causa.
Come i mali sociali fanno sorgere i scrittori, i medesimi mali producono le sette, le congiure, le insurrezioni; la gradazione che scorgesi fra i scrittori, si osserva eziandio fra i congiuratori stimolati dai medesimi moventi: havvi congiura per conquistare una patria libera, l'altra per l'abolizione di una tassa. Cosí procedono le nazioni col pensiero e con le opere, e siccome l'uomo compie i piú grandi fatti quando esegue energicamente ciò che maturamente ha pensato, cosí le nazioni sono mature, toccano quasi la meta alla quale aspirano, allorché i scrittori ed i congiuratori tendono al medesimo fine. Quale è in questo svolgersi delle umane vicende l'opera ed il dovere del rivoluzionario? Con la penna trattare tutte le quistioni che conducono al fine bramato; con la congiura far cospirare l'azione al medesimo fine; e cercare di legare strettamente il pensiero e l'azione. Dire fucili e non libri è un errore, come il dire libri e non fucili.
Abbiamo già detto come una sequela non interrotta di fatti, dal '14 al giorno d'oggi, sono le varie esperienze attraverso le quali ha proceduto il popolo italiano. Da queste esperienze, e non già dai libri, risulta la coscienza nazionale. Ma questa coscienza ove si manifesta, nei scrittori o nei congiuratori? indubbiamente nei secondi. Cotesta coscienza, cotesto sentimento è vago nella generalità, in pochissimi è reciso, esso per conseguenza è soggetto a vacillare sotto l'impressione dei fatti; gli avvenimenti che si succedono, mostrano l'avvenire sotto tanti diversi aspetti sempre erronei; come i gruppi dei monti, i quali sembrano cangiare la loro dispositura al cangiare del sito dell'osservatore; quindi quel mutare continuo delle opinioni. Una nota diplomatica, le parole di un ministro, la morte di un principe possono dar cagione ad una quantità di opuscoli; sono essi l'espressione della coscienza nazionale? No. Ma mutano la coscienza nazionale piú o meno modificata da tale avvenimento, secondo la gagliardia d'animo di chi scrive. La cospirazione per contro non prende le mosse da tali avvenimenti, ma molto piú da lungi, le sue aspirazioni e le sue forze non le cerca in ciò che mostrasi sulla società, ma in quei sentimenti, in quelle aspirazioni occulte non solo, ma osteggiate; inoltre la congiura richiede fermezza di proposito e gagliardia d'animo piú dello scrivere, quindi tutte le circostanze concorrono a mantenere salda cotesta coscienza nazionale piú nel cospiratore che nell'autore, epperò le aspirazioni di quello sono prove piú evidenti che le ragioni di questo.
Quanti libri, discordi fra loro, sonosi stampati in Italia dal '49 al giorno d'oggi? Chi vuole l'Italia una; chi il regno boreale; chi due Italie; chi spera tutto dalla Francia; chi tutto dal Piemonte; quale sarebbe adunque la coscienza nazionale? impossibile a dirlo. Ma osservate le cospirazioni, le congiure, i martiri tutti indistintamente, ed in tutte le epoche hanno accennato al medesimo scopo: Italia una e libera; e quindi è forza inferirne che, ad onta dei colpi di Stato, dei protocolli, dei memorandum, la coscienza nazionale è rimasta salda. Sarebbe stoltezza attribuire al solo Mazzini, ispiratore della maggior parte di questi tentativi, tale fermezza di proposito. Mazzini non avrebbe potuto trovare mai tante braccia pronte ai suoi voleri; egli, cessato il comitato, ritornò ad esser semplice cittadino, e, come tale, fece molto piú bene di quello che non aveva fatto come membro del comitato; la sua operosità, la sua fortuna, il suo credito personale fu messo al servizio di coloro che volevano tentare di salvare la patria; forse avrebbe potuto accettare con piú riserva, o rifiutare certi progetti che non promettevano riuscita, ma da questo picciolissimo torto all'accusa stolta di mandare la gente al macello havvi un abisso. Egli avrebbe dovuto, a parer mio, scegliere una sola regione d'Italia, ed evidentemente il mezzogiorno, e su quella accentrare tutti i mezzi di cui disponeva. Invece preferí farsi centro universale a cui ricorrevano tutti coloro che volevano trarre in atto un pensiero generoso, cosí governandosi, forse, avrà ritardato una rivoluzione; e se avesse negato agli operosi i suoi soccorsi, cosa non facile per chi sente sviscerato amore di patria, avrebbe risparmiato qualche vittima, ma non perciò il bene che egli ha fatto può disconoscersi.
Poniamo il caso che non fosse esistito il comitato nazionale, né le sue vicende, né Mazzini, o altri come lui che avesse continuamente fomentato le cospirazioni e le congiure; e che in Italia, secondo avrebbero voluto i dottrinanti, niuno avesse pensato a muovere, chi parlerebbe d'Italia? Forse l'Austria, rassicurata dello spirito pacifico delle sue popolazioni, avrebbe imposto al Piemonte delle restrizioni alle sue libertà; ed il Piemonte stesso, in una tranquillità generale, non avrebbe inteso il bisogno di mostrarsi ostile all'Austria. Su che si fondavano le ragioni addotte al congresso di Parigi, per chiedere riforme? sugli articoli di giornali e sui libri stampati in Italia, o sulle vittime, sui condannati, sui processi continui, che sono poi l'effetto delle congiure, di quella resistenza organizzata in Italia? Ed a quale partito è dovuta la presente agitazione in Inghilterra in favore d'Italia? Ai dottrinanti o ai congiuratori? Ripetiamolo, sono i fatti e non le dottrine che manifestano la vita della nazione.
Una nazione, ripeteranno i dottrinanti, che insorge senza un concetto politico reciso, ricade nella schiavitú. D'accordo in questo. Ma questo concetto politico non si forma né diventa popolare coi libri, ma coi fatti; i rivolgimenti del '48 falliti sono quelli che hanno convinto gli Italiani di non aver fede nei principi, perché casta la quale ha degl'interessi affatto staccati dal popolo; e, come nel '48 coloro i quali dimostravano questa verità non erano ascoltati, anzi maledetti, cosí in un nuovo rivolgimento rimarranno delusi coloro che vorrebbero rifare il '48. Il popolo progredisce nelle sue idee, ma i soli fatti lo balzano da un concetto in un altro.
Se dai libri dipendesse il progresso di una nazione, i scrittori sarebbero gli arbitri delle sorti dell'umanità. Invece sono gli uomini d'azione che imperano; e tutti gli usurpatori, da Cesare a Bonaparte, han sempre trovato un grandissimo appoggio nella coscienza nazionale, di cui quasi potevano dirsi i rappresentanti secondo i mezzi piú o meno violenti, piú o meno obliqui con cui hanno raggiunto il fine.
Quale scrittore in buona fede può affermare che la plebe, che non sa leggere, educasi coi libri? Non parliamo di coloro che sotto il dispotismo pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno, che vale il dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a correre; o altri che, vedendo un popolo corrotto, pretendono renderlo morale, non già sbarbicando ogni germe di corruzione, ma proponendo un reggimento fondato precisamente su di un sistema corruttore; ma di quelli i quali credono possibile, a furia di scritti, spandere le idee rivoluzionarie.
La plebe non è dorata di quelle eroiche qualità che alcuni gli attribuiscono, la plebe sovente, traviata dai pregiudizî, ed angustiata la mente dall'ignoranza, ondeggia fra la temerità e l'abbiettezza. Stimolata dai materiali bisogni, la loro mente non può elevarsi a pensieri sublimi, ma se tra loro uno giunge ad appuntare l'intelletto sulle quistioni politiche che agitano il paese, quasi per istinto ragiona con maggiore esattezza che il migliore fra i scrittori; imperocché tutte le impressioni che il mondo ufficiale, che l'ordinamento sociale produce sulle altre classi della società, non han presa, non hanno ascendente sull'uomo del popolo; egli non è stimolato che da' mali, quindi, svincolato da tutti quei legami che lo incatenano allo stato presente delle cose; oggi non vede che male; ragionando, riconosce senza fatica dove è il bene. Ma coloro i quali non sentono il bisogno di migliorare, ed anzi temono che una scossa improvvisa li balzi fuori da quella nicchia ove godono, se non altro, l'inerzia, amano ragionare dell'avvenire, ma vorrebbero placidamente raggiungerlo, non rischiare per esso se non altro il placido presente; di quinci l'innumerevole schiera dei conservatori, degli eroi da poltrona flagellati dal Giusti.
Tutti gli sforzi che vuol sospingere un popolo al risorgimento debbono consistere a svolgere e rendere popolati le idee, adattandole alla loro intelligenza e traendone quelle conseguenze che debbono condurre ad un utile materiale immediato, onde siano sempre fomite maggiore alle passioni che debbono, essenzialmente, esistere nel popolo. Il rivoluzionario dev'essere apostolo e cospiratore.
"La passione, - scrive Beccaria, - è un'impressione sempre costante della sensibilità nostra, tutta rivolta ad un medesimo oggetto; essa è un desiderio di ottenere o di fuggire qualche cosa che sempre si riproduce, ed è sempre riprodotta nella nostra mente quasi ad ogni circostanza". Quindi perché un desiderio si trasformi in passione, fa d'uopo che vi sia mancanza e percezione della cosa desiderata, il che troveremo verificarsi nel minuto popolo, se ci facciamo a riflettere sul suo stato. La mancanza è la miseria in cui esso geme, una vita piú agiata è la cosa desiderata e percepita; e siccome la mancanza del necessario è continua, continuo eziandio è il dolore ed il desiderio del benessere venendo perciò riprodotto ad ogni istante di sua vita; le passioni esistono e non resta che giovarsene eccitandole e dirigendole ad un giusto fine. L'impossibilità di conquistare il desiderato benessere le ammorza, la mancanza d'un obbietto determinato le svia dal diritto sentiero, e perciò [quelli de] il popolo, o adagiandosi ne' difetti si rassegnano, oppure con la forza e con la frode tentano rapire ad altri quello che essi agognano e corrono cercando l'agiatezza, dall'ignoranza sospinti, al patibolo. Scuotiamo adunque gli addormentati ed ai sviati mostriamo il cammino. Se il despotismo promettegli come premio di loro rassegnazione beni celesti, il rivoluzionario, con la spada della vendetta e la bilancia della giustizia, dovrà promettergli beni terreni ed immediati, additandogli il modo come conquistarli. Esploriamo ogni sua piaga, richiamiamo su di essa la sua attenzione, ed additiamo un solo mezzo come rimedio, la conquista della patria, ma non già di un pomposo nome e di vani diritti, ma la conquista del suolo della nazione e di quanti prodotti vi esistono. Ognuno diventi un Socrate, in piazza, ne' trivii, al deschetto del ciabattino, al pancone del falegname, si faccia ad interrogare quelle rozze menti, e le conduca passo per passo alla scoverta della verità. Io sono simile a mia madre, diceva Socrate, figlio di una levatrice, non creo nulla, ma aiuto gli altri a produrre. È questo il solo mezzo di rischiarare, in parte, la mente del popolo, di educarlo, e non già tenendolo a forza nelle scuole, o stampando libri che esso non legge. E questo mezzo medesimo di propaganda volgare, ed adatto alla sua intelligenza, e che trae argomento dai suoi piú pressanti bisogni, neppur è bastante a conseguire lo scopo desiderato.
La plebe non si lascia convincere che da' fatti, ma la propaganda di cui discorremmo elabora, fra un numero significante di giovani, la conoscenza de' diritti che ad ogni uomo accorda la Natura; e cotesti giovani, appena il popolo, sotto la sferza del dolore, si precipita nel moto, e dubbioso non sa ove dirigere gli attacchi e come colorire i desiderî, facendosi tutti oratori di circostanza dureranno pochissima fatica a far loro comprendere quello che in un secolo di calma ed in mille volumi non avrebbero mai appreso da' dottrinarî. Non già la profonda dottrina richiedesi in cotesti oratori, ma forza di carattere che non li faccia retrocedere in faccia alle conseguenze ignote de' principî da essi propugnati; guai se essi si accostano alla spregevole schiera de' cosiddetti moderati, che si atteggiano da rivoluzionarî, da riformatori, da amici de' popoli, perché si fanno a sostenere alcune franchigie che servono a riempire le loro casse e soddisfare la loro bassa e puerile vanità. Il rivoluzionario di buona fede sospinge lo sguardo sulle moltitudini, e non mira che al trionfo della vera democrazia, discendere alla benché minima transazione è un rinnegare la rivoluzione; come la minuta polve che il turbo solleva, o poggiasi sulla corona de' re e sulle eccelse torri, oppure ricade sotto i piedi de' passanti, cosí il minuto popolo o acquista pieni ed interi i suoi diritti, o ritorna turba di vilissimi servi derisi con pomposi nomi. Quando non mirasi al trionfo d'una setta o di una classe di cittadini, il mezzo termine, qualunque caso sia, tronca i nervi della rivoluzione e l'uccide.
Finalmente a' spiriti rimessi e timidi, a cui è spavento l'assoluta libertà, e chiedono programmi e norme, risponderemo che il programma già esiste. Siete voi rivoluzionari? mirate al trionfo della vera democrazia? in tal caso per voi non può esservene altro che gli aforismi di cui ragionammo nel terzo capitolo. Se pretendete limitarne, nella benché minima parte, il significato, cesserete d'essere rivoluzionarî, non sarete che opportunisti o faziosi.


XVII. Fatto studio sul modo come la nazione elabora le idee ed opera onde prorompere all'azione, è mestieri segnarne, supposto iniziato il moto, le prime orme. I principî da cui bisogna prender norma, son que' medesimi accettati da' rivoluzionarî, quindi ognuno altro non dovrà fare che mostrarsi consentaneo a se medesimo, e respingere qualunque misura, comunque temporanea, che li leda nella benché minima parte. Da tale base prenderemo le mosse, e ci faremo a distendere un tale argomento.
La piú importante quistione a risolversi, è il determinare il potere che dovrà reggere quella parte d'Italia che prima sarà sgombera da' nemici, e quindi man mano l'Italia tutta sino al termine della guerra.
La sovranità del popolo, che tutti bandiscono, a cui tutti aspirano, è, nel governo, la sostituzione del concetto collettivo all'individuale. Il concetto collettivo emerge dallo stato di progresso della nazione, costituito da' svariatissimi rapporti sociali. Chi parlasse di libertà a gente che avesse servo il cuore, non sarebbe compreso, i suoi sforzi tornerebbero vani; come a gente di spiriti liberi farebbe schifo il linguaggio di uno schiavo. Il concetto della nazione è fatale, esso è il solo giusto ed il solo possibile, esso sarà indubitamente, l'arbitro delle nostre sorti, lasciamo adunque che si manifesti liberamente; il pretendere di mutarlo è vano. Diremo solo che un popolo, il quale per esser libero vuol esser dominato, o erra o non è degno di libertà, e tanto nell'uno quanto nell'altro caso non sarà mai libero, e piú che ogni altro popolo l'italiano, perché maggiori ostacoli si frappongono al suo risorgimento, e per superarli gli fa d'uopo libertà maggiore.
La dittatura deve esser potente, se non è tale non è dittatura. Essendo scopo di un tal maestrato il far prevalere la propria volontà a quella dell'intera nazione, bisogna che i capi dell'esercito e tutti i pubblici funzionarî siano di sua scelta; gli è mestieri d'una polizia onde spiare i passi ed i pensieri de' cospiratori, de' ribelli, immancabili, perocché essi sono alla dittatura come l'ombra ai corpi; e dovendo rivolgere in suo favore l'opinione pubblica, deve, per conseguenza, spiare i pensieri di ognuno; ed infine dovrà possedere a sua tutela una potente forza materiale. Un tale governo sarà divenuto ancora piú solido per le ottenute vittorie; e quando l'epoca della sua missione sarà compita, chi potrà imporgli di cedere il posto alla costituente? e cosí la libertà conquistata a prezzo di tante vittime, di tanti sacrifizî, sarà in balía di uno o piú individui, dalla cui buona fede dipenderà la sorte della nazione.
Ma chi ignora quanto sia facile che nella mente de' dittatori sorga l'idea che essi siano necessari all'Italia, che abbiano una missione da compiere? Se tale idea diventa sentimento, eglino trucideranno e si lasceranno trucidare prima di abbandonare il seggio dittatoriale. L'amore stesso del paese, e la natura umana generano un tal sentimento, ognuno credendo le proprie idee le migliori, crederà fare il bene della patria costringendola ad accettarle. Chiunque è al potere (esclusi que' tiranni che per salvezza personale cercano tutto colpire perché di tutto temono) crede, in ogni suo atto, fare cosa utile o almeno necessaria al paese. Nel 1494 i fiorentini cacciarono i principi, e per porre rimedio a' tanti mali da cui erano gravati, confidarono pieni poteri a coloro che credevano atti a governarli, ma ad onta del continuo cangiar di governanti e di scegliere coloro i quali con maggior veemenza declamavano contro cotesti mali, andarono sempre da male in peggio, di quinci l'adagio italiano: costoro hanno un'anima in piazza ed un'altra in palazzo. E pure, il torto non era di coloro che erano assunti al potere, un uomo non può cangiare mai totalmente i rapporti stabiliti dal lungo lavoro de' secoli, solo una rivoluzione può farlo: i Fiorentini avevano nelle loro mani il modo di sciogliere il problema, dichiarandosi e rendendosi di fatto liberi ed uguali, la nazione poteva solo far ciò e non mai un individuo; i mali scaturivano da un sol fatto, pochi straordinariamente ricchi, moltissimi mendichi, né vi erano governanti che avrebbero potuto far sparire tale mostruosità.
Ogni cittadino ha il diritto di proporre leggi e riforme, ma chiunque - abbiate fede in me, affidatemi il potere, ed io vi renderò liberi e felici -, costui non merita neanche di essere ascoltato. Libertà ed uguaglianza sono i cardini su cui deve poggiare l'umana felicità, tutte le leggi che favoriscono questi principî ottime, quelle che tendono a limitarle pessime; la fede negli individui spalanca alla nazione l'abisso, imperocché la fede senza convincimento turba l'uguaglianza.
"L'autorità libera nel potere, limitata nel tempo, - scrive il Machiavelli, - è pericolosissima, perocché nell'uomo nasce brama di perpetuarla, né gli mancano i mezzi; ma questi non essendo dati dalla legge a quel fine al quale egli l'indirizza, debbono per necessità diventar tirannici". Ammettiamo che in Italia vi siano uomini di una tempera diversa che tutti gli altri, e che, debellati i nemici, educati tutti noi a libertà, eglino ritornino, all'epoca stabilita, a confondersi nelle file del popolo; l'orditura del loro governo, l'incastellamento del governo dittatoriale, il principio che l'informa, l'ubbidienza; gli interessi creati da questo governo, non potranno certamente sparire; quindi vi sarà sempre la dittatura. Cangeranno i nomi, le forme, ma non già la sustanza delle cose. Il popolo continuerà ad ubbidire, i pubblici funzionarî a comandare, lo spirito della nazione sarà monarchico, ed ogni governo che gli succederà, eziandio non volendo comandare (e chi non vuole!), comanderà come quelli comandavano. Delle due cose l'una, o la dittatura non giungerà a comprimere ed aggiogare gli spiriti nazionali ed in tal caso riesce inutile, o vi riescirà, ed allora, per rilevarli, fa d'uopo d'una seconda rivoluzione. Dopo lunghissimi anni di sforzi, di sangue sparso, di patimenti dorati onde esaltare lo spirito nazionale, noi medesimi, mentre ci affatichiamo a ciò, andiamo in traccia del mezzo come comprimerlo. Oh nullità dell'umana ragione!... Terminata la guerra sotto il reggimento dittatoriale, ci troveremmo una monarchia senza re, ed i re facilmente si trovano. Guai quando non si confermano da' primi momenti le conquiste del popolo!
Fino ad ora abbiamo ragionato, ed abbiamo ammessa possibile la dittatura civile ma essa non può distinguersi dalla militare. Le forze armate della nazione saranno, oppur no, sotto la sua immediata giurisdizione? Se vi saranno la dittatura sarà militare di fatto; se non vi saranno non esisterà dittatura. Ma ammettiamo eziandio cotesta anomalía, vi sarà dittatura di uomini non militari. La loro sorte è irrevocabilmente decisa, eglino verranno cacciati di seggio col piatto della sciabola dal vincitore delle prime battaglie. Quei giovanotti medesimi, che ora parteggiano da fanatici per la dittatura, allora saranno gl'istrumenti che la cangeranno. La gloria militare ecclissa qualunque altra, rapisce l'animo de' guerrieri in favore di colui, dal cui braccio, dalla cui mente riconoscono l'inebbriante piacere della vittoria, quindi il generale disporrà de' soldati. Intanto, questo generale che periglia in campo, e credesi giustamente lo strumento di salvezza di sua patria, con riluttanza riceverà ordini da un governo civile; egli crederà, e non a torto, che durante la guerra da cui la nazione spera salute, sia piú giusto, piú logico, piú utile, che un guerriero abbia questo assoluto potere, e non mancherà di ghermirlo, eziandio con la forza. Non senza ragione i principi cercano fra i piú fidi servitori i capi dell'esercito, si circondano di prestigio, si incalzano col diritto divino, si dichiarano guerrieri essi medesimi, eziandio senza esserlo.
I convenzionali francesi, uomini al certo di somma energia, caddero inesorabilmente sotto la spada di Napoleone; vissero otto anni, e vissero a prezzo di moltissimo sangue, imperocché, richiedendo la Francia quattordici eserciti, potettero contrapporre gli uni agli altri i varî generali; ma non appena la riputazione di uno elevossi su gli altri, quest'uno ghermí il potere. In Italia richiedesi un solo esercito, epperò dopo la prima battaglia vinta, il generale non avrà rivali. Nel '48 in Ungheria la dittatura finí per passare nelle mani di Görgey. La Repubblica francese del '48 creò una presidenza civile, ed essa ben presto si è trasformata in dittatura militare. Pare impossibile come l'amor proprio faccia disconoscere le verità piú evidenti, i fatti piú noti. È un assioma, è un fatto evidente, che ripetesi tuttogiorno, e può dirsi esistere nell'ordine naturale delle cose, che la forza militare s'impadronirà sempre della dittatura se essa esiste. Con facilità ed indifferenza cangiasi di padrone, anzi natura del popolo è, se lo accostumasi ad ubbidire, di scegliere colui che piú imperiosamente comanda, e tutto quello che vien creato dalla forza, presto o tardi in potere della forza ritorna. Per contro, se da' primi istanti cominciasi ad assaporare la libertà, niuno soffrirà che altri venga a rapircela; e quanto è naturale e facile il sostituirsi in luogo d'un altro, per tanto è difficile cangiare le istituzioni ed un reggimento libero trasformarlo in dittatoriale.
Risuona nella bocca di molti il nome di Washington quale argomento che dimostri l'utilità della dittatura, la possibilità d'evitarne i perigli, ma un tal fatto, che verrebbe a rincalzare le nostre asserzioni imperocché sarebbe stata una dittatura militare, non ha mai esistito, e chi il crede ignora affatto quell'interessante storia. Le leggi, le istituzioni da cui venivano rette le colonie inglesi in America, erano liberissime, quasi come lo sono al presente, eziandio prima della guerra. In ogni Stato i pubblici funzionarî erano eletti dal popolo, le leggi, le tasse, decretate dalle assemblee, liberissima la stampa, garentita la libertà individuale. Scacciati i governatori che dall'Inghilterra venivano inviati in ogni Stato, le colonie furono di fatto liberissime senza aver bisogno di mutare la costituzione, o di far nuove leggi. Un congresso assunse il potere supremo, non di far leggi, non di educare, non di limitare i diritti de' cittadini, ma incaricato solo di riunire i sforzi dei vari Stati, richiedendo ad ognuno uomini e danaro per osteggiare il nemico comune.
Ogni Stato, con riprovevole costume ebbe le sue milizie; eravi poi un esercito comune a tutti, e qualche volta due, dipendenti dal congresso: di questi due eserciti, un solo, il maggiore, fu capitanato da Washington, ma egli non ebbe mai ingerenza alcuna nelle faccende civili, ed il suo potere, come semplice generale, fu inferiore a quello che concedesi comunemente ai condottieri di eserciti, la sua opinione, eziandio ne' disegni di guerra, doveva sottostare a quella della maggioranza de' generali.
In un momento assai difficile il congresso gli conferí sei mesi di dittatura, ma il suo potere in altro non consisteva che eseguire gli arrolamenti, provvedere l'esercito nel modo il piú spedito possibile, e senza dirigersi al congresso, scorsi i sei mesi, i suoi poteri furono di nuovo limitati. Solamente la sua opinione ne' disegni di guerra fu dichiarata prevalente, e cosí corressero un grave errore. Washington non fu mai dittatore nel vero senso in cui s'interpreta questa parola. Egli, per carpire in America un potere dittatoriale, non bastava che si fosse sostituito al congresso, ma sarebbe stato costretto a debellare ad uno ad uno i diversi Stati e cangiarne le istituzioni. Washington salvò l'America, non già per gli estesi poteri a lui accordati, ma pel suo gran carattere mostrato come generale. Egli (concedasi a un tale eroe una breve digressione) rimase saldo durante le avversità e le difficili congiunture in cui mettevalo la dissoluzione del suo esercito. Egli fu gran generale, e la sua condotta, forse, fu superiore a quella di Fabio Massimo. Questi ebbe forze sempre superiori al nemico, e comandava a' Romani, per indole e tradizioni guerrieri per eccellenza; quello comandò esercito sempre minore del nemico, e composto di gente raccogliticcia a cui mancavano tradizioni ed abitudini militari. Fabio non impedí le scorrerie del nemico, Washington, senza combattere, interdisse tutte le operazioni agli Inglesi, ed in ultimo, ghermita l'occasione, e col semplice soccorso della flotta francese, distrusse un esercito nemico e pose fine alla guerra.
La Svizzera, le Fiandre, l'America, la Francia, la Grecia han compiuto memorabili rivoluzioni; martiri, eroi, battaglie, combattimenti, ostinate difese di città, nobili sacrifizî, nulla ad esse è mancato, e le gesta delle due ultime nazioni sono, è cosa innegabile, piú brillanti, gli eroi piú sublimi, e maggiore lo sviluppo delle passioni; nondimeno Grecia e Francia sono schiave, le altre libere, d'onde questa differenza? Le prime non dovettero fare altro che rovesciare il giogo che interdiceva lo sviluppo delle loro libere istituzioni comunali, non concessero mai ad alcuno il potere di comandare a bacchetta, e nol potevano concedere senza ledere le libere leggi che si trovavano in vigore, e perciò il dispotismo non trovò terreno da gittar le sue radici. Per contro, tutte le nuove costituzioni francesi, non hanno distrutta ma riformata l'antica, la quale è pura emanazione della tirannide, e corrivi i francesi, perché d'indole servili, a concedere estesi poteri, a crearsi le pouvoir fort, com'essi dicono, ad onta delle goffe e stolide complicazioni aggiunte alla macchina governativa per garantirsi, essi sono stati sempre schiavi, sempre tiranneggiati, prima della rivoluzione, durante la rivoluzione, e dopo la rivoluzione. La Grecia ebbe tutto a creare, ed in luogo di abbandonarsi liberamente alle proprie ispirazioni, prese norma da' Stati che si dicevano civilizzati, ritornò serva. In Italia, le istituzioni in vigore sono tali, tali le abitudini de' pubblici funzionarî, i quali si credono i padroni non già i servitori del popolo, che se concederemo dieci gradi di potere ad un governo, esso, indubitatamente, n'usurperà altri dieci. Guai a noi, se ci faremo a ritoccare e correggere l'antica legislazione, a conservare le vecchie basi, la vecchia orditura, noi non sortiremo dalla schiavitú, ma stringeremo, complicheremo le nostre catene. Gl'Italiani debbono spianare affatto il vecchio edifizio, e lasciare che i rapporti fra i cittadini ne' Comuni, e quelli de' Comuni fra loro, vadano creandosi da sé, non assegnando loro altra norma che leggi di natura ed il triste passato. La Nazione essa medesima prenderà l'equilibrio sul suo vero centro di gravità. Per condurre la guerra basta un centro, come diremo, ove, facendo capo i mezzi che la nazione vorrà impiegarvi, verranno diretti contro il nemico.
Nell'antica Roma il potere dittatoriale non poneva in nessun rischio la libertà: il paese era già costituito, le leggi quali si convenivano ad un popolo libero; e queste leggi tacevano pel breve tempo che durava la dittatura, quindi riprendevano vigore. Eravi, inoltre, un potente patriziato, quasi tutti già generali di eserciti, guarentigia bastante contro ogni usurpazione. Né la dittatura doveva dar leggi o educare un popolo, essa era dittatura militare e non civile, e fu creata dai patrizî onde contrapporla al potere tribunizio. Propugnare in Italia una dittatura educatrice, ed educatrice a libertà, è tale enigma, è tale frase che altro non racchiude che una manifesta contraddizione.
Dimostrato come la dittatura altro non sia che una contraddizione con se medesimo per un popolo che aspiri a libertà, come sia impotente a produrre il bene, e scaturigine d'ogni male; come nasconda in se medesima grandissimi perigli, ora ci faremo a dimostrarla impotente affatto a dirigere la guerra.
L'Italia potrà vincere solo a patto, il dice Mazzini, che la lotta sia lotta di giganti; abbiamo adunque bisogno di capi, i quali suppliscano con l'ingegno e con l'energia al difetto del materiale, alla propria inesperienza ed a quella delle soldatesche: di capi, i quali non si credono impacciati, ma sanno giovarsi delle passioni che bollono nel popolo. Tali capi, ora che rivoluzione non v'è, non esistono, ma non mancheranno certamente fra i venticinque milioni d'Italiani. Quale stoltezza cercarli prima? I generali son figli, non padri della rivoluzione. Ma come sperare che sorgessero cotesti eroi, coteste folgori, se la dittatura verrà ben tosto a calmare la tempesta, ad ammorzare col suo soffio tiepido le passioni? Gli eroi non escono né da' guardinfanti delle corti né dalla camera d'un dittatore, ma dal fermento delle passioni popolari. Se tutto dovrà piegarsi al volere d'un uomo, le forti passioni sono impossibili, ed impossibili, per conseguenza, gli eroi.
Oltrecché, i dittatori che verranno sostituiti alla nazione, come conosceranno le numerose capacità che l'Italia nasconde dalle Alpi al Lilibeo? La loro scelta dovrà raggirarsi fra l'angusto campo de' loro aderenti, e tra questi, non già ai piú capaci, verranno affidate le sorti della nazione, e perché, non essendo militari, non potranno essere giudici competenti, e perché la preferenza verrà naturalmente accordata a colui che sia piú amico, piú simpatico, per docilità e per dottrina, coi dittatori.
Infine cotesti dittatori civili preferiscono, quasi sempre, generali stranieri a' nazionali, imperocché temono il credito di questi, e piú facilmente conservano il predominio su quelli, e cosí decretano la ruina e la vergogna della nazione; ed atterriti dalla popolarità che acquista un generale, son riluttanti a menare di forza la guerra, e se scorgono una probabilità di terminarla, senza piú, eziandio con danno della causa, transigono. Finalmente è mestieri riflettere, comunque voglia supporsi perfetto un tale governo, che, in caso de' rovesci, il governo non essendo fondato su de' principî, ma sul carattere e l'opinione degli uomini presso cui trovasi il maestrato supremo, si ricorrerà al volgare e puerile mezzo, quale è quello di cangiarli, e quindi un sol disastro, probabilissimo in simile lotta, basterà per sostituire al potere uomini d'altra gradazione di colore, che daranno alla rivoluzione un nuovo indirizzo politico, e da tale continuo ondeggiamento verrà strozzata. La dittatura in Italia, come in Europa, ha fatto le sue prove, il governo provvisorio di Milano, quello di Venezia, di Firenze, di Roma, di Sicilia... potevano decretare tasse, provvisioni militari, far la pace o la guerra, creare cariche, e ne crearono infinite, furono insomma poteri dittatoriali. Che cosa avvenne? Lo stato delle cose rimase ove la nazione l'avea condotto nel primo periodo del suo rivolgimento, la rivoluzione non avanzò d'un passo, anzi, come è natura d'ogni potere, ne repressero gli slanci, senza accrescerne le forze. Se con la dittatura siamo stati mai sempre vinti, perché non provare la libertà?
Faremo fine a questo ragionamento con affermare, come cosa per se medesima evidente che, se la dittatura fosse necessaria all'Italia, in tal caso bisognerebbe disperare affatto del nostro risorgimento, la dittatura in Italia è impossibile: sarebbe il frangente della rivoluzione, renderebbe inattuabile l'unità degli sforzi. Il fato che ha decretato per l'Italia la schiavitú o l'assoluta libertà, con la grandezza che l'accompagna, ha reso impossibile la dittatura. Come supporre che tutta l'Italia s'inchinasse al potere assoluto surto dalle barricate di una città? Palermo, Napoli, Milano riderebbero degli ordini che si emanassero da Roma. Questa dittatura non solo dovrebbe combattere i stranieri, ma per unificare l'Italia dovrebbe conquistare i varî Stati e tenerli soggetti, fare in un mese assai piú di quello che non fece l'antica Roma in sei secoli. Quale erroneo giudizio dell'indole del paese!
Dimostrata l'assurdità di tale concetto, e come in esso, senza vantaggio veruno, si riscontrano tutti gli inconvenienti e tutti i rischi della tirannide, e come le tradizioni e l'indole del paese siano con esso riluttanti, ora verremo a discorrere di quello che bisogna sostituirvi. Lo stato presente d'Italia, il fine a cui tendiamo, i sacri principî che emergono dalle leggi di natura, determinano recisamente la forma e le attribuzioni del potere che dovrà amministrare gl'interessi della nazione durante la lotta.
Le diverse condizioni in cui trovansi i diversi Stati non solo, ma le diverse città d'Italia, rendono quasi impossibile un insorgere simultaneo; ed eziandio che per una favorevole circostanza ciò avvenisse, non in un tratto, ma successivamente ne verrebbe sgombero il suolo da' nemici. Quindi è forza che non già l'Italia tutta, ma una parte di essa, dovrà prima che le altre inalberare la bandiera comune, e nominare un maestrato, non municipale, ma italiano. Questi Italiani, primi ad esser liberi, che dovranno al caso o alle loro speciali circostanze l'iniziativa, non potranno certamente pretendere che la nazione intera confermi o si sottometta al potere da essi eletto, tale pretesa non solo sarebbe tirannica ma vana; si vedrebbero sorgere tanti altri governi per quante sono le diverse provincie, o almeno i diversi Stati in cui ora è divisa. Il maestrato che dovrà amministrare l'Italia, deve assolutamente procedere per addentellati, facendo cosí abilità ad ogni parte di essa, fatta libera, d'unirsi alle provincie iniziatrici del moto, non già sottomettendosi, ma trovando pronto il proprio incastro, onde comporre un sol tutto. Quindi altro non potrà essere che una convenzione o congresso nazionale, eletto con suffragio universale, il quale verrà completandosi a misura che la rivoluzione proceda. Restaci ora a determinare le attribuzioni di questo congresso.
Se ci faremo a considerarlo con quelle idee, che oggi si hanno in Europa, del governo parlamentare, ognuno ne troverà, nel fondo della propria coscienza, la condanna. Garrule, lente, tumultuanti, snervate, riescono coteste congreghe, ed esse o cagionano la ruina del paese o si restringono in una dittatura, essendo cosa impossibile ottenere l'unità de' fatti in tanta disparità di pareri. Ma ciò non è difetto di queste adunanze, ma bensí errore de' popoli che le concedono poteri e ne richieggono opere con la loro natura riluttanti. Un tal congresso deve essere non imitazione della convenzione francese, ma tutt'altro; avvicinarsi piuttosto al congresso americano, a quello delle Fiandre, al greco, cercando la maggiore unità ed energia di sforzi non già in esso, ma nell'ordinamento delle altre parti dello Stato. Prima d'ogni altro, non bisogna mai perdere di vista il principio che un popolo, per esser libero, bisogna che fin dal primo istante spezzi le sue catene ed assicuri la libertà.
La sovranità per legge di natura è inalienabile, né havvi circostanza che possa giustificare la violazione di questa legge; concederla ad altri è un suicidarsi; il suicidio consumato, è vana speranza il pretendere di ritornare in vita; quindi ogni membro di questo congresso è sempre revocabile da' suoi elettori, e la istessa durata del congresso non può prestabilirsi, dovendo dipendere dalla libera volontà della nazione.
Il suo mandato è quello di mandare ad effetto il concetto collettivo della nazione, concetto chiaro ed innegabile, il quale comprende in se' la rivoluzione, né ammette restrizione di sorta alcuna: guerra allo straniero, qualunque lingua esso parli, finché non sia fuori d'Italia; guerra a tutto ciò che inceppi l'assoluta libertà. Questo concetto è il despota, il dittatore degli Italiani, se eglino trasgrediranno i suoi assoluti ed imperiosi comandi, la pena sarà certa e terribile: schiavitú e miseria. I limiti poi ne' quali dovrà operare cotesto congresso, o convenzione nazionale, vengono tracciati dalle leggi di natura, che son le basi del patto sociale, espresse nel terzo capitolo di questo saggio, ed esse non danno luogo a dubbio di sorta alcuna. Essendo sacra la libertà individuale e quella de' Comuni, il congresso non avrà la benché minima autorità nella loro interna amministrazione e nella nomina de' pubblici funzionarî; i Comuni, assolutamente indipendenti, provvederanno come meglio credono alla loro amministrazione, uniformandosi ai dettati di quelle tali leggi naturali, che formano il solo patto costituente l'unità italiana. L'esercito, essendo un nucleo di cittadini destinati dalla nazione a compiere una speciale missione, in virtú delle medesime leggi testè citate, hanno il diritto di eleggersi i propri capi, ai quali, come nel terzo [recte: quarto] Saggio ampiamente svilupperemo, per ragion di guerra s'addice il concetto de' disegni militari e l'esecuzione di essi. Svincolati dalle mille spire in cui la diplomazia si va ravvolgendo, questo congresso non ha alcun trattato da lacerare in volto al nemico: finché esso sarà sul suolo italiano altra ragione oltre il cannone non v'è; cacciato d'Italia, compiuta la missione dell'esercito, allora solo, pacatamente il congresso potrà discendere a ragionare, non avendo il diritto di nulla stabilire senza il consenso della nazione.
Adunque questo congresso non ha cariche od onori da conferire; non leggi da fare, non trattati da conchiudere, non eserciti da dirigere. È sua missione accusare al cospetto della nazione ed esortare a riprendere il dritto sentiero quel Comune o quell'individuo il quale violasse i principî da noi stabiliti come base del patto nazionale; è sua incumbenza determinare, secondo la popolazione e la ricchezza d'ogni Comune, la porzione contingente in uomini e danari con cui deve concorrere alla guerra, e cosí, equamente, ripartire i sacrifizî; è sua speciale opera raccogliere tutte le risorse materiali e dirigerle ove l'esercito il richiede, onde fornire incessantemente il campo. In tal guisa, la nazione, assolutamente libera, appresta in ogni Comune tutte le sue forze; il congresso le raccoglie e le invia all'esercito; questo, secondo la ragion di guerra, le dirige contro il nemico. Il congresso non è governo, ma centro su cui la nazione equilibrasi, verso cui tendono le sue forze, e vigile guardiano del patto nazionale. Esso può, in virtú di quelle medesime leggi che gli danno vita e ne tracciano le funzioni, conferire a pochi individui, o ad un solo, scelti dal suo seno o fuori, i proprî attributi, onde ottenere la massima energia nel disbrigo delle sue incumbenze, basta che non abdichi mai il diritto inalienabile della loro revoca e del sindacato su di essi. In questo solo modo può concepirsi in Italia l'unità degli sforzi, senza ledere in menoma parte la libertà.

CAPITOLO QUINTO

XVIII. Risorgimento d'Italia. - XIX. Educazione pubblica. - XX. Bandiera e formola.

XVIII. Nei primi capitoli di questo Saggio abbiamo cercato quelle leggi di Natura, que' principî, non già deduzioni d'un ragionamento basato su di arbitrarî accordi o strani supposti, ma attributi della Natura stessa, effetti invariabili dell'indole umana. Principî che una società non può riconoscere come veri, senza prima percorrere lunga, scabrosa ed intricata via, per cui il fugace utile immediato ed i pregiudizî, facendo ombra al suo intelletto, la costringono a serpeggiare. In seguito abbiamo discorso del cospirare, dell'insorgere, mezzi di cui s'avvalgono le nazioni onde sgomberare con fremito il cammino dalle incomode ruine del passato. Non ho creduto proporre un modo nuovo di cospirare e dar norma ai primi passi della rivoluzione, ma bensí fu mio proposito il dimostrare logori i mezzi sino ad ora usati, e determinare non quale dovrebbe essere, ma quale inesorabilmente sarà lo sviluppo ed il modo di operare delle varie forze che possiede la società. E porto ferma opinione che la vera rivoluzione, il vero trionfo della democrazia, che suona trionfo del proletariato, non si otterrà con altri mezzi se non con questi, né si conquisterà la libertà che liberamente operando.
Il sottostare a forza maggiore è necessità, il rinunziare volontariamente ad una parte o a tutta la libertà, non è prova di spiriti liberi ma d'inclinazione al servaggio. Chi vende i proprî convincimenti ha cuore depravato ma piú libero di colui che volontariamente li abdica. Quello rinunzia alla libertà per un guadagno, patteggia col nemico, questi per l'indole; l'uno, trovando il suo meglio, saprà riacquistarla e avvalersene, l'altro, eziandio volendolo, nol potrà fare. È vano il dire che sarà cosa pregevole rinunziarvi per amor di patria, imperocché il sommo bene della nazione altro non è che assoluta libertà, che essendo costituita non dai limiti imposti alla libertà individuale, ma dal pieno sviluppo di essa, rinunziare alla propria libertà per accrescere quella della patria, è lo stesso che mutilarla per renderla intera, è un assurdo. Agli Italiani è mestieri di educarsi a libertà, ma educatori e libertà sono materie eterogenee che si escludono affatto. La libertà non può apprendersi, essa è sentimento, e nessuno può darci sensazioni non nostre. Per educarci a libertà bisogna vivere, per quanto possiamo, liberamente, in tal guisa ognuno, educando se medesimo, educa tutti, e tutti compiono l'educazione di ognuno. Da ciò risultano spontanee le cospirazioni, le congiure, ma senza idoli, senza patroni, senza padri, niuno pretenderà comandare, come niuno si piegherà ad ubbidire. Se la nazione devierà ancora dalla linea retta, se ancora non è abbastanza assennata dall'esperienza, potranno de' strani connubî, delle strane combinazioni aver luogo, ma essa non raggiungerà con questi mezzi la sua piena libertà e la grandezza a cui è destinata.
Additate le piaghe della società, i diritti di chi soffre, le usurpazioni di chi gode; dimostrata la necessità di estirpare fin l'ultima barba della presente costituzione sociale, di sgomberare il suolo dalle sterminate macerie di pregiudizî, di leggi, di opinioni ammucchiare sul diritto di proprietà che gli serve di base, e che poggia a sua volta sugli omeri dell'immensa moltitudine de' null'abbienti, come rivoluzionario potrei far fine. La nazione penserà a ricostituirsi. Nondimeno sospingeremo lo sguardo in questo ignoto avvenire e procederemo in esso attenendoci strettamente a' stabiliti principî.
"I tiranni, - scrive Mario Pagano, - col progresso del tempo, dalle continue reazioni degli oppressi, debbono rimaner disfatti. La legge è immutabile, l'ordine è costante, la pena è certa, benché col piè di piombo giunge al fine". Ora che scrivo, la miseria cresce ogni giorno, i governi moderati, corruttori e codardi, in putredine vanno consumandosi, la tirannide mostrasi, perché minacciata, terribile ed ingorda e cosí la sua azione affretta l'immancabile reazione. I popoli, intolleranti dello stato presente, fremono, il movimento non tarderà, e non già, come pretendono i dottrinarî, il popolo piú dotto e piú incivilito, ma il piú oppresso darà il segnale della battaglia. La quistione economica, quasi in tutt'Europa prevale, non solo fra i dotti, ma nella plebe, la questione politica n'è stata quasi del tutto ecclissata.
Cominciato lo sbaraglio, vedremo il popolo, da' suoi dolori sospinto, con abbandonate redini precipitarsi ne' pericoli, ma le sue prime orme saranno incerte, vacillanti, esso non saprà scorgere il vero nemico, né colorite i suoi disegni. In questi momenti, la riuscita, l'indirizzo della rivoluzione, dipenderà da quella gioventú intelligente, non dotti, ma illuminati combattenti di cui il popolo naturalmente se ne fa testa. Se questi desiderano il vero bene della patria, dovranno, senza far gruppi o sette, ma ognuno secondo le ispirazioni del proprio genio, darsi a tutt'uomo, non già calmare, ma a sfrenare per quanto può le passioni del popolo e, dando forma a' suoi desiderî, additargli il nemico. Colui che dopo tanti tristi e sanguinosi casi, che i popoli, nel fare transazioni e contentarsi di rimedî mezzani, patirono, in luogo di mirare alla riforma completa degli ordini sociali, broglia per afferrare una carica, o per donare i poteri a qualche suo idolo, e, tutto fede, spera che un uomo compia la rivoluzione, ammorzando l'effervescenza popolare, presenti il dorso al bastone della tirannide, egli altro non è che vilissimo schiavo, mascherato col saio del repubblicano.
Ci faremo ora a compendiare quanto dicemmo del passato e del presente, dei mali sociali e de' rimedî, delle usurpazioni della tirannide e de' diritti della democrazia, e cosí rileveremo le provvisioni da prendersi, le riforme da adottarsi.
Son quasi quattro secoli di schiavitú, e durante quest'epoca, quanti inutili tentativi, quanto sangue inutilmente sparso!... I popoli a noi vicini, dopo grandissimi sforzi non son riusciti a migliorare la loro condizione. È dunque inutile l'insorgere? No. È questo un fatale cammino che il popolo è costretto a percorrere, onde dalle sanguinose esperienze venga condotto alla scoverta degli errori. Raccogliamo adunque i frutti del passato travaglio; gioviamoci di que' fatti, e sia questa rivoluzione principio d'êra novella, e non già nuova esperienza utile a' posteri, a noi dannosa.
Che cosa ha fruttato la moderazione? patibolo, carceri, esilio. I nostri nemici sono inesorabili, ingordi; ad ottenere due gradi di libertà (se la libertà si ottenesse per gradi), ed ottenerla intera, ci è forza sostenere la lotta medesima. Perché dunque arrestarci ai primi passi? La moderazione ci ha fruttato, forse, la protezione di qualche altra Potenza? Mai no, tutti i governi stranieri, apertamente o con l'inganno, sonosi cooperati alla nostra rovina. Confidiamo adunque nelle sole nostre forze, e miriamo alla completa distruzione del nemico, senza arrestarci alla minaccia, essa altro non è che un'arma nelle mani del minacciato.
Guai se la plebe, contenta di vane promesse, farà dipendere dall'altrui volere le proprie sorti! Essa vedrà molti di coloro che si dicono liberali, umili negli atti, larghi in promesse, con dolci parole adularla, come costumano adulare i tiranni, e carpirne il voto. Divenuti onnipotenti ed inviolabili, pensano al loro meglio, e ribadiscono le sue catene; ed alla richiesta di pane e lavoro rispondono, come l'assemblea francese rispose nel '48, col cannone. Finché la società verrà composta da molti che lavorano e da pochi che dissipano, e nelle mani di questi pochi sarà il governo, il popolo deriso col nome di libero e di sovrano, [i molti] non saranno che vilissimi schiavi.
Tutte le leggi, tutte le riforme, eziandio quelle in apparenza popolari, favoriscono solamente la classe ricca e culta; imperocché le istituzioni sociali, per loro natura, volgono tutto in suo vantaggio. Voi plebe, allorché crederete avvicinarvi alla meta, ne sarete, invece, piú discosti. Voi lavorate, gli oziosi gioiscono; voi producete, gli oziosi dissipano; voi combattete ed essi godono la libertà. Il suffragio universale è un inganno: come il vostro voto può esser libero, se la vostra esistenza dipende dal salario del padrone, dalle concessioni del proprietario? voi indubitatamente votereste, costretti dal bisogno, come quelli vorranno. Come il vostro voto può esser giusto, se la miseria vi condanna a perpetua ignoranza e vi toglie ogni abilità per giudicare degli uomini e de' loro concetti? Come può dirsi libero un uomo la cui esistenza dal capriccio d'un altro uomo dipende?
La miseria è la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società, voragine spalancata che ne inghiotte ogni virtú. La miseria aguzza il pugnale dell'assassino; prostituisce la donna; corrompe il cittadino; trova satelliti al dispotismo. Conseguenza immediata della miseria è l'ignoranza, che vi rende incapaci di governare i vostri particolari negozî, nonché quelli del pubblico, e corrivi nel credere tutte quelle imposture che vi rendono fanatici, superstiziosi, intolleranti. La miseria e l'ignoranza sono gli angeli tutelari della moderna società, sono i sostegni sui quali la sua costituzione si incastella, restringendo in picciol giro l'ampio cerchio dell'universale cittadinanza. Il delitto e la prostituzione, conseguenze inevitabili, sgorgano dal seno di questa società. Bagni e patiboli sono le sue opere, volte a punire, con raffinata ipocrisia, i frutti medesimi delle sue viscere. La statistica, scienza moderna, che mostra come indissolubilmente si legano le varie istituzioni sociali, ha già registrato come la miseria e l'ignoranza non scompagnano mai il misfatto. Finché i mezzi necessarî all'educazione e l'indipendenza assoluta del vivere non saranno assicurati ad ognuno, la libertà è promessa ingannevole.
I nemici che dobbiamo debellare son molti, è vano l'illudersi, ma se tutti vorremo combattere da liberi cittadini, vinceremo. Cerchiamo penetrare con lo sguardo attraverso l'atmosfera che i pregiudizî ci hanno addensato intorno, né vi sarà difficile discernere, in questo istante che trovasi distrutta la gerarchia sociale, quanto siano mostruose le usurpazioni del ricco e quanto grandi le miserie del popolo!... Con qual diritto un ozioso proprietario scialacqua col prodotto de' sudori del fittaiuolo, mentre questi appena potrà offrire un pane alla sua povera e laboriosa famiglia? Con quale diritto, in un'officina in cui cento lavorano, un solo, oltre ogni stima arricchisce, non avendo gli altri, non dico assicurato l'avvenire, ma neanche la benché minima guarentigia del presente, bastando il capriccio di un solo per affamare centinaia di dipendenti? Distruggiamo coteste mostruosità col garantire al contadino ed all'operaio il frutto del loro lavoro, e questi e quelli saranno contenti [di] lasciare per poco la vanga ed il martello, ed impugnare il moschetto a difesa degli acquistati diritti. Se la vittoria assicura a tutti l'agiatezza, e la disfatta li ricaccia nella miseria, tutti saranno valorosi. Ecco il segreto di cui si avvalsero i nostri progenitori per soggiogare il mondo.
Nei passati rivolgimenti sonosi cangiati gli uomini e le forme del governo, ma il principio su cui esso poggiava, l'autorità insomma, cangiando nome, rimase; come adunque potevano sparire i mali? Volete cogliere il frutto di tante pene? diroccate l'antico edifizio sino alle fondamenta, sgomberate il suolo dalle ruine, e su nuove basi riedificate.
Le leggi a cui ubbidiamo sono quelle stesse, che da tredici secoli, da Giustiniano, i despoti ed un ordine privilegiato, quelli che posseggono, hanno create, svolte, e curatane l'esecuzione sempre in danno della plebe; e queste leggi che hanno sí bene servita la tirannide, non possono certamente essere utili ad un popolo che vuole esser libero. E però la prima determinazione da prendersi è quella di annullarle tutte; una sola che ne rimanga basterà per dare alla rivoluzione un falso indirizzo, o almeno per ritardarne il naturale progresso.
La forza è l'altro cardine sul quale poggia la tirannide, qualunque siasi il nome del governo, re, dittatore, triumvirato, congresso, se esso dispone di forza materiale, saremo schiavi. Non bisogna mai conferire ad altri la facoltà di nuocere; gli uomini, buono o tristo sia lo scopo a cui tendono, sono o prepotenti o deboli; questi inetti al governo, quelli oppressori; i primi, avendone la forza, opprimono, i secondi ci abbandoneranno ai loro satelliti. Ognuno, in buona fede, crede che le proprie idee tornino a gran d'uopo al paese; e però se avrà la forza d'imporle, le imporrà. Lasciamo a tutti la libertà di proporre i proprî pensieri, a nessuno facoltà d'imporli. L'uomo, creato indipendente e libero, non dovrà mai servire un altro uomo, ma solo la propria natura ed il proprio meglio; e se in virtú di questa legge, nelle specialità, conviengli alla direzione de' migliori sottoporsi, non dovrà mai, in forza della legge medesima, lasciare che altri stabilisca i rapporti della società di cui fa parte e dia norma a tutto il suo vivere. I diritti di ognuno limitano di fatto la sfera d'azione de' diritti altrui, le naturali inclinazioni ne distribuiscono le incombenze, e da questa libertà ch'altri limiti non conosce che l'altrui libertà, ne risulta l'armonia sociale. Chiunque pretende governarmi, chiunque pretende che io mi uniformi alle sue idee, alle sue abitudini, è uno stolto tiranno; ad ottenere ciò dovrebbe trasferirmi la sua sensibilità.
Or dunque, considerando questi veri come i punti di riscontro del nostro avvenire, verremo traducendoli in pratica esponendo le provvisioni che sul retto sentiero indirizzeranno la rivoluzione, assicurando sin da' primi istanti il suo magnifico e semplicissimo procedere.
1. Tutte le leggi, i decreti, le cariche, le incombenze, insomma tutte le esistenti istituzioni sociali, rimangono da quest'istante annullate.
a) Ogni contratto il quale non sussiste per la libera volontà delle due parti contrattanti, è sciolto.
b) Le tasse ed ogni specie di gravezze imposta dal passato governo, annullate. Non vi sarà che un'imposta unica sulla ricchezza, da un congresso italiano ripartita sui Comuni, dai consigli comunali ripartita sui cittadini.
Questa prima provvisione spezzando le ritorte [catene] da cui eravamo avvinti, ridonaci la piena libertà delle membra, indispensabile a sostenere la gran lotta in cui dovremo impegnarci, né la vittoria sarà mai possibile, se combatteremo impastoiati fra leggi ed istituzioni volte a sgagliardirci e toglierci qualunque libertà d'operare. Né qui finiscono gli effetti di tali provvedimenti: l'abolizione delle tasse ecc., produrrà, cosa indubitata, un ribasso nel prezzo degli oggetti di prima necessità, ed il minuto popolo sentirà, dal nuovo ordine di cose, immediatamente sgravarsi delle tante imposizioni da cui era oppresso; e quindi troverà cosa importantissima il difenderle ed assicurarle in avvenire. In tal guisa con un semplice decreto avremo ridonato al popolo tutta la sua forza, e creato il movente che, unificandone eziandio la volontà, lo sospinge alla difesa della patria.
Inoltre, se il concedere altrui il governo assoluto della cosa pubblica ci ricaccia nella miseria e ci abbandona al dispotismo, il disordine conduce parimente alle conseguenze stesse; e però alla rivoluzione bisogna assegnare un fine cosí ampio ed incontrastabile da esser certi che nessuno possa durar fatica a riconoscerlo, o nessuno rinnegarlo. Quindi stabilire come punti di riscontro, come limiti e guarentigie della libertà, le leggi inviolabili della Natura, le quali daranno norma e determineranno tutte le provvisioni volte ad organare e dirigere le forze della nazione al conseguimento del fine prefisso. I due seguenti decreti basteranno per tradurre in fatti le idee esposte.
2. Il fine che si propone la rivoluzione è quello di sgomberare l'Italia da' stranieri, qualunque lingua essi parlano, e da tutto ciò che viola l'indipendenza e la libertà individuale. La guerra sarà menata di forza finché questo fine non sia compiutamente conseguito.
I principî da noi espressi nel terzo capitolo di questo Saggio, resi di pubblica ragione sin dai primi istanti della Rivoluzione, verranno presentati in ogni Comune all'accettazione del popolo, che riconoscendoli come base del nuovo patto sociale, dichiarerà reo di lesa nazione chiunque attenterà di violarli. Se un tal decreto verrà bandito dal popolo, la rivoluzione da quell'istante sarà assicurata, la libertà e la grandezza d'Italia indubitata; se poi un solo di questi principî è rigettato o ristretto, la rivoluzione non si compirà, verrà conseguito qualche cangiamento di forme, ed il popolo s'incamminerà, meritatamente, in un nuovo corso di miserie, di dolori e di vizî.
Ridonata al popolo la sua piena libertà; creato il movente delle sue imprese; determinato il fine da conseguirsi; stabiliti i limiti all'autorità, le guarentigie ed i diritti del popolo, la rivoluzione, senza tema d'esser tratta di passo, potrà procedere nel suo corso, e poche e semplicissime provvisioni basteranno ad assicurare il suo progresso energico ed ordinato.
1. Tutti i cittadini, qualunque ne sia il sesso e l'età, pongono se medesimi e le loro sostanze a disposizione della patria, finché non siasi ottenuta la piena vittoria sui nemici di essa.
2. Ogni Comune verrà amministrato da un consiglio comunale, formato da un numero di consiglieri stabilito da' cittadini medesimi. I consiglieri verranno eletti al suffragio universale, e saranno revocabili dagli elettori e soggetti al loro sindacato. Il consiglio, affinché i comandamenti del popolo siano mandati ad effetto con la massima energia possibile, trasmetterà il proprio mandato ad un solo individuo che eleggerà nel suo seno, riserbandosi, in ogni tempo, il diritto di revoca, e del sindacato.
a) La potestà politica e la giudiziaria risiederanno nel popolo del Comune. L'ultima potrà conferirsi ad un certo numero di cittadini eletti dal popolo, che non cesserà di essere il supremo tribunale al quale i giudicati potranno appellarsi.
b) La speciale incombenza del consiglio comunale è quella di raccogliere ed apparecchiare nel Comune tutte le risorse materiali richieste dal nazionale congresso.
3. Il congresso nazionale verrà eletto co' principî medesimi, cioè: suffragio universale e diritto di revoca e di sindacato agli elettori. Come i consigli comunali, questo congresso potrà trasmettere il proprio mandato ad un solo eletto dal proprio seno, riserbandosi sugli eletti i medesimi diritti accennati pei consiglieri comunali.
a) Le incombenze di questo congresso saranno di rappresentare l'Italia verso le Potenze straniere; potrà conchiudere trattati, ma essi non avranno effetto senza prima ottenere l'approvazione del popolo.
b) In forza de' principî stabiliti come base del patto sociale, questo congresso non avrà sui Comuni altra autorità, che [quella di] determinare ed esigere da essi la porzione contingente in uomini e danari, con cui dovranno concorrere alla guerra, inviare queste risorse ove l'esercito indicherà; accusare al cospetto della nazione quel Comune, o quell'individuo, che violasse il patto espresso dalle leggi di Natura.
4. L'esercito eleggerà i propri capi e sarà l'esecutore supremo de' voleri della nazione.
Sono queste semplicissime provvisioni che potranno attuarsi da qualunque città o borgo che sarà sgombero dal nemico. Il popolo di questo borgo che darà cominciamento alla rivoluzione, annullerà tutte le leggi esistenti, tutte le gravezze; bandirà i principî che dovranno essere la base del nuovo patto sociale; eleggerà il consiglio comunale, i deputati al congresso nazionale; e tutti i cittadini, con le norme che daremo nel terzo [recte: quarto] saggio, si formeranno in battaglioni e si eleggeranno i capi. In tal guisa si procederà conforme al corso naturale degli eventi, e la nazione da sé, senza crearsi padroni, senza concedere ad una città autorità o ascendente piú delle altre, raccoglierà successivamente le proprie forze e le adopererà al conseguimento del fine che si propone, conservando la sua piena libertà.
Il popolo non avrà nulla a temere dagli errori in cui per ignoranza o per intrigo d'altri potrà incorrere nell'eleggere questi diversi maestrati; imperocché non sono inviolabili né irrevocabili, e non dispongono di alcuna forza materiale. Essi non comandano, ma propongono. Il popolo, con pochissima pena potrà francamente eleggere coloro che desiderano tali incombenze, trattandosi di crearsi servi e non padroni, quelli che volontariamente si offrono saranno i migliori. Negare questa verità, ricorrere a ripieghi, è negare la rivoluzione; è lo stesso che restringere l'utile universale a quello d'una fazione, è una questione di semplice forma che non vale il pregio d'esser discussa.
Durante la guerra, il congresso nazionale si occuperà a risolvere il problema sociale e cercherà stabilire l'avvenire della nazione. Il congresso terrà ai fittaiuoli il seguente discorso: - Il provvedimento preso di sospendere il pagamento delle rendite vi ha sostituito ai proprietarî, bene grandissimo per voi stessi e per la società: voi, produttori per eccellenza, ritenete e godete giustamente del frutto delle vostre fatiche, e la società si è sgravata da quella classe di oziosi digeritori, che per sostenere il loro lusso producevano l'incarimento dei viveri; ogni cittadino soffriva per cagion loro, ad ogni poverello veniva tolto un pezzo del suo pane per impinguare i cani ed i cavalli di questi proprietarî; ed oltre di questi vantaggi evidenti, quegli oziosi, costretti ora a lavorare per vivere, accrescono eziandio il prodotto sociale. Ma fa d'uopo riflettere che, quali voi oggi siete, tali essi furono, e l'esperienza, varie volte ripetuta, ha dimostrato che, eziandio ripartendo ugualmente la terra, dopo qualche tempo vi sarà tra voi chi per maggior forza, solerzia, o ingegno, ingrandirà all'altrui spese, e cosí a poco a poco sorgerà di nuovo la classe de' proprietarî che avete annientata. Inoltre, il medesimo diritto che avete voi sulla terra, lo ha ognuno: la medesima ingiustizia che voi pativate, la patiscono i vostri giornalieri, e voi usurpate ad essi quel frutto dei loro lavori che i già proprietarî vi usurpavano, e finalmente, rimanendo la vostra condizione tale quale ora è, i principî da voi stessi banditi sarebbero violati; il patto sociale sarebbe ingiusto come lo era prima, ed i vostri figli si troverebbero in una società non diversa da quella che ora vogliamo riformare. - La cagione di questi mali futuri è evidente; la proprietà ha cangiato possessore ma è rimasta illesa, è dessa che bisogna abbattere, è il principio che bisogna mutare, e perciò è necessario occuparsi della soluzione del problema, di impedire che i proprietarî rinascono: questo problema, unito agli altri che riguardano l'industria ed il commercio, formeranno l'oggetto delle nostre cure.
Per riuscire nel nostro proponimento non basta seguire i suggerimenti dell'istinto, che ci trarrebbero di passo, ma bensí giovarci dell'esperienze che la storia registra. Le attinenze degl'innumerevoli fatti consacrati nelle sue pagine han porto materia a studio profondo, da cui è risultata una serie di proposizioni che formano la filosofia civile, la quale, scienza universale, con attenta osservazione, traendoci dalla fallace via che il volgo per abitudine frequenta, in quella magistrale e permanente della Natura ci conduce; questa scienza darà norma alle nostre ricerche.
Inoltre, il nuovo patto sociale, che verrà stabilito dalla costituente, non sarà, come le passate costituzioni, imposto agli Italiani, ma proposto, e la costituente, non disponendo di veruna forza materiale, non potrebbe operare diversamente; quindi il cuore, la fede, le intenzioni di coloro che dovranno comporla, in questo caso, non hanno importanza di sorta alcuna; queste qualità, impossibili a ritrovarsi, perché mutabili secondo l'utile individuale, queste qualità, sempre cercate e mai trovate dal popolo, oggi non debbono tenersi in verun conto; l'ingegno e la dottrina sono necessarie, eziandio i piú perversi saranno utili; ma il popolo non potendo discernere queste qualità, la costituente sarà nominata dal congresso nazionale, che ammetterà in essa tutti coloro che volontariamente si offrono di farne parte. Questo sarà il campo ove la scienza, non avendo altri limiti che le medesime leggi di Natura da cui essa risulta, potrà elevarsi dalle inutili astrazioni alla pratica, e stabilire la felicità della nazione.
Questo congresso di scienziati, dichiarato costituente, determinerà e proporrà il nuovo patto sociale, le cui basi saranno que' principî dal popolo dichiarati inviolabili, ed il fine quello di garentirne l'inviolabilità per l'avvenire. Compito il lavoro, reso di pubblica ragione, rimarrà esposto alla pubblica censura; e tutti i dubbî, tutte le considerazioni espresse per mezzo della stampa, saranno accuratamente raccolte da coloro che presiedono all'amministrazione di ogni Comune ed inviate alla costituente, che, nel piú breve tempo possibile, dovrà modificare o rispondere a tutte le osservazioni fatte dal pubblico. Dopo questa prova, il patto, sottoposto in ogni Comune alla finale approvazione del popolo, avrà effetto. Noi adombreremo questo nuovo patto sociale senza presumere di aver risoluto un problema che dovrà risolvere l'intera nazione; è stato nostro proposito sgomberare il suolo e scavar le fondamenta, non già riedificare.

I.

Le siepi e quanto serve di chiusura o limite ai poderi saranno abbattute. Il suolo italiano verrà ripartito secondo le diverse specie di coltura a cui mostrasi atto. Una porzione di terra proporzionata alla popolazione verrà assegnata ad ogni Comune e coltivata da coloro che si dedicano all'agricoltura, i quali formeranno una società che stabilirà essa medesima la sua costituzione, in caso che non volesse accettare quella che la costituente proporrà. Ma questa Costituzione, dovendo esser conforme a que' principî che formano la legge universale ed immutabile della nazione, non potrà essere molto diversa dalla seguente: un amministratore ed un direttore eletti, e soggetti al sindacato di un consiglio amministrativo e di un consiglio di tecnologia dirigente. Tutte le altre incumbenze distribuite secondo le inclinazioni e le attitudini di ognuno. Il guadagno netto diviso egualmente fra tutti. In tal guisa, con grandissimo ed universale vantaggio, la proprietà fondiaria sarà distrutta.
Il compartimento del suolo determinato dal genere di coltura e non dal caso; lo stimolo al lavoro, non già la fame ma un maggior guadagno; una società di uomini agiati, tutti dediti, ognuno secondo le proprie attitudini, ad un medesimo lavoro, dovranno indubitatamente produrre un accrescimento grandissimo delle ricchezze sociali. Sosterrebbero gli economisti, che l'agiatezza degli agricoltori, la mancanza de' proprietarî che consumano senza produrre, facessero languire o scemare la produzione? Sosterrebbero che le facoltà d'una società numerosa ed agiata siano inferiori a quelle d'una misera famiglia, capace a pena di quel lavoro che serve a pagare il vistoso tributo al proprietario e comperare per sé un affumicato pane? Tutto può sostenersi col sofisma, ma esso perde la sua forza quando il minuto popolo non può piú sopportare i suoi mali e rovescia la soma che soverchiamente lo grava. Queste proposte non vengono fatte a congreghe di digeritori, di persone dedite all'usura ed al monopolio, ovvero di proprietarî, di banchieri, di trafficanti, ma ad una società in cui la forza ha già distrutta la preponderanza di queste classi. Con la spada bisogna adeguare alle moltitudini i piú sublimi: quindi la legge stabilisce l'ordine e l'uguaglianza.

II.

Il capitale, come già dicemmo, essendo proprietà collettiva, non può appartenere ad un uomo; l'appropriarsi il capitale è un'usurpazione, non cosí manifesta, ma simile a quella della proprietà fondiaria; tutti i capitali verranno dichiarati proprietà della nazione, il denaro potrà in parte involarsi, ma le fabbriche, le macchine rimarranno. Tutti gli impiegati, in ogni stabilimento d'industria, comporranno una società, ai quali la nazione affida il capitale tolto al capitalista, e questa società potrà reggersi con una costituzione identica a quella stabilita per gli agricoltori.
Cosí trasformata e ricostituita l'agricoltura e l'industria, i mercanti che vendono in grosso si rinverranno nei depositi delle stesse società e saranno membri di esse; e socî a ciò espressamente delegati saranno i merciaioli che vendono al minuto.

III.

I trafficanti, intermedî fra i produttori ed i consumatori, a cui la miseria de' primi fa abilità a speculare a discapito del popolo, verranno eziandio trasformati in società composte ognuna dal già capitalista sino all'ultimo facchino, marinaio, carrettiere, che trasporta le merci.

IV.

Tutti gli edifizî saranno dichiarati proprietà nazionale, e gli edili eletti dal popolo, e soggetti al suo sindacato, destineranno, ad ognuno secondo il bisogno, l'abitazione. In tal guisa piú non si vedranno spaziosi appartamenti deserti e destinati a semplice lusso, mentre a breve distanza dalle loro mura, in oscuri e malsani tugurî, giacciono ammucchiate le famiglie dell'infelice proletario, con danno manifesto della pubblica salute e del pudore.

V.
Il testamento, mostruoso diritto, che oltre l'epoca dalla Natura stessa prescritta prolunga la volontà dell'uomo, abolito. I risparmî accumulati da ognuno appartengono di diritto, dopo la sua morte, alla società di cui esso faceva parte ed al Comune ove erasi domiciliato, se il defunto esercitava una professione singolare, come architetto, medico, od altro.

VI.

In ogni Comune vi sarà un banco di scambio, che porranno in relazione i varî Comuni dello Stato ed i varî stabilimenti d'industria, dirigeranno le derrate ove maggiore è il bisogno. Questi banchi assorbiranno e faranno sparire i trafficanti.

VII.

Ogni cittadino il quale trovasi isolato e privo di lavoro, ha il diritto di essere ammesso come socio in quella società di agricoltura o d'industria che da lui medesimo verrà scelta. La forza dell'intera nazione garentisce ad ogni Italiano un tale diritto, diritto che rende impossibile la miseria e forma il cardine principale del nuovo patto sociale.

VIII.

Stabilita la costituzione economica, la politica non offre alcuna difficoltà; un consiglio in ogni Comune, un congresso per l'intera nazione, eletti col suffragio universale, amministreranno il paese; questo e quelli saranno sempre revocabili dagli elettori e soggetti al sindacato del popolo. Il congresso stabilirà la relazione con le altre Potenze, avrà cura degli affari stranieri, rappresenterà la nazione; dovrà sopraindendere ai lavori, ai stabilimenti militari e di pubblica educazione, alle milizie (e di queste discorreremo minutamente nel terzo [recte: quarto] Saggio) in quella parte che non riguarda direttamente ai Comuni. Determinerà le spese, e quindi le gravezze le quali dovranno pagarsi dalla nazione, per questi varî rami della pubblica amministrazione. Non avrà ingerenza alcuna nella politica interna e polizia, questa e quella non avranno altra norma che i principî da noi stabiliti come base del patto sociale; il congresso denunzierà alla nazione quel Comune, quel magistrato, quel cittadino, che violerà o tenterà di violare questi principî.
Questi consigli ed il congresso potranno, pel pronto spaccio degli affari, delegare o distribuire i loro poteri a persone elette dal proprio seno, che saranno sempre da essi revocabili e soggette al loro sindacato.

IX.

Tutti i pubblici magistrati saranno eletti dal popolo, saranno revocabili dal popolo e soggetti al suo sindacato. Niuno percepirà stipendio, ma l'associazione di cui esso faceva parte sarà obbligata a considerarlo e retribuirlo come socio presente. Lo stesso dicasi dei consiglieri comunali e de' deputati al congresso.

X.

L'unica gravezza sarà un'imposta progressiva sulla rendita netta di ogni associazione.

Adombrato il nuovo patto sociale, ci faremo ad esaminarne gli effetti, onde conoscere se i mali, i quali ora minacciano di annientare la presente società, spariranno.
È un fatto dimostrato ad evidenza che la concorrenza, le macchine, e la divisione del lavoro, mentre accrescono immensamente il prodotto, accrescono eziandio il numero de' miseri ed avviliscono l'operaio, peggiorandone la condizione. Esaminiamo se col nuovo patto sociale [si] produrrebbero i medesimi effetti.
Concorrenza. Supponiamo due stabilimenti d'industria in concorrenza, uno composto da numerosa e cospicua associazione, l'altro meschino, questo sarà costretto a smettere, non potendo sostenere la concorrenza con quello, e gli operai, come accade oggigiorno, rimarranno privi di lavoro; ma siccome la nazione guarentisce loro il diritto di essere ammessi in una società a loro scelta, questi operai, naturalmente, sceglieranno e dovranno essere ammessi come socî in quella società da cui sono stati soperchiati, e però questa, se distruggesse tutte le sue rivali, sarebbe sopraccaricata da un numero esorbitante di operai. Per evitare il male, troverà il suo conto associandosi, piuttosto che distruggendo le sue rivali. In tal guisa, la concorrenza, che nella presente società arricchisce uno a discapito di molti, col nuovo patto sociale promuoverebbe l'associazione e spanderebbe egualmente il profitto sugli operai dell'arte medesima.
Con le macchine e la divisione del lavoro ottenendosi il prodotto medesimo con un numero assai minore di operai, nei quali non richiedendosi alcuna speciale attitudine, si ribassano i salarî, e ne risulta la miseria. Col nuovo patto sociale, il numero degli operai non è quello che semplicemente è necessario all'arte, ma [di] quanti se ne rinvengono nel Comune, nella città, nella nazione, che si dedicano a tale lavoro; il salario non è proporzionato alla loro abilità, ma al prodotto, quindi le macchine e la divisione del lavoro saranno la vittoria dell'ingegno umano sulla materia, e gli operai, giovandosi di tali ritrovati, in poche ore di facile lavoro, guadagneranno moltissimo. Inoltre, come conferma della giustissima legge dell'uguaglianza di salario, le diverse incumbenze si andranno pareggiando.
Inoltre, siccome, crescendo il numero delle persone dedite alla medesima arte scema il guadagno, ne risulta che il diritto riconosciuto e garentito ad ognuno, di essere messo come socio in uno stabilimento di sua scelta, è la legge la quale stabilisce l'equilibrio fra le diverse diramazioni dell'industria nazionale.
Le ardite intraprese, l'esattezza del lavoro, la varietà, il buon mercato che si richieggono in un'arte, sono qualità che non possono sperarsi dai piccioli capitali, i quali s'impiegano con la speranza di ottenere utili immediati e grossi; solo dai vistosi capitoli, che anticipano le spese e con picciolo profitto sull'unità della merce guadagnano sul grande numero di esse unità, possono ottenersi tali risultamenti. D'altra parte, i grandi capitali formandosi con accumulare in poche mani le ricchezze sociali, ne risulta, come legge inesorabile, nella presente società, che il perfezionamento dell'industria s'ottiene a prezzo della quasi universale miseria, laddove, col nuovo patto sociale, la formazione dei grandi capitali s'effettuerà non già con la distruzione de' piccioli ma con l'associazione, che sarà la legge regolatrice della pubblica economia, come ora è la concorrenza.
Il bisogno che hanno i produttori di smaltire al piú presto possibile la loro merce, la mancanza del danaro necessario alle spese di deposito e di trasporto, han fatto sorgere l'avida classe de' trafficanti, i quali lucrano ed arricchiscono a spese de' produttori e dei consumatori. Questo bisogno del produttore di vender subito, fa abilità a costoro d'esercitare il monopolio, di affamare una città e procacciarsi vistosi lucri sul pane che i poverelli comprano col sudore della fronte. La concorrenza è quella che piú d'ogni altra cosa favorisce l'incettatore, l'associazione l'uccide. Col nuovo ordine di cose le diverse società produttrici facoltosissime, non han bisogno di vendere prontamente le merci, e potranno avere magazzini, vascelli, e giovarsi di ogni sorta di veicolo onde da se medesime, o col solo mezzo del banco di scambio, provvedere allo spaccio dei loro prodotti; e cosí, con vantaggio grandissimo della società, spariranno i trafficanti, e con essi il monopolio.
Nella presente società, gli incettatori comprano il grano ove abbonda e lo spediscono ove scarseggia, quindi in quel mercato ove essi han comprato, crescendo il prezzo del grano, il pane per conseguenza incarisce; questo fatto protesta contro la libertà del commercio. Ma, vi rispondono i propugnatori del libero scambio: s'introiterà maggior danaro, l'agricoltore che ha guadagnato avrà molto danaro da spendere: il che torna in vantaggio dell'industria, nonché di qualunque altro prodotto; né qui finiscono i vantaggi: gli operai, se pagheranno piú caro il pane, prosperando l'industria crescerà il loro guadagno, e spenderanno pochissimo per l'acquisto di altri generi di cui fanno uso. Cosí gli economisti, con raffinata ipocrisia, fanno generali alcuni vantaggi che si restringono a pochissimi: non è l'agricoltore che ricava profitto dal caro del grano, ma gl'incettatori, i quali accrescono i loro capitali volti ad affamare le città; non è l'operaio che sente il vantaggio della prosperità dell'industria, ma il capitalista; e quelle derrate, i cui prezzi per la libertà del commercio scemeranno, sono oggetti di lusso che non usano né il povero contadino né l'operaio, quindi il libero commercio, come tutte le altre leggi e tutti gli altri ritrovati che aumentano il prodotto sociale, altro non fa che vantaggiare i ricchissimi con danno manifesto de' poverelli. Per contro, rimessa la società secondo le leggi di Natura, i vantaggi del libero commercio saranno evidenti per tutti; il monopolio reso impossibile, sarà l'agricoltore che goderà del guadagno, il quale, come ora diremo, troverà maggior vantaggio nello spendere i suoi danari che nel conservarli: quindi prosperità dell'industria, di cui goderanno tutti gli operai sui quali egualmente è distribuito il lucro; ed infine, contadini ed operai, vivendo agiatamente, faranno uso di molti generi di cui ora neppur conoscono i nomi, e sentiranno il vantaggio di acquistarli a pochissimo prezzo.
Non è il solo aumento del prodotto che accresce la prosperità, ma questo, per riuscire veramente utile, deve accompagnarsi con l'aumento de' consumatori; nella società presente cresce continuamente il prodotto, ma il numero de' consumatori, per la crescente miseria, scema; pochissimi possessori di sterminate ricchezze fra le miriadi di affamati è il fine verso il quale inesorabilmente ci avviciniamo. Abolite la proprietà, supponete che la società abbia subito le proposte riforme, ed il crescere delle ricchezze, ugualmente sparse su tutti, crescerà per conseguenza il numero de' consumatori.
In ultimo, poniamo il caso che un capitalista coi suoi milioni venga nel mezzo di una nazione cosí costituita, ed esaminiamo in che modo possa impiegare il suo danaro. Non potrà acquistar terre, perché la nazione è la sola padrona, ed essa non vende e non riconosce il diritto di proprietà; fabbricare palazzi nemmeno, perché la nazione, padrona di tutti gli edifizî se ne impadronirebbe; affidare i suoi capitali ad una delle tante società in cui è ripartita la nazione sarebbe perderli, perché i capitali di esse sono proprietà nazionali ed egli non potrebbe sperare altro guadagno che quello di essere ammesso come semplice socio ed aver la sua parte al lavoro ed al lucro, come tutti gli altri operai; stabilire un lavoro, un negozio per proprio conto nol può, perché non troverebbe operai in uno Stato ove tutti fanno parte di società come sovrani; potrebbe forse giovarsi di operai stranieri, e cosí col suo stabilimento far concorrenza alle arti nazionali? ma, appena comincerebbe il suo lavoro, il governo interviene, riunisce gli operai e dice loro: Voi, per le leggi dello Stato, avete facoltà di amministrare e reggervi come meglio credete, tutti avete uguale diritto al godimento del guadagno, il capitale non può appartenere a nessuno, ma allo Stato, e voi ne sarete gli usufruttuarî, ed il capitalista con voi, se gli conviene; una tale sentenza, senza esservi il bisogno dell'intervento del fisco e dei birri, gli operai medesimi la porrebbero in atto. Dunque in una società costituita nel modo indicato, chi riuscisse ad accumulare vistose somme, non potendo impiegarle in modo alcuno, non potendo disporne dopo la sua morte, troverà il suo miglior partito spendendole e godendosele e, cosí il nuovo patto sociale, non solo abolisce la miseria e la rende impossibile, ma sbandisce eziandio l'avarizia e mantiene il danaro in una continua circolazione.
A coloro i quali riconoscendo i vantaggi di un tal sistema, oppugnassero la rivoluzione, asserendo che la società senza scossa veruna ma con un successivo progresso potrà trasformarsi, noi risponderemo che eglino disconoscono gli effetti inevitabili delle leggi di economia pubblica applicate alle presenti condizioni dei popoli, che eglino disconoscono i fatti che ogni giorno si compiono sotto i loro occhi. Le numerose associazioni di operai che spontaneamente sorgono, mostrano la tendenza della società verso un avvenire che comincia a presentirsi, ma non migliorano per ciò le loro condizioni; a queste associazioni si opporranno quelle dei capitalisti e quelle, con maggiori danni, dovranno soccumbere nella concorrenza: pretendere che potessero sussistere e prosperare istituzioni di utile universale, in una società costituita da forze tra loro riluttanti, che vicendevolmente si distruggono, ed il cui sistema è volto a favorire l'utile individuale a danno del pubblico, è pretendere una cosa impossibile, è pretendere che un picciolo rigagnolo seguisse il corso medesimo di un torrente senza venir travolto e confuso tra le sue onde. La condizione del proletario, senza una completa e violenta rivoluzione, non solo non può cangiarsi ma neppure migliorarsi, anzi è forza che essa continuamente peggiori.
Non ci restano ora che due altri punti, i quali bisogna prendere in considerazione; uno è di esaminare se manca lo stimolo al lavoro, l'altro di vedere se mai siavi nel sistema il nocivo intervento del governo.
Il lavoro non è attraente come asserisce Fourier, ma nemmeno riluttante; senza necessità non lavorasi, ma esistendo la necessità ed armonizzando il lavoro con le proprie inclinazioni, tutto ciò che in esso è penoso sparisce. Quale lavoro sarà piú proficuo, quello del proletario che ha il solo stimolo della fame, il cui salario è invariabile, e le cui forze son logorate dalla miseria; o pure quello di un agiato cittadino, che ha scelto il lavoro secondo la propria inclinazione, ed il cui guadagno cresce al crescere del prodotto? Gli infingardi esistono, ma essi riconosciuti come tali della società di cui fanno parte, verrebbero assoggettati ad una multa all'epoca della divisione dei lucri.
Il governo interviene nel solo caso, che osserva la violazione di quei principî stabiliti come base del nuovo patto sociale. Prima che la nazione sia costituita egli dice agli oziosi proprietarî: voi non avete diritto alcuno sulla terra, se volete vivere, lavorate; ai contadini: la Natura non ha concesso a nessuno la proprietà della terra, tutti sono padroni di coltivarla e la nazione garantisce loro il frutto de' lavori; per fare ciò con ordine, associatevi. Si rivolge al capitalista e gli dice: tu non sei che un usurpatore delle altrui fatiche, il capitale è proprietà nazionale, a te altro non spetta che una porzione uguale a quella degli operai, e devi, secondo le tue attitudini, lavorare come essi lavorano. Il governo non farà che bandire leggi semplicissime e chiarissime, che nessuno avrà bisogno di aiuto per comprendere; e lascerà ai contadini ed agli operai la cura di porle in atto. Proporrà la costituzione delle varie società, che la costituente, congresso di scienziati, avrà compilato, rimanendo ai cittadini piena libertà di respingerla o modificarla, basta che rimangano inviolati i principî. Queste leggi, questi consigli verranno pubblicati dal governo, non già quando la mente è ottenebrata ed il senso comune pervertito dai pregiudizî, ma quando la spada della rivoluzione ha già rimosso gli ostacoli, quando i contadini e gli operai avranno rotto l'incanto che [li] mantiene tra i fragili ceppi del proprietario e del capitalista; il governo non dovrà sospingere a fare, cosa impossibile ai governi, ma frenare alquanto, indirizzare, dirigere le passioni, che la rivoluzione ha sfrenate.
Fin qui della parte economica. Ora faremo un'osservazione che riguarda la politica. Il governo rappresentativo è discreditato in Europa; l'assemblea eletta a rappresentare i diritti del popolo ad altro non serve che a convalidare e vestire con una maschera di legalità e di giustizia le usurpazioni della tirannide. Non havvi principe, dittatore o ministro, il quale non faccia decidere secondo le proprie intenzioni il congresso che la nazione ha eletto a guarentigia de' proprî diritti; queste assemblee, sovente sono d'impaccio al pronto operare, senza mai essere di ostacolo al male; nascono dalla corruttela, e vivono finché la forza crede dover subire il loro importuno garrito; odiose al tiranno, comecché accarezzate, sono sprezzate dalla nazione. Questo tristo fatto, che sembra conseguenza di loro natura, è l'effetto del modo come oggi sono regolati i rapporti sociali: l'utile privato essendo in opposizione col pubblico, produce una diversità di mire, di desiderî, di speranze, e quindi la irriconciliabile discordia delle idee e delle opinioni; e di piú, il potere che ha il principe, il dittatore, il ministro, di concedere cariche, distribuire oro ed onori, fan sí che le tante opinioni riluttanti, trovando l'utile su di una via comune, si accordano nel vendersi ad un padrone e cospirano verso il fine che da esso gli viene indicato. Invece, se il governo non avrà doni da distribuire, né pene da infliggere, se l'utile d'un cittadino dipende dal guadagno della società di cui fa parte, e la prosperità di questa dalla prosperità dell'intera nazione, vi sarà in tutti unità di mire, di desiderî, di speranze, e quindi concordia nelle idee e nelle opinioni. Ma quantunque il nuovo patto sociale ridona all'assemblea quella forza, di cui ora manca, pure egli è cosa interessante di non perdere di mira una verità che dalla stessa natura umana risulta. Le assemblee, capacissime nel sindacare, sono incapaci di concepire e di eseguire, quindi, per conservare la necessaria energia nelle intraprese del governo, bisognerà sempre (adattando alle circostanze il principio) affidare ad un solo l'incarico di concepire il disegno e di effettuarlo, quindi unità ed energia nell'azione, riserbandosi l'assemblea un perpetuo ed illimitato sindacato. Non altrimenti governavasi il Senato di Roma; e finché nella repubblica non vi furono poveri per vendersi e ricchi per comprarli ed ogni cittadino era soldato, la libertà non corse mai rischio veruno. Per contro, nei Stati moderni non v'è potere, limitato che sia, il quale non tenti e non riesca ad usurpare; ciò dipende dalla condizione economica della società, ed ogni rimedio, finché non cangia il patto, è vano.
Molti osserveranno che, per attuare una simile trasformazione, sarà necessario far violenza ai proprietarî ed ai capitalisti; e noi risponderemo che sí; e in forza di quel diritto medesimo che hanno gli oppressi di abbattere la tirannide, che ha la società presente contro i ladri.
Finalmente, se in cotesta trasformazione, certo meno violenta di quello che molti si vanno immaginando, molti interessi privati soffriranno, e moltissimi cadranno nella lotta, noi risponderemo che le rivoluzioni in cui tutti si salvano, esistono solo nella mente dei dottrinanti e degli utopisti; la rivoluzione è sempre una lotta di oppressi contro una classe di oppressori, quindi se vi sarà vittoria, vi sarà eziandio disfatta; scacciare un re dal trono non è rivoluzione: la rivoluzione si compie quando le istituzioni, gli interessi, su cui quel trono poggiava, son cangiati.
Conchiudiamo, ripetendo agli economisti le medesime loro parole: "Non si giunge senza perdite sulla breccia. Né possiamo tener conto delle vittime che il carro del progresso schiaccia nel suo corso". Ed usando il medesimo linguaggio di Malthus diremo: "La Natura ha prescritto all'uomo di lavorare per vivere, l'ozioso non ha piazza nel banchetto della vita; la Natura gli comanda d'andarsene, né tarderà dare ella medesima esecuzione alla sua sentenza".

XIX. La filosofia della storia prova ad evidenza che l'umano istinto, come è sua natura, considerando la sola apparenza e l'effetto immediato delle cose, senza riflettere sulle conseguenze che ne risultano, va soggetto ad un continuo errare; quindi la pubblica educazione, che ferma l'attenzione e sviluppa il pensiero, non solo è dovuta di diritto ad ognuno, ma è il cardine principale della libertà.
Il Filangieri, col suo naturale splendore, lungamente ha ragionato di ciò, ma suo malgrado, soggiacque ai pregiudizî ed alle opinioni dell'epoca. Egli richiede la prosperità universale come una condizione indispensabile alla felicità di uno Stato "che può dirsi ricco e felice, egli scrive, solo quando ogni cittadino, con un lavoro discreto di alcune ore, può comodamente supplire ai suoi bisogni ed a quelli della sua famiglia". Nell'epoca in cui visse l'Autore, l'accrescimento continuo del prodotto faceva credere come cosa possibile che la prosperità potesse un giorno non ugualmente ma equamente spandersi su tutti; non ancora l'esperienza avea dimostrato il contrario e disingannato gli illusi; non ancora la ragione avea sentenziato che l'universale miseria e l'opulenza di pochissimi è il risultamento inevitabile del presente patto sociale.
Il Filangieri adattò il suo sistema d'educazione ad una società composta di due classi, ricchi e non ricchi; destinava i primi a servire la società con la mente, i secondi con le braccia, e quindi due metodi diversi di educazione. Per impedire che sorgessero un gran numero di semi-dotti, che ora si vedono, i quali senza utile della scienza privano il lavoro di braccia, fece in modo che la dottrina fosse accessibile, per le spese che richiedeva, ai soli ricchi. Ma cotesta base, sulla quale poggiano le diverse parti del suo sistema, egregie tutte, è erronea.
La diversità delle incumbenze, cioè: servire la società con la mente o con le braccia, dal sistema del Filangieri era resa ereditaria, ed il popolo sarebbe stato diviso in due classi, non solo separate dal caso distributore delle ricchezze, ma dalle leggi, che non per diritto, ma di fatto accordavano ai soli ricchi il monopolio della scienza. Né il vendere a caro prezzo la dottrina avrebbe minorato il numero de' semi-dotti, anzi ciò l'avrebbe accresciuto oltre misura. La vera dottrina è raggiunta solo da quelli che la Natura predispone a ciò, concedendo loro le necessarie facoltà per conseguirla, ed a questa predisposizione, che sola non basta, fa d'uopo che si aggiungano de' gagliardi moventi, che gli avvenimenti, a cui la società va soggetta, creano; e tanto l'una, come gli altri difficilmente si riscontrano, raramente operano fra il giro ristrettissimo dei ricchi, a cui l'abbondanza, il lusso inflaccidiscono le fibre, e piú all'ozio che alla solerzia li predispongono; i ricchi non sarebbero che semi-dotti, e divenuta la dottrina un privilegio da ottenersi a prezzo d'oro, i semi-ricchi, per far comprendere i loro figli fra coloro che debbono servire lo Stato con la mente, ovvero comandare, farebbero qualunque sacrifizio, ed il numero dei semi-dotti verrebbe accresciuto in immenso; inoltre ne seguirebbe lo scadimento, l'avvilimento del lavoro, e di coloro che i ristretti mezzi condannerebbero a servire la patria con le braccia. Cosí ogni legge, che per impedire un male qualunque, pregiudica la libertà e l'uguaglianza, produrrà sempre un effetto diverso da quello che si propone il legislatore.
Gli uomini sono naturalmente inclinati al lavoro delle braccia, si giovano delle facoltà mentali per agevolare il lavoro di quelle; la dottrina, l'astrazione non è naturale all'uomo. Ma i governi d'oggi, che per intervenire in ogni cosa creano un numero strabocchevole di salariati; la farragine di leggi oscure e contradditorie d'onde pullulano a sciami i curiali come dalla putredine gli insetti, e salariati e curiali impinguandosi a spese di coloro che lavorano, hanno diviso la società in scorticatori e scorticati, ed avvilito il lavoro. Ognuno, se sa leggere, potendo farsi comprendere fra i primi, crede avvilirsi se adopera la vanga o conduce l'aratro. Ma, allorché sarà data al lavoro la considerazione che merita, nessuno l'abbandonerà per una semi-dottrina che non potrà fruttargli né considerazione né lucro. Lasciamo a tutti aperta la via che mena alla scienza, ed essa sarà percorsa, volontariamente, solo da coloro che Natura ha destinato a sublimarsi in essa. Questo è il principio generale sul quale bisogna basare il sistema d'educazione, nei particolari egregiamente svolto dal Filangieri; e però noi [non faremo che] accennare poche idee senza dilungarci su di un argomento ampiamente trattato da grandissimi ingegni.
Sino all'età dei sette anni, le cure materne sono indispensabili ai fanciulli, sono prescritte dalla Natura: raggiunta questa età lo sviluppo fisico è pienamente assicurato, l'educazione del fanciullo verrà affidata allo Stato.
Ogni Comune avrebbe il suo ginnasio ove si troverebbero tutti i mezzi necessarî allo sviluppo completo delle facoltà fisiche e morali. Né dovrebbe trascurarsi la sublime idea del Campanella di adornare le pareti con dipinti che tutte le scienze rappresentassero.
Non dovrebbero i convittori vivere in comune, imperocché per ottenere l'unità nazionale bisogna riserbare integra ogni individualità, ed il vivere sempre insieme forma sette, quindi i giovanetti sarebbero tutti alunni esterni.
L'educazione in questi ginnasi durerebbe sino all'età di quindici anni, nel qual tempo ogni alunno apprenderebbe un'arte di suo gradimento. Dai quindici ai sedici tutti sarebbero obbligati di assistere ad un corso di filosofia civile ed origine di tutti i culti, onde ognuno imparasse i diritti di cittadino e potesse garentirsi dalla superstizione. Ai sedici anni le naturali inclinazioni son pienamente sviluppate, ogni giovane dichiara la sua volontà, e sceglie l'arte o la professione alla quale vuol dedicarsi. Lo Stato gli accorda altri due anni d'istruzione nella specialità da esso prescelta, e queste scuole di tecnologia si troverebbero nelle principali città d'Italia. A diciotto anni la tutela della nazione cessa, ed il giovane, avendo il diritto di entrare in un'associazione di sua scelta, è dichiarato cittadino e milite, e deve da sé procacciarsi da vivere.
Ragioneremo ora dell'educazione delle donne e di ciò che ad esse riguarda, con la brevità medesima che ci siamo imposti in questo ramo della costituzione sociale. Sarebbe stata una lacuna troppo significante, tacendo della piú bella parte del genere umano, depositaria dei piú vivi ed ardenti piaceri. La Natura ha dato loro fibre piú delicate e piú sensibili delle nostre, e però le loro sensazioni vivissime non possono essere che fugaci; elleno non possono sopportare lungamente l'impero d'una passione, che deve in loro ammorzarsi con la rapidità medesima che si desta. Capaci di quelle azioni ove il decidersi e l'eseguire succedonsi rapidamente, son poi incapaci di sopportar a lungo dolori, e mirare al conseguimento di un fine con attenzione profonda e prolungata: brillano sí, ma non grandeggiano.
L'amore nelle donne ha un carattere diverso che nell'uomo; l'uomo s'accende delle bellezze della donna e desidera fortemente, la donna invece è presa dall'amore che inspira, non desidera, ma brama di essere desiderata. Dante parlando di Francesca, ha espresso questa idea:

Amor che a nullo amato amar perdona
Mi prese del costui piacer sí forte

di quinci il pudore, che accresce in altri il desiderio. Epperò [la] preponderanza dell'amore sulle altre passioni, aggiunte alle cure ed agli incomodi di dovere esser madre, la rendono inabile al governo ed alla milizia, quindi non potrebbero aver voto nelle cose pubbliche. Ma, d'altra parte, la Natura, avendole create abili a procacciarsi come vivere, le ha dichiarate, perciò, indipendenti e libere, e tale dovrà essere la loro condizione sociale. Esse saranno educate come gli uomini, con i riguardi e le modifiche nel metodo, che si debbono alla gentilezza del sesso; al pari degli uomini, con uguali diritti, dovranno essere ammesse in quelle società che prescelgono. Probabilmente i lavori da sarto, da crestai, le belle arti, da donne sarebbero tutte esercitate.
Tutte le leggi sono scaturite dalle dipendenze che la violenza e l'ignoranza stabilí fra gli uomini; ed in tal guisa il matrimonio risultò dai ratti che i piú forti fecero delle piú belle, e se ne usurparono il godimento. La Natura, per contro, sottopone l'unione dei due sessi alla sola legge dell'amore, e se un'altra regola, qualunque siasi, interviene, l'unione cangiasi in contratto, in prostituzione. La meretrice che senza amore vende il suo corpo, la donna che senza amore sottoscrive ad un contratto matrimoniale si prostituiscono egualmente. La prima vi è costretta dal bisogno e vendesi per breve tempo, l'altra è piú spregevole, perché, senza bisogno, vendesi per sempre; quella non promette amore né si obbliga a rinunziarvi, questa lo promette per sempre quasi premeditando lo spergiuro. L'amore adunque nel nostro patto sociale sarà la sola condizione richiesta che tende legittimo il congiugnimento de' due sessi; se manca l'amore, la volontà, la libertà diventa prostituzione.
La comunanza delle donne non è naturale, l'amore è esclusivo, quasi tutti gli animali non si accoppiano che con una sola femmina; le varie coppie si formeranno da sé, l'unione durerà finché dura l'amore, cessato questo l'unione è sciolta di fatto.
L'uomo deve provvedere alla sussistenza della sua compagna finché i doveri di madre gl'impediscono di lavorare.
I figli rimarranno con la madre, alla quale per legge di Natura appartengono. Sino ai sette anni essa provvederà, con l'aiuto del padre, che dovrà concorrere alle spese necessarie per essi con una somma proporzionata ai suoi lucri. Dai sette anni ai diciotto la Nazione ne assume la tutela e l'educazione; ai diciotto sono liberi affatto e provvedono a loro medesimi.
Non essendovi testamenti, né le altre mostruose leggi che vorrebbero rendere ereditario finanche il merito, il formarsi e lo sciogliersi delle coppie non ha ostacoli né impaccio di sorte alcuna.
Qui fo fine ed avendo misurate le vele col vento ed il timone con l'onde, non mi sono imposto l'obbligo di risolvere il problema sociale; il mio proposito è stato di mostrare la profondità delle piaghe, e l'inefficacia d'ogni rimedio, finché non venga estirpato il diritto di proprietà e le sue conseguenze, e questo proposito credo d'averlo compito; spetta all'intera nazione di stabilire, dopo aver tolto gli ostacoli che ho additati, la sua nuova costituzione, e se ho cercato d'indicarne i punti principali, l'ho fatto solo per rintuzzare la stupida risposta: è impossibile vivere altrimenti. Il rinvenire in questo cenno degl'incovenienti non sarà difficile, ma saranno, certamente, molto minori de' mali sotto cui l'umanità geme oppressa, mali che fatalmente, senza tregua, ingrandiscono; mali, che la prepotente forza dell'abito fa credere inevitabili, e perciò vengono, con pazienza, sofferti.
Nella ricerca della nuova costituzione sociale ho seguito il metodo semplicissimo, che il corso naturale degli avvenimenti additavami: distruggere il presente, e creare il nuovo patto sociale, basandolo su' principî che le leggi magistrali della Natura c'insegnano. Ho svolto poi i vantaggi del sistema dimostrando che le tendenze funeste della presente società vengono completamente a cangiarsi.
Conchiudo con rammentare a' conservatori che la rivoluzione sociale non sarebbe affrettata neppur di un'ora, eziandio se tutto il mondo riconoscesse attuabile un nuovo ordinamento sociale; questa crisi della società dipende da cagioni assai piú terribili e fatali; essa dipende dalle tendenze che inesorabilmente, in progressione geometrica, si manifestano. Potete voi, non già estirpare la miseria, ma evitare che cresca? potete voi negare che la forza materiale è dalla parte di coloro che soffrono? e se le tradizioni e l'inerzia formano il solo fascino per cui la società presente non crolla, in un istante impreveduto può rompersi l'incanto.


XX. Senza accordare importanza soverchia a' colori d'una bandiera ed alla formola scritta su di essa, esporremo la nostra opinione su di ciò, poiché trattasi di cosa che richiede pochissima fatica; opinione di cui ci faremmo i propugnatori in un'assemblea, se mai potesse capitarne l'occasione.
Fintanto che la nazione non sarà perfettamente libera, ed avrà completamente debellati i suoi nemici, non bisogna né discutere, né porre in dubbio, quale dovrà essere la bandiera che ci condurrà alla battaglia. Il vessillo tricolore è da tutti riconosciuto, e ciò basta: ove sventola e rannoda de' guerrieri intorno a sé, questi guerrieri combattono pel trionfo della rivoluzione italiana, e nessun rivoluzionario può astenersi dal seguirli; ma se su tale bandiera scorgesi un simbolo od una formola, allora ognuno ha il diritto di dire: quella causa non è causa che mi riguarda, e per la quale io combatto; proporre formole è un dissolvere, e dissolvere per puerile soddisfazione personale.
Terminata la guerra, ricostituita l'Italia, conserverà essa il tricolore vessillo, o adotterà un'altra bandiera? pare che le opinioni potrebbero dividersi su tale argomento; alcuni sosterrebbero con ragione che la nuova costituzione sociale, non ammettendo divisione di potere, ma le leggi, la loro esecuzione, il loro sindacato, tutto trovandosi nel popolo, la pluralità de' colori, che precisamente accenna è assurda, quindi diranno: sia qual si voglia il colore della bandiera, ma sia un solo. Altri invece potranno sostenere che il vessillo tricolore, intorno a cui si saranno vinte tante battaglie, è troppo caro, è troppo ricco di gloriose reminiscenze, per abbandonarlo, perché non trovasi perfettamente d'accordo con la logica: noi saremmo tra questi ultimi, proponendo solo che il berretto frigio ne sormonti l'asta, escludendo ogn'altro simbolo d'autorità e di conquista, e che nel mezzo di esso, l'archipendolo indichi come l'uguaglianza sia il patto fondamentale di nostra costituzione.
Rimane ora a discutere quale sarà la formola che adotterà la nazione, noi trascriveremo il ragionamento sensatissimo, che troviamo nell'opera di Ausonio Franchi, La Religione del secolo XIX, in cui si fa paragone tra la formola francese, Libertà, Eguaglianza, Fratellanza e la formola di Mazzini, Dio e Popolo:

"Esaminiamo le differenze radicali, finora poco avvertite, e nondimeno importanti, che Mazzini scorge fra una formola e l'altra. "La Francese è essenzialmente storica; ricapitola in certo modo la vita dell'umanità nel passato, accennando poco definitivamente al futuro". Questo giudizio, né quanto al passato, né quanto al futuro, non parmi esatto. La formola: Libertà, Eguaglianza, Fratellanza, non può dirsi che recapitoli la vita reale dell'umanità nel passato; perché non può ricapitolarsi quello che non è ancora esistito, e Mazzini per fermo non saprebbe indicarci nessun'epoca della storia in cui già regnasse la libertà, l'eguaglianza e la fratellanza universale. Onde egli stesso, tracciando l'ordine e lo sviluppo con cui si vennero elaborando i tre elementi della formola, parla sempre dell'idea, non mai del fatto. E però, se la formola teoricamente è la ricapitolazione del passato, praticamente è la legge del futuro; legge, non poco definita, ma cosí chiara, che non ha mestieri d'alcuna spiegazione; cosí vasta, che abbraccia tutte le condizioni private e pubbliche della vita; cosí progressiva, che nemmeno col pensiero si può oltrepassare la perfezione, che prefigge qual meta alla carriera dell'umanità.
"La formola italiana (cosí appella Mazzini la sua) è invece radicalmente filosofica; accettando le conquiste del passato, guarda risolutamente al futuro, e tende a definire il metodo piú opportuno allo svolgimento progressivo delle facoltà umane". Confesso che tutto questo periodo è per me un enigma. In qual senso può mai chiamarsi filosofica l'espressione: Dio e il Popolo? Nessuno di questi due termini ha qualche relazione particolare con la filosofia: non Dio, perché è concetto religioso anziché scientifico; non il Popolo, perché è concetto empirico anziché scientifico razionale. E come può dirsi che quella formola accetti le conquiste del passato? Né Dio né il Popolo sono principî che l'umanità abbia conquistato: ma l'uno è il simbolo di un sentimento connaturale allo spirito umano, e l'altro per sé non è che un fatto materiale. Come può dunque guardare al futuro? Come tendere a definire un metodo qualsiasi per lo svolgimento delle umane facoltà? Ho un bel ripetere a me stesso: Dio e il Popolo; io non ritrovo in queste parole né passato, né futuro; non ci veggo né definizione, né metodo di sorta; non ci sento né progresso, né svolgimento di nessuna facoltà: scientificamente non ci trovo nulla; perché Dio è un'incognita, e il Popolo è un fenomeno di storia naturale.
"La prima esprime compendiato un grande fatto: la seconda scrive su la bandiera un principio. La prima definisce, afferma il progresso compiuto: la seconda costituisce lo strumento del progresso, il mezzo, il modo, per cui deve compirsi". A me sembra tutto il contrario. La formola francese non esprime un fatto, ma un principio; perché i suoi elementi sono idee, sono verità che hanno ancora da incarnarsi e realizzarsi nella storia. Essa adunque afferma bensí un progresso compiuto nell'ordine del pensiero, ma determina insieme la legge del progresso da compiersi nell'ordine dell'azione. All'incontro, la formola di Mazzini non significa né il progresso compiuto, né quello da compirsi; né la verità d'un principio, né la legge d'un fatto; e l'ingegno il piú acuto ed analitico del mondo non arriverà giammai a scoprire in quelle due voci la costituzione di uno strumento, di un mezzo, di un modo quale che sia di progresso.
Ben ve lo scorge Mazzini, lo so; ma ve lo scorge mediante un commento che dà ai due termini un senso tutto suo proprio. Egli continua infatti: "Una formola filosofico-politica, per aver dritto e potenza d'avviar normalmente i lavori umani, deve racchiudere due sommi termini: la surgente, la sanzione morale del progresso: la legge e l'interprete della legge".
Questa nozione della formola politica, a mio avviso, è falsa. Una formola scientifica non è altro, che l'espressione chiara e concisa, e quasi la riduzione a' minimi termini di una legge. Ora che cosa sono, nel linguaggio filosofico, le leggi? Sono i rapporti naturali e necessarî degli esseri. Ma per determinare questi rapporti non fa d'uopo di assegnarne la surgente; e nessuna legge fisica, matematica, metafisica e morale si fa dipendere in alcuna guisa dal concetto della sua causa. Dunque il primo termine, che Mazzini prescrive alla formola, non le appartiene. E non le appartiene neppur il secondo, che è, giusta la sua dottrina, la sanzione o l'interpretazione della legge. In primo luogo, perché la sanzione d'una legge non ha che fare con la sua interpretazione: identificare l'una con l'altra, è distruggerle entrambe. In secondo luogo, perché la formola d'una legge è affatto diversa ed indipendente dalla sua interpretazione e dalla sua sanzione: le sono quistioni d'ordine e di natura al tutto differente: confonderle in una è renderle insolubili tutte.
La formula politica adunque non deve esprimere altro che la legge sociale, ossia i rapporti naturali e necessarî de' cittadini verso la nazione, e delle nazioni verso l'umanità. La surgente poi e la sanzione di questa legge sono due problemi a parte, gravissimi e importantissimi quanto si voglia, ma indipendenti dalla formola. Dunque allorché Mazzini soggiunge: "Questi due termini mancano alla formola francese, costituiscono l'italiana", pronuncia senz'accorgersene il piú grande elogio di quella e la piú severa condanna della sua.
"La surgente, la sanzione morale della legge sta in Dio, cioè in una sfera inviolabile, eterna, suprema, su tutta quanta l'umanità, e indipendente dall'arbitrio, dall'errore, dalla forza cieca e di breve durata. Piú esattamente Dio e legge sono termini identici". Con questo commento, lungi dallo spiegare la sua formola, Mazzini l'immerge in un pelago di nuove difficoltà e di nuovi misteri. Se Dio e legge sono termini identici, la sua tesi, che la surgente, la sanzione della legge sta in Dio, equivale precisamente a quest'altre: la surgente della legge è la legge: - la sanzione della legge è la legge; - la surgente di Dio è Dio; - la sanzione di Dio è Dio; - la legge è la legge, - Dio è Dio. - E che senso daremo noi a questo gergo? Inoltre se la legge è Dio, convien dunque sapere che cos'è Dio per conoscere che cosa sia la legge. E il Dio di Mazzini qual è? Ecco il nodo della questione. L'accennare, come egli fa, ad una sfera inviolabile, eterna, suprema, non è definire; poiché a tutte quante le religioni e le sette possono appropriarsi quelle belle parole; ma son parole! Avanti d'accettare la sua formola, dobbiamo chiedergli che ci dica una buona volta, senza ambagi e senza tropi, che cos'è Dio? Ovvero fra i varî Dei presentemente noti in Europa, qual è il suo? Teologicamente noi possiamo annoverarne quattro, assai diversi fra loro: il Dio degli ebrei, il Dio de' cattolici, il Dio de' maomettani, e il Dio de' protestanti. Filosoficamente, poi, li Dei possono contarsi a centinaia. Ciascuno de' molti sistemi di panteismo, di materialismo, di spiritualismo, d'idealismo, ecc., ha un suo Dio particolare, che è sempre la negazione del Dio di ciascun altro. Or bene: fra questa turba di Dei, qual è il Dio che Mazzini adora e che vuol farci adorare? Da' suoi scritti non mi venne mai fatto di raccapezzarlo; poiché ci sono frasi per tutti: ce n'è per il Dio del papa, per quello di Lutero, per quello di Maometto, per quello di Socino, per quello di Rousseau, per quello di Spinoza... Non è dunque possibile che la sua formola abbia un valore, finché il primo e massimo elemento non è ben definito.
"L'interpret[azione] della legge fu problema continuo all'umanità. - La formola italiana affida l'interpretazione della legge al popolo, cioè alla Nazione, all'Umanità collettiva, all'associazione di tutte le facoltà, di tutte le forze, coordinate ad un patto". Qui abbiamo una certa definizione; ma siccome è arbitraria, cosí non vale a costituire né legge né formola veruna. Chi abbia già del Popolo la sublime idea che a Mazzini venne inspirata dal suo nobile cuore, dirà come lui, certamente: ma i termini d'una formula, di una legge sociale, devono portare in se stessi il loro valore, e non ritrarlo dall'arbitrio e dall'intenzione dello scrittore. Fra i due termini Dio e il Popolo, non è espresso alcun rapporto; dunque o bisogna supporre che l'unico rapporto possibile sia quello di Mazzini; o altrimenti la sua formula non significa nulla perché non determina nulla. Il primo caso non è ammessibile, dacché ripugna egualmente alla logica ed alla storia; dunque sta il secondo.
"La formola italiana, intesa a dovere, sopprime dunque per sempre ogni casta, ogni interprete privilegiato, ogni intermediario per diritto proprio tra Dio, padre e inspiratore dell'umanità, e l'umanità stessa". Ma perché possa produrre tanti bei frutti la formola va intesa a dovere, cioè nel senso di Mazzini; chè, altrimenti, preso ciascun termine come suona, non ha senso alcuno determinato. E questa clausola sola non prova abbastanza la completa nullità della formula mazziniana? La francese all'incontro sopprime ogni casta, ogni interprete privilegiato, senza bisogno di chiose che ne la facciano intendere a dovere; ma semplicemente in virtú del senso naturale, ordinario e vulgarissimo delle parole. Dovunque sia libertà, eguaglianza e fratellanza, ivi è impossibile fino il concetto di casta e di privilegio; laddove Dio e il Popolo son dappertutto, e pure dappertutto regna il privilegio e la casta.
"La formula italiana, generalizzata da una nazione all'associazione delle nazioni, dichiara fondamento d'una teoria della vita: Dio è Dio, e l'umanità è suo profeta". Non so capire come un apostolo del progresso abbia potuto tenere questo linguaggio che odora cosí forte di musulmano. Oh! Mazzini dovea lasciarlo a quei devoti e fanatici settarî, i quali credono tanto piú fermamente una cosa, quanto piú è incomprensibile ed assurda; ma egli parla ad uomini civili del secolo XIX, e sa meglio di me che costoro non sono disposti a credere se non quello che intendono. O spera forse d'aver loro tolto ogni dubbio e chiarita ogni difficultà con quella strana definizione: Dio è Dio? E quando avranno imparato che Dio è Dio, conosceran poi davvero che cos'è Dio? Quando pure gli concedano che l'Umanità è profeta di Dio, potranno persuadersi d'aver trovato il fondamento d'una teoria della vita? Una teoria non può assumere per fondamento se non un principio certo ed evidente; e Mazzini vuol fondare la teoria della vita sopra d'un giuoco di parole, sopra di un'incognita?
"La formula italiana è dunque essenzialmente, inevitabilmente, esclusivamente repubblicana; non può uscire che da una credenza repubblicana; non può inaugurare che repubblica". Ed anche questa conclusione è fallace. La formula Dio e il Popolo non è, e non può dirsi né esclusivamente, né inevitabilmente repubblicana, poiché è essenzialmente indeterminata, ossia nulla. Essa riceve il suo significato dal carattere di chi la proclama; ed è repubblicana sulla bandiera di Mazzini, come sarebbe teocratica su quella di Pio IX.
"La formula francese, non accennando alla surgente eterna della legge, ha potere per difendere con la forza, co 'l terrore, non con l'educazione, alla quale manca la base, le conquiste del passato; è muta, incerta, mal ferma su l'avvenire". V'ha qui un gruppo di metafore, in cui non veggo lume da nessuna parte. Accusare una formula di non potersi difendere! Mescolare insieme formula e forza; formula e terrore, formula ed educazione! O che? la formula dev'essere dunque un esercito o una fortezza, una scuola o un'accademia? E la formula di Mazzini ha dunque il potere di educare? A crederlo però aspetteremo di vederla salire in bigoncia, e di ascoltare le sue pedagogiche lezioni!... Del resto che la francese non accenni alla surgente della legge, è appunto il suo pregio e il suo merito principale; e che sia muta, incerta, mal ferma su l'avvenire, non può sostenerlo, se non chi ignori o voglia affatto dimenticare il senso piú ovvio delle parole libertà, eguaglianza, fratellanza.
Il rimanente del suo discorso dovrei dire, se non si trattasse di Giuseppe Mazzini, che offende troppo il senso comune: "La formola francese non definendo l'interprete della legge, lascia schiuso il varco agl'interpreti privilegiati, papi, monarchi o soldati. Quella formola poté nascere dagl'ultimi aneliti d'una monarchia: sussistere ipocritamente in una repubblica che strozzava la libertà repubblicana di Roma: soccombere sotto il nepote di Napoleone, che dichiarava: io sono il migliore interprete della legge, io sarò tutore alla libertà, all'eguaglianza, alla fratellanza de' milioni". Come! Mazzini trova modo di associare insieme questi concetti: libertà e privilegio, eguaglianza e papa, fraternità e monarca o soldato! Ma se questi non sono concetti rigorosamente, evidentemente, palpabilmente contraddittori, c'insegni un po' che cosa sia ripugnanza e contraddizione; giacché, se mi permette di ragionare con la sua logica, io gli convertirò tutti gli assurdi in altrettanti assiomi. Inoltre, quel rimprovero che esso rivolge alla formola francese, mi fa nuovamente dubitare ch'egli esiga proprio dalle formole l'officio degli schioppi, dei cannoni e delle bombe.
Ma non è una stranezza, a dir poco, l'imputare ad una formola le iniquità di un governo? Quelle iniquità erano forse una conseguenza legittima e necessaria di quella formola? Questo governo era forse fedele al suo principio? A chi mai farà credere Mazzini che se in luogo delle parole: liberté, égalité, fraternité, fosse stato scritto in fronte a' pubblici monumenti: Dio e il Popolo, l'assemblea francese non avrebbe decretato la spedizione di Roma, né il Bonaparte avrebbe fatto il colpo di stato? Le parole: Dio e il Popolo ben erano scritte sulle bandiere di Roma; e perché non fecero il miracolo di salvarla? Perché Mazzini non isconfisse i battaglioni francesi, non disperse le artiglierie tedesche, non mantenne saldi ed incolumi i bastioni italiani co 'l suo magico grido: Dio e il Popolo? - In verità, io arrossisco di dover discutere argumenti cosí stravaganti. No, Napoleone non commise la follia di dichiararsi tutore della libertà, dell'uguaglianza, e della fratellanza dei milioni. Egli fu assai piú consentaneo a se stesso: "giú la libertà, egli disse, giú l'eguaglianza e la fratellanza! Io sono il vincitore e comando: il popolo è vinto e obbedisca". E quella povera formula, che Mazzini stima conciliabile di fatto col dispotismo, Napoleone non la giudicò compatibile, né pur di solo nome, co 'l suo potere: la cancellò dapertutto! Ma invece quale è la formula che trovò bella e fatta per lui? È quella di Mazzini: in nome di Dio e del Popolo (par la grace de Dieu et la volonté nationale)...
Ed è la storia, non io, che dà una smentita cosí fresca e solenne a quell'altra singolare asserzione: "Né papa né re potrebbero assumere co' repubblicani italiani linguaggio siffatto. La formola inesorabile gli direbbe: non conosciamo interpreti intermediarî, privilegiati tra Dio e il popolo; scendi ne' suoi ranghi, ed abdica". Sí, Bonaparte ha assunto linguaggio siffatto co' repubblicani; e la formola di Mazzini si mostrò, non mica inesorabile, ma la piú compiacente e pieghevole creatura del mondo. Essa non solamente stette cheta e si tacque; ma fece assai piú, ed assai peggio. Si presentò lesta lesta al Bonaparte e gli disse: "Tu cerchi un'insegna per la tua bandiera ed un'iscrizione pe' tuoi decreti: eccomi qua, nata, fatta per te. Grida sempre: Dio e Popolo, e fa quel che vuoi: tu avrai sempre ragione". Oh! Mazzini è tornato in mal punto a celebrare la sua formola. Doveva almeno purgarla dal fango, di cui l'ha contaminata Bonaparte! e assolverla dall'infamia, onde l'hanno coperta i bonapartisti!..."

Ho cominciato a trascrivere questa splendida confutazione della formula mazziniana, col proposito di sceverarla de' periodi meno interessanti; ma, fatta eccezione di alcune parole, nel principio ed alla fine, le une che servono di legame con quello di cui precedentemente ragiona l'A. e le altre che riguardano lui personalmente, non ho trovato nulla che ridondi, che non interessi, che non piaccia, perciò interamente e fedelmente l'ho trascritta. Aggiungo ora le mie osservazioni.
Le condizioni alle quali debba soddisfare una formola politica, attenendoci alle opinioni medesime del Mazzini e del Franchi, sono che: deve esprimere la verità d'un principio, la legge d'un fatto; un principio che, base del patto sociale, determini i rapporti de' cittadini fra loro e con la società, ed accenni eziandio la legge che darà norma al progresso futuro. E tutto ciò, leggendo la formola, deve presentarsi chiaro, immediato, concreto alla mente d'ognuno, senza aver bisogno d'interpreti o di commenti.
A me pare che la formola francese non soddisfi a queste condizioni. Il suo merito altro non è che non contraddirle. Libertà non può esistere senza eguaglianza; quindi una di queste due parole ridonda; se tutti sono eguali non potranno essere che liberi, né potranno dirsi liberi i cittadini fra cui non siavi eguaglianza; e la fratellanza poi, come che accenni il fine a cui tende la nazione, il patto che lega i cittadini è un'ipocrisia perché non esiste in natura; e se i cittadini vivranno come fratelli perché tali li rendono gl'interessi tutti cospiranti al bene pubblico, non perciò saranno tali; inoltre da questa parola viene l'odore del cristianesmo a mille miglia.
Non comprendo come sia sfuggita alla mente di tutti la formola semplicissima e chiarissima, già titolo d'un savio giornaletto che pubblicavasi in Genova: LIBERTÀ ED ASSOCIAZIONE.
Questa formola, evidente per se medesima, non ha bisogno né d'interpreti, né di commenti; essa è un principio, ed è quello appunto su cui deve basarsi il patto sociale: la libertà esprime il diritto d'ogni Italiano, l'associazione la sola legge a cui si sottopongono, il solo patto che li unisce, l'unico rapporto sociale; e sotto questa unica legge, eziandio, deve svilupparsi l'indefinito progresso sociale.
Come Ausonio Franchi, dico che per noi deve essere "nostrale ogni verità, straniero ogni errore": ma in parità di circostanze preferisco ciò ch'è italiano a ciò ch'è straniero. E quando ad una formola adottata da un'altra nazione io trovo da sostituirne altra uguale o migliore, non dubito un istante, perché l'imitazione mai è scompagnata da qualche cosa di servile. Sono umanitario, ma innanzitutto italiano, e come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, cosí non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua completa autonomia; e come è impossibile sorgere a libertà prima che ognuno senta ed operi liberamente, del pari il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani, onde avviarci alla soluzione del problema umanitario, è quello di sentirci e di costituirci esclusivamente italiani. Come dalla libera manifestazione del pensiero d'ognuno risulta il vasto concetto nazionale; cosí dalla libertà ed esistenza propria ed assoluta d'ogni nazione può risultarne il patto umanitario; chi ammette supremazia di nazione, astri e satelliti, nega la rivoluzione verso cui aspiriamo.

TESTAMENTO POLITICO

Genova, 24 giugno 1857.

Nel momento d'avventurarmi in una intrapresa risicata, voglio manifestare al paese la mia opinione per combattere la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire ai vinti.
I miei principî politici sono sufficientemente conosciuti; io credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai sistemi francesi, tutti piú o meno fondati sull'idea monarchica e dispotica, che prevale nella nazione: esso è l'avvenire inevitabile e prossimo dell'Italia e fors'anche dell'Europa intiera. Il socialismo, di cui parlo, può definirsi in queste due parole: libertà e associazione. Questa opinione fu da me sviluppata in due volumi, che ho composto, frutto di quasi sei anni di studi, ai quali per mancanza di tempo non ho potuto dedicare le ultime cure che richiedono lo stile e la dizione. Se qualcheduno fra [i] miei amici volesse surrogarmi e pubblicare questi due volumi, io gliene sarei riconoscentissimo.
Io sono convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell'industria, tutto ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio, è da una legge fatale destinato ad impoverire le masse fino a che il riparto dei benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma li accumolano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato progresso termina per non esser altro che decadenza. Se tali pretesi miglioramenti si considerano come un progresso, questo sarà nel senso di aumentar la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile rivoluzione, la quale cambiando l'ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni.
Io sono convinto che l'Italia sarà grande per la libertà o sarà schiava: io sono convinto che i rimedî temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e le migliorie progressive accordate alla Lombardia, ben lungi dal far avanzare il risorgimento d'Italia, non possono che ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io non farei il piú piccolo sacrifizio per cambiare un ministero o per ottenere una costituzione, neppure per scacciare gli Austriaci dalla Lombardia e riunire questa provincia al regno di Sardegna. Per mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa d'Austria sono precisamente la stessa cosa. Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte è piú nocivo all'Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II. Io credo fermamente che se il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che lo furono gli altri Stati italiani, la rivoluzione d'Italia sarebbe a quest'ora compiuta.
Questa opinione pronunciatissima deriva in me dalla profonda mia convinzione di essere la propagazione dell'idea una chimera e l'istruzione popolare un'assurdità. Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà ben tosto istrutto quando sarà libero. La sola cosa, che può fare un cittadino per essere utile al suo paese, è di attendere pazientemente il giorno, in cui potrà cooperare ad una rivoluzione materiale: le cospirazioni, i complotti, i tentativi di insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti per mezzo dei quali l'Italia s'incammina verso il suo scopo, l'unità, L'intervento della baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto piú efficace che mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro paese e del mondo intiero.
Vi sono delle persone che dicono: la rivoluzione dev'esser fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla colla cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai. Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione deve farsi dal paese e siccome io sono parte infinitesimale del paese, cosí ho io pure la mia parte infinitesimale di dovere da adempiere, e l'adempisse, la rivoluzione sarebbe fatta immediatamente e riuscirebbe invincibile perché immensa. Si può non esser d'accordo sulla forma di una cospirazione, sul luogo e sul tempo in cui una cospirazione debba compiersi: ma non essere d'accordo sul principio è un'assurdità, un'ipocrisia, un modo di celare il piú basso egoismo.
Io stimo colui che approva la cospirazione ed egli stesso non cospira: ma non sento che disprezzo per coloro, che non solo non voglion far niente ma che si compiacciono nel biasimare e nel maledire gli uomini d'azione. Secondo i miei principî avrei creduto di mancare ad un sacro dovere se vedendo la possibilità di tentare un colpo di mano su d'un punto bene scelto ed in circostanze favorevoli, non avessi spiegato tutta la mia energia per eseguirlo e farlo riuscire a buon fine.
Io non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare se stessi, di essere il salvatore della patria. No: ma io sono convinto che nel mezzogiorno dell'Italia la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quello impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciar la vita sul palco. Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo faccio. Il resto dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia vita da sacrificare per quello scopo ed in questo sacrifizio non esito punto.
Io sono persuaso, se l'impresa riesce, otterrò gli applausi generali: se soccombo, il pubblico mi biasimerà. Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento, e quelli, che nulla mai facendo passano la loro vita nel criticare gli altri, esamineranno minuziosamente il tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi accuseranno di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e di energia... Tutti questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma anche di concepirne l'idea. A quelli che diranno che l'impresa era d'impossibile riuscita io rispondo che se prima di combinare di tali imprese si dovesse ottenerne l'approvazione nel mondo bisognerebbe rinunziarvi. Il mondo non approva in prevenzione che i disegni volgari. Fu detto un pazzo colui che fece in America l'esperimento del primo battello a vapore, e si è piú tardi dimostrata l'impossibilità di traversare l'Atlantico con tali battelli. Era un pazzo il nostro Colombo prima di aver scoperto l'America, e l'uomo volgare avrebbe trattato di pazzi e d'imbecilli Annibale e Napoleone se avessero avuto a soccombere quello alla Trebbia, questo a Marengo. Io non pretendo paragonare la mia impresa con quelle di questi grandi uomini. Essa per altro loro rassomiglia in una parte: perché sarà l'oggetto dell'universale disapprovazione se fallisco, e dell'ammirazione di tutti se riesco. Se Napoleone prima di abbandonare l'isola d'Elba per sbarcare a Fréjus con cinquanta granatieri avesse domandato dei consigli, il suo progetto sarebbe stato biasimato all'unanimità. Napoleone aveva ciò ch'io non ho, il prestigio del suo nome, ma io unisco alla mia bandiera tutte le affezioni e tutte le speranze della rivoluzione italiana. Combatteranno con me tutti i dolori e tutte le miserie d'Italia.
Io piú non aggiungo che una parola: se non riesco disprezzo profondamente l'uomo ignobile e volgare che mi condannerà: se riesco apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell'animo di questi cari e generosi amici, che mi hanno recato il loro concorso ed hanno diviso i battiti del mio cuore e le mie speranze: che se il nostro sacrifizio non apporta alcun bene all'Italia, sarà almeno una gloria per essa l'aver prodotto dei figli che vollero immolarsi al suo avvenire.

Sottoscritto
CARLO PISACANE



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